Il racconto d’inverno – Atto I

(“A Winter’s tale”  1611)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Il racconto d’inverno - Atto I

Personaggi
LEONTE, re di Sicilia
MAMILLIO, giovane principe di Sicilia
CAMILLO, nobile siciliano
ANTIGONO, nobile siciliano
CLEOMENE, nobile siciliano
DIONE, nobile siciliano
POLISSENE, re di Boemia
FLORIZEL, principe di Boemia
ARCHIDAMO, nobile boemo
VECCHIO PASTORE, supposto padre di Perdita
CONTADINO, suo figlio
AUTOLICO, furfante
UN MARINAIO
UN CARCERIERE
ERMIONE, regina e moglie di Leonte
PERDITA, figlia di Leonte e Ermione
PAOLINA, moglie di Antigono
EMILIA, dama di compagnia di Ermione
MOPSA, pastore
DORCA, pastore

Altri nobili e signori, signore, ufficiali e servitori, pastori e pastore.
Tempo, che fa il Coro.

Scena: parte in Sicilia e parte in Boemia.

ATTO PRIMO – SCENA PRIMA

Entrano Camillo e Archidamo.

ARCHIDAMO

Se mai vi capiterà, Camillo, di visitare la Boemia, in un’occasione simile a questa in cui io presto qui i miei servizi, vedrete, come ho detto, grande diversità tra la nostra Boemia e la vostra Sicilia.

CAMILLO

Penso che l’estate ventura il re di Sicilia intende restituire a Boemia la visita che giustamente gli deve.

ARCHIDAMO

Il nostro ricevervi allora ci farà vergogna, ma compenseremo con l’affetto: perché davvero…

CAMILLO

Vi prego…

ARCHIDAMO

Parlo schiettamente e so quel che dico: noi non possiamo con tale magnificenza… in un così raro… non so che dire… vi daremo bevande che inducono il sonno, così che i vostri sensi (incapaci di notare le nostre manchevolezze) possano, se non lodarci, almeno non biasimarci.

CAMILLO

Voi ripagate troppo a dismisura ciò che vi viene donato spontaneamente.

ARCHIDAMO

Credetemi, parlo come m’istruisce la ragione e la sincerità mi detta.

CAMILLO

Sicilia non potrà mai essere eccessivamente gentile col Boemia. Sono stati educati insieme e un tale affetto s’è radicato tra loro che ora può solo ramificarsi. Da quando gli onori più tardi e i doveri dei regnanti li hanno separati, la loro amicizia ha continuato a durare, anche senza incontri personali, in regale rappresentanza, con scambi di doni, lettere, affettuose ambasciate, così, anche se lontani, si sono sentiti vicini; si son stretta la mano, come sopra grandi spazi; e abbracciati, potremmo dire, da dove soffiano opposti venti. Preservino gli dei il loro affetto!

ARCHIDAMO

Penso non vi sia al mondo malizia o ragione che possa alterarlo. Voi avete indescrivibile consolazione nel vostro giovane principe Mamillio: è il gentiluomo di maggior promessa che mi sia mai capitato di vedere.

CAMILLO

Sono del tutto d’accordo con voi per quanto fa ben sperare: è un ragazzo valente; uno che rallegra il popolo e ringiovanisce i vecchi cuori: quelli che si reggevano sulle stampelle prima che nascesse, ora desiderano prolungare la vita per vederlo adulto.

ARCHIDAMO

Sarebbero altrimenti contenti di morire?

CAMILLO

Sì; se non ci fosse un’altra ragione per desiderare di vivere.

ARCHIDAMO

Se il re non avesse un figlio, vorrebbero vivere sulle stampelle finché non ne arrivasse uno. Escono.

ATTO PRIMO – SCENA SECONDA

Entrano Leonte, Ermione, Mamillio, Polissene, Camillo, (e seguito).

POLISSENE

Nove volte la stella dell’acqua ha contato

il pastore da quando lasciammo vuoto

il nostro trono. Lo stesso tempo,

fratello mio, si riempirebbe dei nostri ringraziamenti;

ma egualmente partiremmo da qui

in debito perpetuo: perciò, come uno zero

(messo nel posto giusto) moltiplico

con un “grazie” i mille e mille

che gli stanno davanti.

LEONTE

Trattenete un poco i vostri grazie,

e fateli quando partirete.

POLISSENE

Sarà domani, sire.

