1613 – I due nobili cugini

(o “I due nobili congiunti”)

di William Shakespeare e John Fletcher
(“The two noble kinsmen” – 1613)

Traduzione di Demetrio Vittorini

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

I due nobili cugini

Introduzione

Il “canone” shakespeariano (canone è una parola snob per dire elenco ufficiale delle opere ritenute autentiche) solo da pochi anni comprende I due nobili congiunti. Perché? Perché è un lavoro elaborato a due mani, da Shakespeare e da John Fletcher (1579-1625) poi erroneamente attribuito, dagli stampatori della seconda metà del Seicento, alla coppia Fletcher-Beaumont in quanto i due erano stati -ed era notorio- coppia fissa per decine e decine di lavori teatrali. Siamo nel 1613: Beaumont, che scrive da tempo in coppia con Fletcher, si sposa, e sposa una donna molto ricca. Smette così di lavorare. Fletcher rimane da solo. Ha fama di essere molto bravo non tanto come poeta, ma come uomo di scena, specialista in ricche e spettacolari coreografie. Shakespeare intanto ha lasciato il teatro e si gode il meritato riposo a Stratford. Nasce da qui la collaborazione, assolutamente occasionale, su questo dramma e su altri due, Enrico VIII e Cardenio, quest’ultimo andato poi perduto. Evidentemente Shakespeare, che si era ritirato a vita privata nel 1610, aveva lasciato incompiuto o abbozzato il dramma, e gli impresari teatrali, volendolo finalizzare e mettere in scena, scelsero di affidare il lavoro a Fletcher, momentaneamente libero. Il quale poi -dopo questa occasionale opportunità- troverà in Philip Massinger un altro drammaturgo con cui fare coppia più o meno fissa.

Sul fatto che I due nobili congiunti sia proprio di Shakespeare non ci sono più dubbi: vuoi perché si è trovata un’edizione del 1634 che porta le firme dei due autori, e vuoi perché, in ogni caso, ci sono prove “induttive” molto forti. In parole povere: la mano di Shakespeare si sente. Tuttavia non in maniera così netta come negli altri due suoi drammi rimaneggiati e completati da altri, nei quali veramente anche un non specialista può distinguere, verso dopo verso, dove c’è, e dove è presumibile non ci sia, la sua mano. Questa maggiore difficoltà è legata anche a un altro elemento fondamentale: la storia o, come si dice oggi, la “fabula” non è infatti una storia originale di Shakespeare, ma è una sorta di “remake” di un lavoro poetico precedente, di Chaucer. Nel “contenuto” quindi non puoi sentirci Shakespeare, perché il contenuto è d’altri. Nella “forma” lo puoi sentire, e lo senti, ma non con l’eclatante certezza di altre situazioni analoghe. Tutto questo può portarci a definire I due nobili congiunti il meno shakespeariano dei drammi di Shakespeare, per due motivi appunto: perché il contenuto non è suo e perché la forma è stata rimaneggiata da Fletcher. Riguardo al contenuto, sia detto per inciso, anche Troilo e Cressida proviene da Chaucer, ma Troilo e Cressida è un dramma tutto scritto da Shakespeare, senza aiuti o rimaneggiamenti. Torniamo al nostro. Il Racconto del cavaliere è tra i più noti fra i Racconti di Canterbury di Chaucer (1340?-1400). Non perché sia il più bello, ma semplicemente perché è il primo. Chaucer a sua volta non se lo inventò affatto, ma lo trasse per intero da un poema giovanile del nostro Boccaccio, il Teseida (1340-41), poema che invece, si sa per certo, Shakespeare non conosceva.

