Romeo e Giulietta – Atto I

(“Romeo and Juliet” – 1594 – 1595)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Romeo e Giulietta - Atto I

Personaggi

ESCALO, Principe di Verona
MERCUZIO, giovane parente del Principe e amico di Romeo
PARIDE, un giovane conte, parente del Principe
PAGGIO del conte Paride
MONTECCHI, capo di una famiglia veronese in lite coi Capuleti
DONNA MONTECCHI
ROMEO, figlio di Montecchi
BENVOLIO, nipote di Montecchi e amico di Romeo e Mercuzio
ABRAMO, un servo dei Montecchi
BALDASSARRE, servitore di Romeo
CAPULETI, capo di una famiglia veronese in lite coi Monteccbi
DONNA CAPULETI
GIULIETTA, figlia di Capuleti
TEBALDO, nipote di Donna Capuleti
CUGINO DI CAPULETI, un vecchio gentiluomo
NUTRICE, serva dei Capuleti, balia di Giulietta
PIETRO, servo dei Capuleti al servizio della nutrice
SANSONE, GREGORIO, ANTONIO, PENTOLACCIA, Servi di casa Capuleti
FRATE LORENZO, FRATE GIOVANNI: dell’Ordine Francescano
Uno speziale, di Mantova
Tre musici (Simon Corda, Ugo Archetto, Giovanni Spartito)
Guardie della ronda notturna, cittadini di Verona, maschere, portatori di torce, paggi, servi
CORO

L’ECCELLENTISSIMA
E LAMENTEVOLISSIMA TRAGEDIA
DI ROMEO E GIULIETTA

PROLOGO

Entra il coro.

CORO

Nella bella Verona s’apre la nostra scena,

dove fra due famiglie di pari nobiltà

da un rancore antico s’arriva a una novella lotta,

Che fraterne mani sporca di sangue fraterno.

E dalla carne fatale di questi due nemici

nasce una coppia d’amanti sotto cattiva stella,

la cui pietosa vicenda seppellirà, coi loro corpi,

anche l’odio dei genitori.

La paurosa avventura d’un amore mortale,

l’odio continuo dei padri, che nulla poté far cessare

se non la morte dei figli, ecco la storia

che per due ore occuperà la scena.

E se ci ascolterete con pazienza, a ciò che qui manca

a nostra fatica si sforzerà di riparare. (Esce.)

ATTO PRIMO – SCENA PRIMA

Entrano Sansone e Gregorio, della casa dei Capuleti, con spade e scudi.

SANSONE

Gregorio, parola mia, non ci porteremo via degli insulti.

GREGORIO

Certo che no, saremmo dei facchini altrimenti.

SANSONE

Voglio dire, se andiamo in collera, fuori le spade.

GREGORIO

Sicuro, finché vivi, tieni la testa fuori dal collare.

SANSONE

Colpisco velocemente, io, se mi provocano.

GREGORIO

Ma non sei veloce a farti provocare.

SANSONE

Mi basta un cane di casa Montecchi, e mi si muove tutto dentro.

GREGORIO

Se esser coraggiosi vuol dire restar fermi, muoversi vuol dire che sei pronto a scappare.

SANSONE

Un cane di quella casa mi muoverà a restar fermo. Starò sempre dalla parte del muro davanti a qualsiasi Montecchi.

GREGORIO

Ecco, lo vedi che sei un debole schiavo: sono i più deboli a essere messi al muro.

SANSONE

È vero. È per questo che le donne, che sono i vasi più deboli, son sempre spinte contro il muro. Io caccerò gli uomini dei Montecchi dal muro, e ci spingerò contro le loro ragazze.

GREGORIO

Ma la lite è tra i nostri capi e noi che siamo i loro uomini.

SANSONE

Non m’importa. Farò il tiranno: e dopo aver combattuto gli uomini sarò civile con le ragazze e le farò tutte fuori.

GREGORIO

Farai fuori le ragazze?

SANSONE

Sì, le farò fuori o me le farò tutte. Prendila nel senso che vuoi.

GREGORIO

Loro lo prenderanno così come lo sentiranno.

SANSONE

Me mi sentiranno finché sarò capace di star ritto, e lo sanno tutti che sono un bel pezzo di carne.

GREGORIO

E ti va bene che non sei un pesce, se lo fossi, saresti un baccalà. Tira fuori il tuo arnese… sta arrivando gente di casa Montecchi.

Entrano due altri servi (Abramo e Baldassarre).

SANSONE

La mia spada è nuda, sguainata. Comincia tu a litigare, io ti starò alle spalle.