Sono turbato dal timore di ciò che può accadere

o svilupparsi in nostra assenza; che non soffino

in patria venti di tempesta a farci dire

“giusto presentimento”. Inoltre, il mio lungo soggiorno

ha stancato vostra maestà.

LEONTE

Siamo capaci di

ben altre prove, fratello.

POLISSENE

Non più indugi.

LEONTE

Ancora sette giorni.

POLISSENE

Davvero, domani.

LEONTE

Facciamo a metà, allora:

e basta contrattare.

POLISSENE

Non insistete, vi supplico, così.

Non c’è lingua eloquente, alcuna, al mondo,

che potrebbe convincermi come la vostra: e così cederei

anche ora, se dietro la vostra richiesta vi fosse una necessità,

anche contro il mio interesse.

I miei affari, tuttavia, mi costringono a tornare;

trascurarli (per amor vostro) sarebbe per me una punizione;

restare, un fardello e un fastidio per voi: ad evitare entrambi,

addio fratello.

LEONTE

Ha la lingua legata la nostra regina? Parlate.

ERMIONE

Avevo deciso, sire, di restare zitta finché non

l’avreste costretto a giurare di dover partire. Ma voi, sire,

gli parlate con poco calore. Ditegli che certamente

tutto va bene in Boemia; questa buona notizia

ci è arrivata ieri: ditegli questo,

e avrà perso la sua miglior difesa.

LEONTE

Ben detto, Ermione.

ERMIONE

Dire che vuole rivedere il figlio, sarebbe

una buona ragione:

ma allora lo dica, e parta;

lo giuri che è così, e non sarà trattenuto,

anzi, lo cacceremo via di qui a bastonate.

Tuttavia, la vostra regale presenza oso chiedere

in prestito per un’altra settimana. Quando in Boemia

voi ospiterete il mio signore, io gli darò consenso

di rimanere un mese oltre la data

prefissa alla partenza: e in verità, Leonte,

sai che non ti amo un battito dell’orologio meno

d’una moglie devota al suo signore. Rimarrete?

POLISSENE

No, signora.

ERMIONE

Andiamo, su, lo farete?

POLISSENE

Non posso, veramente.

ERMIONE

Veramente!

Mi contrastate con proteste fiacche; ma io,

se anche cercaste di smuovere le stelle

fuori dall’orbite coi vostri giuramenti,

direi ugualmente “niente partenza, sire”. Veramente

non partirete: il veramente di una donna

non è da meno di quello d’un uomo.

Ancora volete partire?

Volete dunque costringermi a tenervi prigioniero,

anziché ospite: così che pagherete la retta

alla partenza, risparmiando i ringraziamenti? Che ne dite?

Mio prigioniero? O mio ospite? Giuro su quel vostro terribile “veramente”

che uno dei due sarete.

POLISSENE

Vostro ospite allora, signora:

esser vostro prigioniero implicherebbe che vi ho offesa;

cosa per me meno facile da commettere

che per voi da punire.

ERMIONE

Non carceriera quindi,

ma ospite premurosa. Venite, voglio chiedervi

dei giochi del mio signore e vostri, quando eravate ragazzi.

Insieme eravate due bei monelli, vero?

POLISSENE

Eravamo, bella regina,

due giovani per cui non esisteva il dopo,

e il domani era come l’oggi, e pensavamo

che saremmo stati ragazzi sempre.

ERMIONE

Non era il mio signore

il più birbante dei due?

POLISSENE

Eravamo come agnellini gemelli che ruzzano nel sole

e belano l’uno all’altro: ci scambiavamo

innocenza per innocenza: non conoscevamo

la dottrina della malizia, e neppure ci sognavamo

che altri la conoscesse.

Se avessimo continuato quella vita,

e la nostra natura fanciullesca non si fosse rafforzata

con un sangue più saldo,

avremmo potuto arditamente dire al cielo

“siamo innocenti”, una volta riscattata

la colpa originale.

ERMIONE

Da ciò si deduce

che da allora avete trasgredito.

POLISSENE

Mia sacra signora,

le tentazioni sono arrivate più tardi:

poiché in quei giorni implumi mia moglie era bambina;

e la vostra preziosa persona non aveva ancora incontrato lo sguardo

del mio giovane compagno di giochi.

ERMIONE

Adesso poi!