Riassunto

Siamo in un’immaginaria Grecia antica. Due cugini, belle e nobili figure e molto legati tra loro, Arcite e Palamone, sono chiusi insieme in un carcere ad Atene, prigionieri di guerra. Dalla finestra vedono una ragazza e se ne innamorano perdutamente, diventando rivali. La ragazza è Emilia, cognata del duca d’Atene, Teseo, che ha sposato l’amazzone Ippolita, sorella appunto d’Emilia. I due cugini (i due “congiunti” del titolo) prendono a litigare ferocemente fra loro, divisi nel diritto d’amare Emilia, che l’uno vuol togliere all’altro. Amare in senso platonico, come sogno punto e basta, perché, tanto, son rinchiusi per sempre in carcere e mai potrebbero averla. Ma avviene qualcosa di inaspettato. Arcite viene improvvisamente liberato. Teseo gli dà la libertà, ma lo bandisce da Atene, pena la morte, rispedendolo nella sua nativa Tebe. A questo punto Palamone invidia Arcite, perché lui è libero e qualcosa potrebbe tentare per avere Emilia. E Arcite – che è libero, ma è bandito da Atene – invidia invece Palamone, perché lui è in carcere sì, ma dalla finestra può ancora godersi la sua bella Emilia. Come si sviluppa la vicenda? Arcite non resiste lontano da Emilia, torna ad Atene sotto mentite spoglie e riesce a entrare alla corte di Teseo come scudiero e a starsene così molto vicino alla bella Emilia. Palamone marcisce in carcere, ma un bel giorno riesce a fuggire e si rifugia in un bosco fuori città. I due casualmente lì si incontrano. È subito baruffa, per invidia, gelosia, rivalità. Mentre duellano sopraggiunge Teseo. Vengono riconosciuti e condannati a morte, colpevoli, l’uno, Arcite, di trovarsi ad Atene nonostante il bando, l’altro, Palamone, della fuga dal carcere. Ma intervengono le due sorelle, Ippolita ed Emilia, moglie e cognata di Teseo, a chiedere pietà per loro. La vera colpa dei due è d’amare disperatamente Emilia: l’amore merita dunque pietà, non condanna. Teseo se ne convince e poiché entrambi vogliono la stessa donna -Emilia- ad entrambi per nobiltà d’animo e nobiltà d’origine la meriterebbero, non rimane che “giocarsela”. È Teseo a stabilire le regole del gioco: un torneo in armi, l’uno contro l’altro, ciascuno con dei compagni. Il vincitore avrà Emilia in sposa. Ciascuno dei due contendenti chiede aiuto alla divinità in cui più crede: Arcite si rivolge a Marte, dio della guerra, Palamone si rivolge a Venere, dea dell’amore e Emilia infine si rivolge a Diana chiedendo imparzialmente che fra i due vinca chi ha più meriti. Ecco che al giorno prefissato ha luogo lo scontro. I duellanti sono assolutamente pari, in forza e in valentia, ma Arcite vince. E qui c’è un colpo di scena: durante il trionfo d’Arcite, il suo cavallo s’impenna, stramazza e fa cadere sotto al suo peso il cavaliere, ferendolo a morte. Arcite dunque muore, prima d’aver avuto l’agognato premio, l’amore di Emilia. Morendo chiama a sé Palamone, si riconcilia, e affida al cugino, amico e rivale, l’amore d’Emilia. L’avrà lui in moglie.
Questa è la storia, sviluppata lungo il corso di alcuni anni in Chaucer, di alcuni giorni in Shakespeare. Ci sono differenze tra il racconto in versi di Chaucer e il dramma di Shakespeare? Sì, notevoli. Tre le differenze sostanziali.
Chaucer non sviluppa il tema dell’amicizia, del legame profondo fra i due cugini rivali. Shakespeare invece ne fa il tema di fondo del suo dramma.
Chaucer “divinizza” molto il racconto: Venere e Marte, cui i due contendenti si sono raccomandati, hanno un ruolo fondamentale negli eventi, ne sono i veri motori responsabili, e gli esseri umani sono marionette che subiscono i capricci del destino, ovvero la volontà degli dei.