GREGORIO

Vuoi dire che volti le spalle e scappi?

SANSONE

Non aver paura.

GREGORIO

No, perbacco! Paura di te!

SANSONE

Non mettiamoci contro la legge: lasciamo che comincino loro.

GREGORIO

Passandogli davanti, gli lancerò un’occhiataccia. La prendano come vogliono.

SANSONE

O come osano. Io mi morderò un dito davanti a loro, sarà una vergogna se non reagiranno.

ABRAMO

Ve lo mordete per noi quel dito, signore?

SANSONE

Io mi mordo il dito, signore.

ABRAMO

Ma lo fate per noi?

SANSONE

Se dico di sì, siamo ancora nella legalità?

GREGORIO

No.

SANSONE

No signore, non lo faccio per voi. Però continuo a mordermi il dito, signore.

GREGORIO

Volete litigare, signore?

ABRAMO

Litigare? No, signore.

SANSONE

Perché se volete, signore, son qui che vi aspetto. Servo un padrone che non è inferiore al vostro.

ABRAMO

Neanche migliore, però.

SANSONE

Va bene, signore.

Entra Benvolio.

GREGORIO

Digli di sì, che è migliore: sta arrivando un parente del padrone.

SANSONE

E invece sì, migliore del vostro.

ABRAMO

Siete un bugiardo.

SANSONE

Fuori le spade, se siete uomini. E tu, Gregorio, pronto col tuo fendente. Combattono.

BENVOLIO

Dividetevi, sciocchi, mettete via le spade, non sapete quello che fate.

Entra Tebaldo.

TEBALDO

E che, ti fai trascinare a duello da vili servi?

Voltati, Benvolio, e guarda in faccia la tua morte.

BENVOLIO

Cercavo solo di metter pace. Rinfodera la spada,

o usala con me, per dividere costoro.

TEBALDO

Come, parli di pace con la spada in pugno?

Odio quella parola come odio l’inferno, te e tutti i Montecchi.

Fatti sotto, vigliacco. Combattono.

Entrano tre o quattro cittadini armati di picche e bastoni.

CITTADINI

Bastoni, picche, mazze! Forza! Picchiateli! Abbasso i Capuleti! Abbasso i Montecchi!

Entrano il veccbio Capuleti, in veste da camera, e Donna Capuleti.

CAPULETI

Cos’è questo fracasso? Uno spadone, datemi uno spadone!

DONNA CAPULETI

Dategli una stampella piuttosto! Cosa vuoi fartene d’una spada!

Entrano il vecchio Montecchi e Donna Montecchi.

CAPULETI

La mia spada, ho detto! Arriva il vecchio Montecchi,

e agita la sua lama per umiliarmi!

MONTECCHI

Tu, maledetto Capuleti! Non mi tenere, lasciami!

DONNA MONTECCHI

Non ti lascerò muovere un passo per cercar nemici.

Entra il Principe Escalo col suo seguito.

PRINCIPE

Voi, sudditi ribelli, nemici della pace, che profanate le spade

con il sangue cittadino – ehi voi, non volete ascoltarmi?

Dico a voi, uomini, bestie, capaci di spegnere il fuoco

della vostra rabbia pericolosa nelle rosse fontane

che sgorgano dalle vostre vene!

Se non volete esser torturati,

aprite quelle mani piene di sangue

e lasciate cadere quelle armi maldirette:

ascoltate la condanna del vostro Principe sdegnato!

Già tre scontri, nati da parole piene di vento,

per colpa tua, vecchio Capuleti, e tua, vecchio Montecchi,

hanno per tre volte disturbato la quiete delle nostre strade,

e costretto gli anziani di Verona a deporre i loro abiti severi

per impugnare armi, vecchie come le loro mani

e ormai arrugginite dalla pace, al fine di dividervi,

voi, arrugginiti nei vostri odi.

Se mai disturberete ancora le nostre strade,

la vostra vita sarà il prezzo della pace distrutta.

Per questa volta, via tutti.

Voi, Capuleti, verrete via adesso con me, e voi, Montecchi,

venite questo pomeriggio al vecchio castello di Villafranca,

dove amministriamo la giustizia,

così saprete ufficialmente ciò che ho deciso su questo caso.

Adesso, e lo ripeto per l’ultima volta,

tutti gli uomini se ne vadano via, pena la morte.

Escono (tutti tranne Montecchi, Donna Montecchi e Benvolio).

MONTECCHI

Chi ha riaperto questa vecchia lite? Su, nipote,

parlate, non eravate qui forse quando è iniziata?

BENVOLIO

I servi del vostro nemico e i vostri

erano già in piena lotta prima che io arrivassi.