Non tiriamo conclusioni, o direte

che la vostra regina ed io siamo due demoni. Ma continuate;

dei peccati che vi abbiamo fatto commettere, risponderemo,

se con noi avete commesso il primo peccato, e con noi

avete continuato nella colpa, senza mai scivolare

con altre.

LEONTE

È convinto?

ERMIONE

Resterà, mio signore.

LEONTE

Alla mia richiesta, rifiutava.

Ermione, mia adorata, non hai mai parlato

a miglior proposito.

ERMIONE

Mai?

LEONTE

Mai, eccetto un’altra volta.

ERMIONE

Allora, ho parlato bene due volte? Quando è stata la prima?

Ti prego dimmi: saziateci di lodi, ingrassateci

come animali da cortile: una buona azione,

rimasta senza lode, ne uccide mille

che la lode poteva ispirare.

Le lodi sono la nostra ricompensa.

Con un solo tenero bacio correremo mille miglia,

con lo sperone a mala pena un acro. Ma torniamo al punto:

la mia ultima riuscita è stata convincerlo a restare:

quale la prima? C’è una sorella maggiore,

se ho capito bene: come vorrei che si chiamasse Grazia!

Solo una volta prima d’ora ho parlato bene? Quando?

Su, dimmi: non vedo l’ora!

LEONTE

Ebbene, fu quando

tre malinconici mesi morirono inaciditi,

prima che riuscissi a farti aprire la bianca mano,

per sigillare il mio amore: fu quando dicesti

“sono vostra per sempre”.

ERMIONE

Si chiama Grazia davvero.

Ecco dunque! Ho parlato bene due volte:

la prima mi guadagnò per sempre uno sposo regale;

la seconda, per qualche tempo un amico.

(Dà la mano a Polissene.)

LEONTE (a parte)

Troppo calore, troppo!

Spingere l’amicizia a questo punto è mescolare il sangue.

Mi trema il cuore: mi danza dentro,

ma non di gioia – non di gioia. Tale cortesia

può assumere un viso aperto, attingere schiettezza

dalla sincerità, generosità, bontà di cuore,

e fare onore a chi la usa: questo lo ammetto;

ma premersi le palme, incrociarsi le dita,

come fanno adesso, farsi sorrisini studiati

come allo specchio; e poi sospirare, come

fosse la morte del cervo – O questa è cortesia

che non piace al mio cuore, né alla mia fronte.

Mamillio, sei tu il mio ragazzino?

MAMILLIO

Sì, mio buon signore.

LEONTE

Invero:

sei il mio bel galletto. Che c’è, ti sei sporcato il naso?

Dicono che è una copia del mio. Su, capitano:

dobbiamo esser senza macchia, voglio dire puliti, capitano:

macchiato è il bue, la giovenca, il vitello;

e tutti son cornuti – continua ad arpeggiare

sul palmo! – Allora vitellino giocherellone!

Sei il mio vitellino tu?

MAMILLIO

Sì, se vi piace, mio signore.

LEONTE

Ti ci vuole una zucca pelosa e i virgulti che ci ho io,

per esser tutto come me: eppure dicono che siamo

quasi come due uova; lo dicono le donne,

(che direbbero qualsiasi cosa): ma se anche fossero false

come gramaglie ritinte, come il vento e le acque,

come i dadi che vorrebbe chi non rispetta

limiti tra il suo e il mio, sarebbe comunque vero

che questo ragazzo mi somiglia. Vieni, signor paggio,

guardami con quei tuoi occhi azzurri: dolce birbone!

Caro, carne mia! Può tua madre? È possibile?

Passione, la tua intensità pugnala il cuore.

Tu fai possibile l’impossibile,

sei della natura dei sogni – come può essere? –

Ti associ all’irreale

e consorti col nulla. Perciò è assai credibile

che tu possa associarti a qualsiasi cosa; e così fai,

ben oltre il lecito, ed io lo vedo qui,

al punto che il cervello se ne infetta,

mentre la fronte s’indurisce.

POLISSENE

Che ha Sicilia?

ERMIONE

Sembra agitato.

POLISSENE

Che c’è signor mio?

Come va? Vi sentite bene, mio ottimo fratello?

ERMIONE

Mostrate

una fronte molto corrucciata:

siete in collera, mio signore?

LEONTE

No, vi assicuro.