Shakespeare invece “umanizza” gli eventi, scende dall’alto dell’Olimpo alla realtà umana dei protagonisti e ci racconta una storia d’uomini.
Infine, terza differenza, solo strutturale, Shakespeare crea un “sub-plot”, come si dice oggi, cioè una seconda trama parallela, tipica del teatro elisabettiano, che corre accanto alla principale e che narra la storia della figlia del carceriere di Palamone, che, innamoratasi di lui, lo fa fuggire di prigione e poi (come Ofelia nell’Amleto) diventa pazza per amore, vedendosi da lui trascurata. È la classica trama secondaria di livello popolare che spesso nella drammaturgia elisabettiana ha risvolti di comicità spinta e che qui, invece, strappa una sola piacevolissima risata, nient’affatto farsesca, e viaggia poi su toni drammatici e anche lirici, con finale felice: la ragazza guarisce dalla sua infatuazione, torna al proprio fidanzato, si avvia alla guarigione.
È bello, non è bello, il nostro dramma? Certo che è bello: c’è la mano di Shakespeare, quindi non può non essere bello. Molto bello. Anche se, va detto, senti che Shakespeare qui non ci ha messo tutto se stesso. C’erano, nella storia, molti momenti (amicizia, nobiltà, amore) che si prestavano ad alta poesia e che sono stati sfruttati sì, ma non al pieno delle possibilità. Sono sensazioni, è ovvio…
I momenti di bellezza del dramma sono proprio questi che abbiamo indicato come momenti di incompleta bellezza. Amicizia e nobiltà.
Prima ancora di entrare nel vivo della storia, Shakespeare ci presenta i due cugini ancora a Tebe, nipoti del perfido Creonte, sovrano della città. E ce li accredita: i due sono dalla parte sbagliata (Creonte è un tiranno disumano) ma sono puliti. Non condividono i modi, la politica, la morale del loro congiunto sovrano. Lo definiscono un “tiranno senza remore, cui il successo ha tolto persino la paura del cielo…“, vorrebbero ” farmi succhiare il sangue che mi imparenta a lui…“e sognano e progettano di “lasciare questa corte, per non condividere in nulla la sua spudorata infamia…” (I, 2). Tuttavia sono figure così nobili e leali che quando Teseo l’ateniese attacca (in una guerra giusta e santa) Creonte il tebano, entrambi combattono in difesa della loro patria: “…dobbiamo combattere per Tebe, non per Creonte. Rimanere neutrali sarebbe un disonore, opporglisi una ribellione…” (I, 2). Combattono come leoni, si fanno onore, sono i più bravi sul campo, vengono feriti, e poiché Creonte è sconfitto e ucciso finiscono prigionieri di guerra ad Atene.
Il tema, sicuramente shakespeariano, della profonda amicizia che lega i due nobilissimi cugini è introdotto con una specie di polifonia mediante analoghe storie di altre amicizie. Come in una sinfonia il motivo conduttore è introdotto e accennato, poi è ripreso e poi è finalmente svolto e sviluppato.
C’è infatti, prima che il dramma ci presenti il legame dei due nel carcere di Atene, il tema dell’amicizia fra Teseo e Piritoo: “il nodo del loro affetto, legato, intessuto e ritorto con tanta fedeltà, così a lungo, da una mano di un’arte così sottile, potrà forse logorarsi, mai sciogliersi…” (I, 3). E c’è il tema dell’amicizia, negli anni dell’infanzia, fra Emilia e una sua piccola compagna poi morta bambina: “Ciò che a lei piaceva era da me approvato e ciò che non amava, condannato… così le nostre anime facevano l’una per l’altra… Il fiore che coglievo e mi mettevo fra i seni (che appena allora cominciavano a gonfiarsi attorno alla corolla) lei lo desiderava, finché non ne trovava uno uguale, e lo metteva nella stessa culla innocente… Sul mio capo non c’era acconciatura che lei non imitasse…” (I, 3).