Ho estratto la spada per dividerli, ma proprio in quell’istante

è arrivato il ribollente Tebaldo che, con la spada sguainata,

ha cominciato a gridarmi parole di sfida,

agitando la lama sopra la testa e colpendo il vento,

che, incolume, gli rispondeva con fischi di schemo.

E mentre ci scambiavamo affondi e colpi,

si fece avanti un mucchio di gente

schierandosi chi di qua, chi di là,

finché arrivò il Principe, che divise i due gruppi.

DONNA MONTECCHI

Oh, dov’è Romeo? L’avete visto oggi?

Sono contenta che non sia stato coinvolto in questa rissa.

BENVOLIO

Signora, un’ora prima che il sole benedetto

s’affacciasse alla dorata finestra d’oriente,

come un’angoscia mi spinse fuori a passeggiare,

e proprio là, in quel boschetto di sicomori che crescono folti

nella parte occidentale della città, lo vidi,

anche lui insonne, e gli andai incontro.

Ma non appena mi scorse, si nascose tra gli alberi.

Io, pensando che la sua malinconia fosse come la mia,

che mi spinge a cercare luoghi dove nessuno può trovarmi,

detestando persino la compagnia di me stesso,

m’abbandonai alla mia depressione lasciando lui alla sua,

volentieri sfuggendo chi mi sfuggiva.

MONTECCHI

Sì, molte mattine è stato visto lì,

ad aumentare con le sue lacrime la fresca rugiada del mattino

o ad aggiungere nubi alle nubi, coi suoi profondi sospiri;

e non appena il sole che tutto rallegra comincia a scostare

nel lontano oriente le tende ombreggianti dal letto d’Aurora,

lui dalla luce fugge via, e furtivamente torna a casa,

questo mio figlio angosciato, e lì s’imprigiona nella sua stanza,

dove, chiudendo la finestra, lascia fuori la beffa luce del giorno

per crearsi da solo una notte artificiale.

E quest’umor nero gli sarà fatale, se un giusto consiglio

non riuscirà a curarne la causa.

BENVOLIO

E la conoscete la causa voi, mio nobile zio?

MONTECCHI

Non la conosco, e neanche riesco a farmela dire da lui.

BENVOLIO

Avete provato in tutti i modi?

MONTECCHI

Sia io che molti altri amici abbiamo provato;

ma lui confida solo a se stesso le sue pene,

e non dico che sia un buon consigliere; è così chiuso in sé,

così lontano dall’aprirsi o dal mostrarsi,

come il bocciuolo di un fiore, morso da un verme invidioso,

prima di stendere all’aria i suoi petali dolci

per offrire al sole la propria bellezza.

Se solo conoscessimo la sorgente dei suoi affanni,

ben volentieri faremmo quanto in nostro potere

per dar loro rimedio.

Entra Romeo.

BENVOLIO

Guardate, ecco che viene. Fatevi da parte, per piacere;

mi farò dire quello che l’addolora,

o, almeno, lo metterò a dura prova.

MONTECCHI

Mi auguro che la tua determinazione sia così fortunata

da ottenere in cambio la verità.

Venite, Signora, andiamocene.

Escono (Montecchi e Donna Montecchi).

BENVOLIO

Buon giorno, cugino.

ROMEO

È ancora così presto?

BENVOLIO

Sono appena suonate le nove.

ROMEO

Povero me! Come paiono lunghe le ore tristi.

Era mio padre quello che così in fretta se n’è scappato?

BENVOLIO

Proprio lui. Ma quale tristezza rende lunghe le ore di Romeo?

ROMEO

Non aver ciò che, se avuto, le rende veloci.

BENVOLIO

Sei innamorato?

ROMEO

No, sono senza.

BENVOLIO

Sei senza amore?

ROMEO

Senza l’amore di quella che amo.

BENVOLIO

Peccato che l’amore, in apparenza così gentile,

sia poi di fatto così prepotente e sgarbato.

ROMEO

Peccato che l’amore la cui vista è bendata

debba senz’occhi trovare la via al suo desiderio.

Dove andiamo a cena? Ma povero me! Cosa è successo qui?

Non occorre che tu me lo dica, ho già sentito tutto.

Ci si dà molto da fare con l’odio, qui, ma più ancora con l’amore.

Oh, amore rissoso, odio amoroso, cosa per prima nata dal nulla,

pesante leggerezza, vanità pensosa,

caos deforme di forme all’apparenza armoniose,

plumbea piuma, fumo lucente, gelido fuoco,

sanità malata, sonno dagli occhi aperti,

capace di non essere ciò che è,

questo è l’amore che io sento,

senza sentire il minimo amore in questo.