Come talvolta la natura tradisce la sua scempiaggine,

la sua tenerezza, e diventa un trastullo

per cuori induriti! Guardando i lineamenti

del viso di mio figlio, m’è parso di tornare indietro

ventitré anni e mi son visto senza brache,

col giubbettino di velluto verde; il pugnale in museruola

perché non mordesse il padroncino, e diventasse,

come spesso succede agli ornamenti, pericoloso:

com’ero simile allora, pensavo, a questo nocciolino,

questo fagioletto, questo signorino. Mio franco amico,

accetterete mai uova per moneta?

MAMILLIO

No, signore, io mi batterò.

LEONTE

Lo farete? Auguri, allora! Fratello mio,

siete anche voi così preso dal vostro principino, come noi

sembriamo esserlo dal nostro?

POLISSENE

Quando sono a casa, signore,

è lui tutto il mio svago, la mia gioia, la mia attività:

ora mio amico per la vita, poi mio nemico;

il mio favorito, il mio soldato, il mio ministro, tutto.

Lui fa un giorno di luglio breve come in dicembre;

e con l’infanzia bizzosa cura in me

pensieri che mi farebbero denso il sangue.

LEONTE

Lo stesso incarico

ha con me questo scudiero:

ora noi due faremo una passeggiata, mio signore,

e vi lasciamo ai vostri più gravi passi. Ermione,

mostra come ci ami nel benvenuto a nostro fratello;

ciò che in Sicilia è prezioso sia dato liberamente;

dopo di te, e il mio piccolo briccone, è lui

che ha più diritto al mio affetto.

ERMIONE

Se ci cercaste,

saremo nel giardino: vi aspettiamo là?

LEONTE

Fate come vi aggrada: vi troverò,

ovunque siate sotto il cielo. (A parte) Adesso sto pescando,

anche se non vedete che vi do lenza.

Andate, andate!

Come offre il becco, il muso a lui!

E s’arma con l’audacia d’una moglie

davanti al marito compiacente!

(Escono Polissene, Ermione e seguito.)

Già partita!

Dura come un ceppo! Immersa fino alle ginocchia!

Sulla testa e le orecchie ho qualcosa di biforcuto.

Va’ a giocare ragazzo, va’: tua madre gioca,

e gioco pure io; ma recito una parte così vergognosa

che i fischi finali mi porteranno alla tomba: urla e disprezzo

saranno la mia campana. Va’ a giocare, ragazzo, va’.

Ce ne sono stati (o mi sbaglio) cornuti prima d’ora,

e più d’un marito (anche adesso, ora,

mentre parlo) si tiene la moglie sotto braccio

e neppure immagina che è stata drenata in sua assenza

e il suo vicino ha pescato nel suo stagno,

messer Sorriso, il suo vicino: be’, è un conforto,

che altri hanno le chiuse, e queste chiuse sono state aperte

come la mia, contro la loro volontà.

Se tutti coloro cui la moglie è infedele,

dovessero disperarsi, un decimo degli uomini

s’impiccherebbe. E non c’è rimedio alla faccenda;

è come un pianeta lascivo che influisce

quando è in ascendenza; e ci sa fare, credetemi,

da est a ovest, da nord a sud, non c’è

come difendere il pancino. State tranquilli,

lascerà entrare e uscire il nemico,

armi e bagagli: molte migliaia già

han l’infezione, ma non sentono nulla. Allora, ragazzo?

MAMILLIO

Sono come voi, dicono.

LEONTE

Questo è un conforto.

Camillo, sei qui?

CAMILLO

Sì, mio buon sire.

LEONTE

Va’ a giocare, Mamillio, da bravo.

(Esce Mamillio.)

Camillo, questo grande signore rimarrà più a lungo.

CAMILLO

Avete dovuto faticare perché l’ancora prendesse:

quando la gettavate, tornava sempre su.

LEONTE

L’hai notato?

CAMILLO

Non voleva restare alle vostre richieste;

insisteva sui suoi affari urgenti.

LEONTE

Te ne sei accorto?

(A parte) M’hanno già incorniciato; mi bisbigliano intorno

“Sicilia è uno di quelli”: la cosa dev’essere già avanti,

se per ultimo arriva a me. – Come spieghi, Camillo,

ch’è rimasto?

CAMILLO

A richiesta della buona regina.

LEONTE

Della regina, certo. “Buona” anche ci starebbe,

ma come stanno le cose, non direi.

L’hanno notato altri, oltre a te?