C’è anche, se vogliamo, qualche sfumatura dialettica che contrappone o paragona l’amicizia omosessuale con quella eterosessuale, ma sono spunti francamente irrilevanti ad una lettura poetica del dramma che è tesa a celebrare il legame d’amicizia, quello che di due anime ne fa una sola.
Eccoli dunque in carcere i nostri due protagonisti, Arcite e Palamone. Sono due figure così belle, così nobili, che “la prigione stessa è fiera di loro e nella loro cella racchiudono il mondo intero…” (II, 1). Non hanno ancora visto Emilia dalla finestra, quindi niente li contrappone. Dividono insieme il carcere a vita, quindi un futuro senza speranze… Le grazie della loro giovinezza in quel carcere dovranno avvizzirsi, non avranno mogli, non conosceranno “i dolci abbracci di una sposa innamorata, carichi di baci…” non avranno mai figli “immagini di noi stessi, per rallegrare la nostra vecchiaia…“, “non conosceremo altri che noi stessi, non sentiremo che l’orologio che scandisce le nostre pene… la vite crescerà, ma noi mai la vedremo, verrà l’estate con le sue gioie, ma qui rimarrà sempre il freddo e morto inverno…” (II, 2). Insomma, è la lirica della prigionia, e ci senti, inconfondibile, la mano di Shakespeare, quella che un giorno ispirerà Byron (Chillon) e Oscar Wilde (Reading)… Ed ecco ancora la luce della poesia che entra nel buio del carcere e lo illumina: la poesia dell’amicizia. “Consideriamo questa prigione – dice Arcite – come un sacro romitaggio per sottrarci alla corruzione… Esiste oggetto degno che noi non si possa far nostro con l’immaginazione? Stando così insieme siamo una miniera infinita l’uno per l’altro, ciascuno è sposa per l’altro, siamo l’uno per l’altro padre, amico, compagno, siamo ciascuno la famiglia dell’altro…“. Tale è il legame e l’affetto fra i due, tale la ricchezza dei loro animi che arrivano a convincersi che il carcere, che li unisce per sempre, sia in fondo la maggiore delle fortune che potesse toccar loro, voluta per loro dagli dei benevoli: “che pena che è vivere fuori di qui, ovunque sia!…” (II, 2).
Ma come un colpo di fulmine ecco che un giorno compare Emilia giù nel giardino. “Guarda e stupisci! …Per il cielo, è una dea!… È tutta la bellezza che esiste! …Non so che effetto abbia avuto su di te: io sono perduto! …Maledetti i miei occhi che l’anno vista: adesso sento il peso delle catene!…” (II, 3).
E fra i due scoppia, improvvisa, violenta, mortale, la rivalità.
Ciascuno rivendica per sé il diritto d’amarla.
Sappiamo come si svolgono i fatti. Libero Arcite, che rimane ad Atene. In fuga Palamone. L’incontro nel bosco. Il duello. E qui, in occasione del duello appunto, altre pagine bellissime di poesia dell’amicizia. Arcite vive a corte ed è bene in carne. Palamone è appena fuggito di prigione ed è affamato, malconcio, patito. Ecco che Arcite gli porta cibo e bevande. Lo rinfranca, lo veste, lo nutre. Poi porta le armi, per il duello. Si aiutano l’un l’altro a indossare le armature, amorevolmente. L’armatura di Palamone è la più bella: Arcite l’ha rubata per lui, che ne è degno, a Teseo. “Ti stringe troppo? No. Non è troppo pesante? Ne ho portate di più leggere, ma può andare… Te l’allaccio stretta… Benissimo!… Non vuoi un altro pettorale?… Combatti a braccia nude?… avremo più libertà di movimento… sì, ma usa i guanti: quelli sono di misura piccola, ti prego, prendi i miei, mio buon cugino… Come ti sembro? …sono molto dimagrito?… Aspetta un secondo: non è troppo stretto questo pezzo?… no, va bene… Non voglio che altro ti ferisca se non la mia spada: un livido sarebbe disonorevole… Prendi la mia spada, mi sembra migliore… grazie, no, tienila: da essa dipende la tua vita…!” (III,6).