Non ti fa ridere?

BENVOLIO

No cugino, mi fa piangere.

ROMEO

O cuore gentile, perché?

BENVOLIO

Per il tormento del tuo cuore gentile.

ROMEO

E perché mai? Sono i consueti tormenti dell’amore.

Già una mia pena mi pesa in petto,

e tu ci vuoi aggiungere la tua:

quest’amore che tu mi dimostri

aggiunge altra pena al troppo mio dolore.

L’amore è una nebbia che si forma col vapore dei sospiri:

se si dirada, diventa un fuoco sfavillante negli occhi degli amanti;

se s’addensa, un oceano gonfio delle loro lacrime.

Che altro? Una saggia follia, una bile capace di soffocare,

una dolcezza capace di guarire.

Addio, cugino mio.

BENVOLIO

Un momento, vengo anch’io, mi fai un torto

se mi lasci così.

ROMEO

Scusa, non sono più in me, sono come assente.

Non è Romeo questo che vedi, è da un’altra parte, lui.

BENVOLIO

Ma dimmi, senza scherzare, chi è che ami?

ROMEO

Vuoi forse che te lo dica piangendo?

BENVOLIO

Piangendo? Certo no, ma dimmelo senza scherzare.

ROMEO

Diresti forse a un moribondo di far testamento

senza scherzare? Sarebbe indelicato parlar così

a uno gravemente ammalato. In tutta serietà,

cugino, amo una donna.

BENVOLIO

Avevo quasi fatto centro a pensarti innamorato.

ROMEO

Proprio un bel tiratore! Ed è bella quella che amo.

BENVOLIO

Un bel bersaglio, mio bel cugino, si colpisce meglio.

ROMEO

E qui invece hai sbagliato colpo.

Perché lei sfugge alle frecce di Cupido, ha la furbizia di Diana,

e, ben chiusa nell’armatura salda della sua castità,

vive serena e lontana da quello spuntato arco infantile.

Ella fugge gli assedi delle parole d’amore,

schiva gli assalti degli sguardi

ed il suo grembo non apre neanche all’oro,

che, pure, seduce anche i santi.

Ricchissima nella sua bellezza, solo in questo è povera,

che una volta morta,

la sua ricchezza morirà con la sua bellezza.

BENVOLIO

Ha dunque fatto voto di castità?

ROMEO

Sì, e così risparmiandosi ha fatto un enorme spreco,

perché la bellezza,

lasciata a digiuno d’amore per eccesso di severità,

deruba il futuro dell’eredità del suo splendore.

È troppo bella, troppo astuta, troppo astutamente bella

per meritare il paradiso condannandomi all’inferno.

Giurando di non amare, mi fa vivere come morto,

io, che ormai, vivo solo in questo racconto.

BENVOLIO

Dammi retta, dimenticati di pensarla.

ROMEO

Insegnami dunque a dimenticare di pensare.

BENVOLIO

Devi dare libertà ai tuoi occhi:

guarda altre bellezze.

ROMEO

Ma questo è il modo migliore per far sì che lei,

di tutte più bella, mi torni sempre alla mente.

Queste maschere così felici di poter baciare i volti delle signore,

con il loro color nero ci fanno pensare

ai candori che nascondono. Chi è cieco

non può dimenticare il prezioso tesoro della vista perduta.

Mostrami una donna d’insuperablle bellezza, e cosa sarà per me

questa sua beltà se non una pagina dove leggere di lei,

che è ancora più bella? Addio, non sei certo tu

che puoi insegnarmi a dimenticare.

BENVOLIO

Tenterò d’insegnartelo, o morirò in debito. Escono.

ATTO PRIMO – SCENA SECONDA

Entrano Capuleti, Paride e un servo.

CAPULETI

Ma Montecchi è legato come me alla stessa promessa,

minacciato dalla stessa pena. Non credo sia difficlle,

per due vecchi come noi, restare in pace.

PARIDE

Siete entrambi di nobile rango, è un peccato

che così a lungo siate vissuti in discordia.

Ma ditemi, signore, come rispondete alla mia domanda?

CAPULETI

Semplicemente ripetendo quello che vi ho già detto.

Mia figlia non ha esperienza del mondo, non ha ancora

visto quattordici anni interi: lasciamo che altre due estati

vedano disseccato il proprio fulgore

prima di giudicarla matura per le nozze.

PARIDE

Pure, ragazze più giovani di lei son già madri felici.

CAPULETI

Già, presto maritate, presto rovinate.