Perché la tua mente è pronta, assorbe

più delle zucche ordinarie: sono i più acuti

quelli che l’han notato? Solo le teste

fuor dall’ordinario? Quelli seduti in fondo

forse non han visto l’affare? Parla!

CAMILLO

L’affare, sire? Penso che i più già sanno

che Boemia si trattiene.

LEONTE

Nient’altro?

CAMILLO

Che resta.

LEONTE

Sì, ma perché?

CAMILLO

Per soddisfare vostra maestà, e le insistenze

della nostra graziosa regina.

LEONTE

Soddisfare?

Le richieste della tua regina? Soddisfare?

Basta così. Io ti ho affidato, Camillo,

quanto è più vicino al mio cuore, come pure

i miei più segreti pensieri, dai quali tu,

come un prete, m’hai sollevato la coscienza:

da te partivo come un penitente migliorato.

Ma ci siamo ingannati sulla tua integrità,

ingannati da ciò ch’era apparenza.

CAMILLO

Non sia mai, sire!

LEONTE

Mi spiego meglio: tu non sei onesto: o,

se tendi a esserlo, sei un vile,

che all’onestà taglia le gambe, frenandola

nel giusto corso: oppure devi esser considerato

un servitore innestato nella mia fiducia,

ma negligente; oppure uno stolto

che assiste a un gioco accanito, con grandi poste,

e lo prende per uno scherzo.

CAMILLO

Mio grazioso signore,

posso essere negligente, sciocco e pauroso;

nessuno è immune da tali difetti al punto

che negligenza, stoltezza e paura,

tra le infinite attività del mondo,

non vengan fuori prima o poi. Nei vostri affari, mio signore,

se mai son stato negligente, sapendolo,

mia fu la stoltezza: se deliberatamente

ho fatto lo sciocco, mia fu la negligenza,

che non valutava lo scopo: se mai ho avuto paura

di fare qualcosa del cui esito dubitavo,

anche quando l’azione urlava

per esser eseguita, fu una paura

che spesso infetta i più saggi: queste, sire,

sono perdonabili debolezze di cui l’onestà

non è esente. Ma, supplico vostra grazia,

d’essere più franco con me; scopritemi l’offesa

col suo vero volto: se non la riconosco,

non è mia di certo.

LEONTE

Non avete visto, Camillo?

(Ma dovete aver visto, o sull’occhio avete un cristallino

più denso d’un corno di cornuto) o udito?

(Poiché non può non correr voce davanti a

visione così lampante) o pensato? (Poiché

non sa pensare chi così non pensa)

Che mia moglie scivola? Ammetterai,

se non lo neghi spudoratamente,

d’avere occhi, orecchi, intelligenza,

e allora di’ che mia moglie è una donna leggera,

e merita il nome di una qualsiasi filatrice

che si concede prima delle nozze: dillo, e dammene le prove!

CAMILLO

Io non resterei a sentire

la mia regina così oltraggiata, senza

prendere immediata vendetta: ch’io possa morire,

se avete detto mai parole più sconvenienti

di queste; ripeterle soltanto, anche se fossero vere,

sarebbe un peccato più nero delle vostre accuse.

LEONTE

Non è niente bisbigliare?

Appoggiarsi guancia a guancia? Sfiorarsi naso a naso?

Baciarsi a labbra aperte? Interrompere

il riso con un sospiro (segno infallibile

di onestà spezzata)? Premersi i piedi?

Imboscarsi negli angoli? Desiderare orologi più rapidi?

Che le ore siano minuti? Che mezzogiorno sia mezzanotte?

E che tutti gli occhi abbian la cataratta, eccetto i loro.

Tranne i loro, così che il delitto non sia visto? È niente questo?

Be’, allora il mondo, e tutto in esso, è nulla,

il cielo che ci copre è nulla, Boemia nulla,

mia moglie è nulla e tutti questi nulla sono nulla,

se questo è nulla.

CAMILLO

Mio buon signore, guarite

da questo malsano pensiero, e presto,

perché è assai pericoloso.

LEONTE

Di’ che è così, che è vero.

CAMILLO

No, no, mio signore.

LEONTE

Lo è; mentite, mentite;

io dico che menti, Camillo, e ti odio, e ti giudico

un villano sciocco, un servo idiota,

o un opportunista oscillante

che insieme vede il bene e il male,

e li tien buoni entrambi: fosse il fegato di mia moglie

infetto come la sua vita, non vivrebbe

uno svuotarsi di clessidra.