Sono i temi dell’amicizia, della cavalleria, della nobiltà d’animo, che si fondono col tema, antico come il mondo, della rivalità in amore: e che Shakespeare (e questo è Shakespeare, non Chaucer, non Fletcher) traduce in poesia, in commozione, in tenerezza, in lirica.
Arriva Teseo. Il duello si interrompe. È lanciata l’idea del torneo, puramente “sportivo” in Chaucer, mortale, all’ultimo sangue, in Shakespeare.
Ci sono le preghiere dei contendenti (e d’Emilia) alle loro divinità, Diana per Emilia, Marte per Arcite, Venere per Palamone. Curiosissima, insolita quest’ultima. Palamone chiede a Venere d’aiutarlo vantando i propri meriti di devoto alla legge dell’amore, ma quella che vanta è una devozione tutta borghese: mai fatto il dongiovanni spaccone, mai insidiata la donna d’altri, mai dubbi sull’onestà delle donne, mai vanterie sulle proprie conquiste, mai presa in giro una ragazza, mai dato ascolto a chi non protegge la privacy delle proprie amanti…
Di chi è questa insolita preghiera, non essendo ripresa da Chaucer?È di Fletcher? È di Shakespeare?Non lo sapremo mai.Ed ecco il duello, che non vediamo in scena, ma che è raccontato da messaggeri, come tante battaglie in tanti drammi storici shakespeariani. Ecco il finale, la vittoria di Arcite, la caduta mortale del vincitore: ” …vive ancora, ma è solo un vascello che galleggia in attesa della prossima ondata. Desidera molto di parlare con voi…” (V,4) dice un messo a Palamone.E c’è l’ultimo abbraccio in punto di morte fra i due “nobili congiunti”. “Oh, triste fine della nostra amicizia! Gli dei sono possenti. Arcite, se il tuo cuore, il tuo valoroso cuore virile è ancora intero, dammi le tue ultime parole. Io sono Palamone, uno che ti ama ancora mentre muori…”. “Prendi Emilia, e con lei tutta la gioia del mondo; dammi la mano. Addio! Ho contato la mia ultima ora. Sono stato infedele, ma mai traditore; perdonami cugino. Un bacio alla bella Emilia. È finita. Prendila: io muoio” (V,4).Muore in scena Arcite e dice di lui Teseo “…la sua parte è finita e benché sia stata troppo corta l’ha sostenuta bene… Mai la fortuna ha giocato partita più sottile: il vinto trionfa, il vincitore perde…!” (V,4) e invita gli astanti a due successive cerimonie, le onoranze funebri per Arcite e, subito dopo, il matrimonio di Palamone ed Emilia.Abbiamo raccontato il dramma nel suo nucleo narrativo e poetico principale. Ci sono altre parti, la storia parallela della figlia del carceriere innamorata di Palamone e tutto il primo atto, alla corte di Teseo, ove tre regine sopraggiungono a turbare le nozze di Teseo con Ippolita chiedendogli di intervenire subito contro Creonte, colpevole d’aver ucciso i loro mariti re e di non restituirne i corpi. Ma la sostanza poetica di I due nobili congiunti è tutta nella celebrazione dell’amicizia ed è ciò che rende originale il dramma.Le aggiunte e le manipolazioni certamente di Fletcher sono di tipo coreografico: i villani celebrano con danze e canti le feste di calendimaggio, invitando ad assistervi Teseo e la sua corte. E siamo però alle parti meno interessanti del dramma, aggiunte per “far scena”, per rendere più popolare la parte spettacolare. I due nobili congiunti è l’ultimo dramma di Shakespeare. Ancora tre anni di vita e di riposo nella sua Stratford e poi il 23 aprile del 1616 morirà. Fletcher, di quindici anni più giovane, continuerà a lavorare sino alla morte, nel 1625.

Da Teatro completo di William Shakespeare, vol. VI, traduzione di Giorgio e Miranda Melchiori, pp. 270, I drammi romanzeschi, Mondadori, I Meridiani, 1981/1995.

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