Tranne lei, la terra ha già inghiottito tutte le mie speranze,

e Giulietta è rimasta adesso l’unica padrona

della mia terra e delle mie speranze.

Ma corteggiatela pure, gentile Paride, conquistate il suo cuore.

La mia volontà è soltanto un accessorio della sua decisione:

se lei è d’accordo, dentro la sua scelta

sarà il mio consenso e il mio pieno accordo.

Stasera, secondo un’antica tradizione, c’è una festa a casa mia,

cui ho invitato gli amici che amo, e voi fra quelli.

Aumentatene il numero con la vostra presenza, sarà la più cara.

Nella mia povera casa potrete vedere stanotte calpestare la terra

quelle stelle che son solite illuminare l’oscurità del cielo.

Quell’ardore che sentono i giovani vigorosi quando Aprile,

tutto in ghingheri, sta ormai per raggiungere lo zoppicante inverno,

quel piacere d’essere tra freschi germogli femminili,

lo proverete stanotte, a casa mia.

Ascoltatele tutte, guardatele tutte, e innamoratevi

di quella il cui merito vi sembrerà superiore,

dopo averle tutte osservate, mia figlia compresa,

contata per uno ma non valutata per prima.

Su, venite con me. (Al servo.) E tu, ragazzo, arranca

per tutta la bella Verona, trova le persone

i cui nomi sono qui scritti e riferisci che stasera

la mia gioia e quella di casa mia dipendono da loro.

Escono (Capuleti e Paride).

SERVO

Trova le persone i cui nomi sono scritti qui. È scritto che il calzolaio debba occuparsi del suo metro, il sarto della forma delle scarpe, il pescatore del pennello e il pittore delle reti; ma me mi mandano a trovare le persone i cui nomi sono scritti qui, e io i nomi che ha scritto chi ha scritto qui non saprò mai trovarli. Devo trovare uno che abbia studiato. Forza!

Entrano Benvolio e Romeo.

BENVOLIO

Su, caro mio, un fuoco ne divora un altro,

un dolore s’attenua quando un dolore più grande addolora,

e se girando ti viene il capogiro, dovrai girare in senso contrario.

Una pena disperata viene curata dal languore di un’altra.

Prendi qualche nuova infezione all’occhio

e l’acre veleno della malattia precedente morirà.

ROMEO

La foglia di piantaggine è eccellente per questo.

BENVOLIO

Per che cosa, scusami?

ROMEO

Per il tuo stinco, se è rotto.

BENVOLIO

Sei impazzito?

ROMEO

No, ma sono legato peggio di un pazzo, chiuso in prigione,

tenuto a digiuno, frustato, torturato, e…

Buona sera, buon uomo.

SERVO

Dio vi dia una buona sera. Vi, prego, signore, sapete leggere?

ROMEO

Sì, so leggere la mia sorte nella mia sventura.

SERVO

Forse l’avete imparato senza libri. Ma vi prego, sapete leggere tutto quello che vedete?

ROMEO

Sì, se conosco le lettere e la lingua.

SERVO

Siete sincero; statevi bene.

ROMEO

Aspetta, amico, so leggere. Legge la lettera.

Il Signor Martino con moglie e figlie;

         Il Conte Anselmo e le sue graziose sorelle;

         La vedova. Utruvio;

         Il Signor Placenzio e le sue belle nipoti;

         Mercuzio e suo fratello Valentino;

         Mio zio Capuleti, con moglie e figlie;

         La mia bella nipote Rosalina con Livia;

         Il Signor Valenzio e suo cugino Tebaldo;

         Lucio e la vivace Elena.

Proprio una bella compagnia. E dove dovrebbero venire?

SERVO

Su.

ROMEO

A cenare dove?

SERVO

In casa nostra.

ROMEO

La casa di chi?

SERVO

Quella del mio padrone.

ROMEO

Già; avrei dovuto chiederti subito chi è.

SERVO

E io ve lo dico prima che me lo chiediate. Il mio padrone è il ricco Capuleti, e se voi non siete un Montecchi, potete venire pure voi per un bicchiere di vino. Statevi bene. Esce.

BENVOLIO

A questa festa tradizionale dei Capuleti

cena la bella Rosalina di cui sei così innamorato,

e con lei tutte le bellezze famose di Verona.

Vacci anche tu, e con occhio imparziale confronta

il suo viso con quelli che ti mostrerò,

e ti convincerò che il tuo cigno è un corvo.

ROMEO

Quando la religiosa devozione del mio occhio

crederà a una simile menzogna,

si trasformino pure le mie lacrime in fuoco,

e questi eretici trasparenti dei miei occhi che,

spesso sommersi, non annegarono mai,

siano ora arsi vivi come s’addice ai bugiardi.