CAMILLO

E chi la infetta?

LEONTE

Per Giove, colui che se la porta,

come medaglia, appesa al petto: Boemia;

che se io avessi servi fedeli, con occhi

che vedessero insieme il mio onore e i loro profitti,

i loro particolari guadagni, farebbero

ciò che disfarebbe il fare oltre: già, e tu

suo coppiere, – che io da bassa condizione

ho innalzato a nobili cariche, che puoi vedere

chiaro come il cielo la terra e la terra il cielo,

come io sono amareggiato, – potresti drogare una coppa,

per dare al mio nemico una smorfia che gli resti

sulla bocca, e a me un cordiale.

CAMILLO

Mio signore,

potrei farlo, e non con una pozione fulminea,

ma un farmaco lento, che non operi

improvviso, come il veleno: ma non posso credere

incrinata la mia nobile padrona

(che io credo e rispetto come mia regina).

Io ti ho amato, –

LEONTE

E allora dubita, e va’ all’inferno!

Mi credi così confuso e dissennato,

da ordinarmi da me questa tortura;

da inquinare la purezza e il candore delle mie lenzuola,

(che conservate danno il sonno, ma macchiate

diventano pungoli, spine, ortiche, aghi di vespa)

gettare scandalo sul sangue del principe, mio figlio,

(che io credo mio e amo come mio)

senza maturate ragioni? Farei cosa del genere?

A questo punto si può diventar pazzi?

CAMILLO

Debbo credervi, sire:

vi credo; e toglierò di mezzo il Boemia;

purché, rimosso costui, vostra altezza

riprenderà la sua regina, come prima,

almeno per amore di vostro figlio, e poi per sigillare

le lingue maldicenti in corti e regni

a voi noti e alleati.

LEONTE

Tu mi consigli

ciò che avevo già deciso di fare:

non getterò macchia sul suo onore, nessuna.

CAMILLO

Mio signore,

andate dunque; e col viso che l’amico

porta alle feste, intrattenete Boemia

e la vostra regina. Sono il coppiere del re:

se da me avrà una bevanda salutare,

non consideratemi vostro servo.

LEONTE

Molto bene:

fallo, e avrai la metà del mio cuore;

non farlo, e spezzerai il tuo.

CAMILLO

Lo farò, mio signore.

LEONTE

Mi mostrerò cordiale, come mi hai consigliato. Esce.

CAMILLO

O sfortunata signora! Ma io

in che situazione mi trovo? Debbo avvelenare

il buon Polissene, e la mia ragione per farlo

è l’obbedienza al mio padrone; uno

che, turbato dentro sé, vuole

turbare tutti intorno a lui. Fare quest’atto

vuol dire avanzamento. Se anche potessi trovare

esempi a migliaia di regicidi

che hanno prosperato, non lo farei: ma poiché

né bronzo, né pietra, né pergamena ne ricorda alcuno,

rinunci la scelleraggine stessa. Devo

lasciare la corte: farlo, o no, è per me

rovina sicura. Una buona stella s’affacci!

Ecco Boemia.

Entra Polissene.

POLISSENE

Che strano: mi sembra

che il mio favore qui cominci a calare. Perché non parla?

Buon giorno, Camillo.

CAMILLO

Salute a voi, molto regale signore!

POLISSENE

Che c’è di nuovo a corte?

CAMILLO

Niente di speciale, mio signore.

POLISSENE

Il re ha una faccia

come se avesse perso una provincia, una regione

che amasse come se stesso: proprio ora l’ho salutato

con la normale cortesia, ma lui,

volgendo gli occhi dall’altra parte, e facendo

una smorfia di disgusto, se ne scappa,

lasciandomi a far congetture su cosa può essere successo

che cambia così le sue maniere.

CAMILLO

Non oso saperlo, mio signore.

POLISSENE

Non osate? Come…? Voi sapete, e non osate?

Fatemi capire: si tratta di qualcosa di simile.

Perché, quello che voi stesso sapete, dovete saperlo,

e non potete dire che non osate. Buon Camillo,

la vostra faccia alterata è per me uno specchio

che mi mostra la mia, pure, alterata;

perciò devo essere io la causa di questo cambiamento,

trovandomi così cambiato io stesso.

CAMILLO

C’è una malattia

che in alcuni di noi sconvolge gli umori, ma

io non posso nominare il malanno, e voi

lo diffondete, anche se state bene.