Una donna più bella del mio amore!

Anche il sole, che tutto ha veduto,

non ha mai visto una bellezza simile dall’inizio del mondo.

BENVOLIO

Ma via! ti pare così bella perché mai l’hai vista tra le altre,

e sulla bilancia dei tuoi occhi lei è stata misurata con se stessa.

Ma metti su quei due piatti di cristallo

da una parte il tuo amore e dall’altra qualche altra ragazza

che ti indicherò alla festa, risplendente,

e ti sembrerà mediocre quella che ora

ti pare la migliore.

ROMEO

Verrò. Ma non per vedere il tuo splendore,

quanto per gioire del mio. (Escono.)

ATTO PRIMO – SCENA TERZA

Entrano Donna Capuleti e la Nutrice.

DONNA CAPULETI

Nutrice, dov’è mia figlia? Falla venire da me.

NUTRICE

L’ho già chiamata, ve lo giuro sulla verginità

dei miei dodici anni. Agnellino, coccinella!

Dio la protegga. Dov’è questa bimba? Ehi, Giulietta!

Entra Giulietta.

GIULIETTA

Che c’è? Chi mi vuole?

NUTRICE

Vostra madre.

GIULIETTA

Signora, son qui, cosa volete?

DONNA CAPULETI

Ecco cosa voglio – e tu, nutrice, lasciaci,

dobbiamo parlarci da sole. O forse no, resta,

ripensandoci, è meglio che tu ci senta.

Tu sai che mia figlia ha una certa età…

NUTRICE

Beh, posso dirne l’età senza sbagliare di un’ora.

DONNA CAPULETI

Deve compiere i quattordici.

NUTRICE

Scommetto quattordici dei miei denti… Anche se,

con dolore, devo ammettere che me ne restano solo quattro.

Deve compiere i quattordici… quanto

manca alla festa del raccolto?

DONNA CAPULETI

Più o meno quindici giorni.

NUTRICE

Un po’ più un po’ meno, quando di tutti i giorni dell’anno

o sarà arrivata la notte della vigilia della festa,

lei avrà quattordici anni. Lei e Susanna

– Dio conceda pace a tutte le anime dei cristiani –

avevano la stessa età. Beh, Susanna è ora con Dio,

era troppo buona, per me. Ma, stavo dicendo,

la notte della vigilia lei compirà quattordici anni,

ci giurerei, non ho dubbi io, me lo ricordo bene…

Sono passati undici anni da quel terremoto,

e fu proprio allora, tra tutti i giorni dell’anno

che cominciai a toglierle il latte, mica me lo dimentico, io,

che mi ero messa dell’assenzio sul capezzolo,

e me ne stavo seduta al sole, appoggiata a un muro,

sotto la colombaia. Voi e vostro marito eravate a Mantova.

Ho una buona memoria, io, ma, come dicevo,

appena sentì l’assenzio sul capezzolo, poverina,

della mia tetta, e lo sentì amaro,

bisognava vederla, come cominciò a strapazzarmela tutta,

la mia mammella, una furia, e la colombaia “scappa”, disse,

ma non ce n’era bisogno, ve l’assicuro, di ordinarmelo.

E son passati già undici anni, che stava già in piedi, lei,

da sola, per Dio, che se ne correva e sgambettava

da tutte le parti, e il giorno prima s’era rotta qui la testa,

e mio marito, Dio l’abbia in gloria, era un tipo allegro lui,

la tirò su e le disse, ehi, cadi sulla pancia?

Quando sarai più furba cadrai sulla schiena, eh, Giulietta?

E lei, per la madonna, smise di piangere, quella birbantella,

e disse “sì”! E pensare come uno scherzo può diventare vero!

Vivessi mille anni, non la dimenticherei mai,

quella scena. “Cadrai sulla schiena, eh, Giulietta?”,

e lei, la stupidina, “sì”, e smise di piangere.

DONNA CAPULETI

Ne ho abbastanza, ti prego, stai zitta.

NUTRICE

Sì, signora, certo, ma non ce la faccio a non ridere,

se ripenso a come smise di piangere, e disse “sì”,

e, ve lo giuro, aveva un bozzo sulla fronte,

come un testicolo di galletto, una botta pericolosa s’era presa,

e non la smetteva più di piangere, ma quando mio marito

“Ehi”, le disse, “sei caduta sulla pancia? Quando

sarai più grande imparerai a cadere sulla schiena,

non è vero, Giulietta?” lei “sì” disse,

e smise subito di piangere.

GIULIETTA

E smettila anche tu, ti prego, balia, dico io.

NUTRICE

Basta, ho finito, Dio ti protegga,

eri la bambina più bella che ho mai allattato.

Potessi vivere tanto da vederti sposata,

non desidero altro.

DONNA CAPULETI

Sposata, ecco, proprio di matrimonio

ero venuta a parlare. Dimmi, figlia mia,

Giulietta, cosa ne pensi di sposarti?

GIULIETTA

È un onore che non sogno neanche.

NUTRICE

Un onore! Ecco! Non fossi stata l’unica ad allattarti,

lo direi forte, che te lo sei succhiato dalle mie tette, il senno.

DONNA CAPULETI

Beh, è ora che ci pensi, al matrimonio,

perché qui a Verona, anche più giovani di te,

e di buona famiglia, sono già madri.

Se non sbaglio i conti, io stessa ero già tua madre

quando avevo gli anni che hai tu ora. Insomma,

a farla breve, il nobile Paride vuole te per il suo amore.

NUTRICE

Un uomo, ragazza mia! Un uomo, mia signora,

che tutto il mondo… bello come una statua.

DONNA CAPULETI

L’estate di Verona non ha fiore così bello.

NUTRICE

Sì, un fiore, proprio, un fiore…

DONNA CAPULETI

Che ne dici, potresti amare questo gentiluomo?

Stanotte lo vedrai, alla nostra festa;

leggi il libro del suo viso, e vedrai che delizie

ha lì scritto la penna della bellezza.

Guarda come vanno d’accordo le sue fattezze,

come una renda l’altra felice, e se qualcosa

ti sembra oscuro in quel libro,

lo trovi spiegato a margine nei suoi occhi.

Questo prezioso volume d’amore, questo amante slegato,

rilegato diverrà ancora più bello.

Il pesce si nasconde nel mare, ed è motivo d’orgoglio

per una bella cosa nascondere dentro di sé una bellezza.

Agli occhi di molti, un libro ha più valore

se fermagli d’oro racchiudono la sua storia dorata.

Così tu, possedendolo, avrai tutto ciò che lui possiede

senza perdere nulla di te stessa.

NUTRICE

Perdere? Aumentare, invece.

Gli uomini fanno ingrossare le donne.

DONNA CAPULETI

Dimmi, in breve, gradisci l’amore di Paride?

GIULIETTA

Vedrò di gradirlo, se il vedere può accendere il piacere,

ma non lascerò che il mio occhio scagli frecce

con più forza di quanto il vostro consenso

non permetta loro di volare.

Entra un servo.

SERVO

Signora, sono arrivati gli invitati, la cena è servita e tutti chiedono di voi, di Giulietta, in cucina maledicono la Nutrice e c’è confusione dappertutto. Devo andare a servi-re. Vi prego, venite subito. Esce.

DONNA CAPULETI

Eccomi, eccomi. Giulietta, il conte ti aspetta.

NUTRICE

Va’, ragazza mia, e trova notti felici per i tuoi giorni felici.

Escono.

ATTO PRIMO – SCENA QUARTA

Entrano Romeo, Mercuzio, Benvolio, con cinque o sei altri in maschera, e portatori di torce.

ROMEO

E dunque, faremo un discorso per scusarci?

O entriamo senza tante storie?

BENVOLIO

Le formalità son fuori moda, ormai.

Basta coi Cupidi bendati da una sciarpa,

con l’arco alla tartara, di legno dipinto,

che fan paura alle signore come spaventapasseri,

e basta con quelle entrate fatte

borbottando il prologo a memoria con l’aiuto

del suggeritore. Lasciamo che ci giudichino pure come vogliono,

noi faremo per loro un ballo veloce, e via!

ROMEO

Datemi una fiaccola: non ho voglia di ballare,

cupo come sono, mi farà bene portare la luce.

MERCUZIO

No, gentile Romeo, siamo qui per farti ballare.

ROMEO

No, non io, credetemi. Voi avete scarpe da ballo,

con l’anima di raso; io ho un’anima di piombo

che m’inchioda al suolo così da non potermi muovere.

MERCUZIO

Sei un amante, prendi in prestito le ali di Cupido

e con esse vola oltre ogni normale limite.

ROMEO

Mi ha ferito troppo gravemente la sua freccia

perché possa alzarmi sulle sue piume leggere,

e così, limitato, non posso saltare oltre l’altezza

d’una ottusa pena d’amore. Schiacciato

dal pesante fardello dell’amore, affondo.

MERCUZIO

Come? Per affondare nell’amore dovresti schiacciarlo.