POLISSENE

Io lo diffondo?

Non ditemi ora che ho l’occhio del basilisco.

Ho guardato migliaia di persone, e direi che

ne han tratto profitto, nessuno, almeno, è mai morto.

Camillo – per il gentiluomo che è certo in voi,

e per la vostra cultura ed esperienza, che adornano

la nobiltà non meno del nome illustre,

ereditato dagli avi, – vi scongiuro,

se sapete qualcosa di cui è giusto

ch’io sia informato, non tenetemi

nell’ignoranza, nascondendomela.

CAMILLO

Non posso rispondere.

POLISSENE

Un male che io diffondo, mentre sto bene?

Devo aver una risposta. Mi senti, Camillo?

Io ti chiedo, per tutti i doveri

che l’onore comporta, e tra i quali non è da trascurare

questa mia richiesta, che tu riveli

quale malanno tu sospetti

che mi strisci contro, quanto è lontano, o vicino,

come si può prevenire, se si può:

e se no, come meglio sopportarlo.

CAMILLO

Signore, parlerò;

poiché è sul mio onore che ne vengo richiesto,

e da persona che ritengo onorevole. Perciò notate il mio consiglio,

che dev’essere seguito non appena

l’avrò profferito, o entrambi, voi ed io

saremo perduti, e buona notte!

POLISSENE

Parlate, buon Camillo.

CAMILLO

Sono stato incaricato di assassinarvi.

POLISSENE

Da chi, Camillo?

CAMILLO

Dal re.

POLISSENE

E perché mai?

CAMILLO

Pensa, anzi lo giura con tutta sicurezza,

come l’avesse visto, o v’avesse lui forzato

a farlo, che voi avete accostato la sua regina

in modo sconveniente.

POLISSENE

Allora possa il mio nobile sangue

diventare poltiglia infetta, e il mio nome

appaiarsi a chi tradì il Migliore!

Si muti in tanfo la mia reputazione senza macchia

e offenda la narice più ottusa

ovunque io vada, e si eviti il mio arrivo,

anzi lo si maledica, più della peggiore peste

di cui s’abbia memoria, parlata o scritta!

CAMILLO

Smuovetelo da questo pensiero

giurando su ogni singola stella in cielo;

e sui loro influssi; più facile sarebbe

proibire al mare d’obbedire alla luna

che rimuovere col giuramento o scuotere con la ragione

l’edificio della sua pazzia, le cui fondamenta

poggiano sulla sua fede cieca, e dureranno

la vita del suo corpo.

POLISSENE

Come è cresciuta questa fissazione?

CAMILLO

Non so: ma son convinto che è meglio evitare

ciò che è cresciuto che chiedersi come sia cresciuto.

Se, perciò, v’affidate all’onestà

racchiusa in questo corpo, che voi vi porterete

appresso in pegno, partiamo stanotte!

Il vostro seguito informerò con discrezione,

e a due o tre, da porte diverse,

li farò uscire di città. Quanto a me, metto

al servizio vostro la fortuna che qui ho perduto

rivelando tutto. Non esitate,

sull’onore dei miei genitori,

ho detto il vero: ma se cercherete le prove,

io non oso appoggiarvi; né voi sarete più sicuro

di uno condannato dalla parola di un re,

che ne ha giurato la morte.

POLISSENE

Ti credo:

gli ho visto il cuore in faccia. Dammi la mano,

sii il mio pilota, e sarai sempre

accanto a me. Le mie navi sono pronte

e i miei s’aspettavano la mia partenza

già due giorni fa. Questa gelosia

è per una creatura preziosa: e dev’esser grande

poiché ella è rara; e dev’esser violenta

perché egli è potente; e se lui si crede

disonorato da uno che sempre gli si è

professato amico, tanto più crudele

vorrà essere la sua vendetta. Sto nell’ombra della paura:

una rapida partenza mi assista, e aiuti

la graziosa regina, oggetto della sua fissazione,

ma innocente del suo maligno sospetto!

Camillo, andiamo: ti rispetterò come un padre

se mi farai uscir vivo da qui. Via! Presto!

CAMILLO

La mia carica mi dà le chiavi

di ogni porta: prego vostra altezza

di cogliere il momento propizio. Andiamo, signore.

Escono.

Il racconto d’inverno
(“A Winter’s tale”  1611)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

 Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

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