Saresti un peso troppo grosso per una cosa così tenera.

ROMEO

È cosa tenera l’amore? È duro, rozzo,

villano, prepotente, capace di pungere come una spina.

MERCUZIO

Se l’amore è duro con te, tu sii duro con l’amore,

Rendigli puntura per puntura, e vedrai come s’affloscerà.

Datemi qualcosa per coprirmi il viso:

una maschera sulla mia maschera!

Che m’importa se un occhio curioso vorrà

scoprire le mie bruttezze? Ecco qui

la faccia mostruosa che arrossirà per me.

BENVOLIO

Su, bussiamo ed entriamo. Poi, una volta dentro,

ognuno si affiderà alle sue gambe.

ROMEO

Datemi una fiaccola. Chi ha il cuore leggero

faccia il solletico con le suole alle stuoie insensibili,

per me valga invece il vecchio detto,

terrò il candeliere e starò a vedere.

La partita è più bella che mai, ed io ho finito.

MERCUZIO

Non si muove foglia, come dice la sentinella!

E se non ti muove più nessuna voglia,

con tutto il rispetto per l’amore che ti opprime,

ci penseremo noi a tirarti fuori da questo concime!

Su, vieni, stiamo facendo luce al giorno.

ROMEO

No, non è così.

MERCUZIO

Voglio dire, Romeo, che perdendo tempo, consumiamo

inutilmente le nostre luci, accendiamo luci di giorno.

Cogli l’intenzione buona, perché c’è cinque volte più buon senso

nelle nostre intenzioni che una volta sola nei nostri cinque sensi.

ROMEO

E infatti è con buone intenzioni che andiamo a questa festa,

anche se il buon senso ci direbbe di non andarci.

MERCUZIO

Perché, si può sapere?

ROMEO

Ho fatto un sogno, stanotte.

MERCUZIO

Anch’io ho sognato.

ROMEO

E che hai sognato?

MERCUZIO

Che spesso i sognatori mentono.

ROMEO

Quelli che sono addormentati a letto sognano cose vere.

MERCUZIO

Ah, vedo che la Regina Mab è venuta a trovarti,

lei, che tra le fate è la levatrice, e viene,

non più grande d’un’agata al dito d’un consigliere,

tirata da un equipaggio d’invisibili creature

fin sul naso di chi giace addormentato.

Il suo cocchio è un guscio di nocciola

lavorato dallo scoiattolo falegname o dal vecchio lombrico,

da tempo immemorabde carrozzieri delle fate.

I raggi delle ruote sono fatti con le lunghe zampe dei ragni,

la capote con ali di cavalletta,

le redini con la ragnatela più sottile,

le bardature con umidi raggi di luna,

la frusta con l’osso d’un grillo, la sferza d’impercettiblle filo,

il cocchiere è un moscerino dalla grigia livrea,

più piccolo della metà del vermetto tondo

colto dal dito delle fanciulle pigre.

Su questo cocchio, notte dopo notte, galoppa nelle menti degli amanti

riempendole di sogni amorosi;

oppure eccola sulle ginocchia dei cortigiani,

che subito sognano riverenze;

o sulle dita degli avvocati, che sognano allora parcelle;

o sulle labbra delle donne, che sognano baci,

e che invece spesso, la perfida Mab ricopre di bollicine,

adirata per l’alito che sente di dolciumi.

Altre volte galoppa sul naso d’un gentiluomo di corte,

e quello in sogno sente allora il sapore d’una supplica ben ricompensata;

oppure s’avvicina, con la coda d’un porcellino della decima,

a sfiorare il naso d’un curato addormentato,

e costui subito sogna un benefizio ancor più grasso;

altre volte, col suo cocchio, si spinge sul collo d’un soldato

suscitando sogni di gole tagliate, d’imboscate,

d’assalti e di lame di Toledo,

di brindisi in coppe profonde cinque tese;

poi, all’improvviso, è sempre lei

che gli fa risuonare il tamburo nell’orecchio,

svegliandolo di colpo,

e lui apre l’occhio, impaurito, bestemmia una preghiera o due,

quindi, assonnato, ricade addormentato.

Ed è la stessa Mab che di notte intreccia le criniere dei cavalli,

facendo coi loro luridi crini nodi d’elfi

che a scioglierli porta grave sventura.

È lei la strega che se trova vergini supine

le copre, insegnando loro come sopportare un peso,

rendendole donne di buon portamento. È lei…

ROMEO

Basta, basta, Mercuzio, calma.

Tu parli di nulla.

MERCUZIO

È vero, parlo dei sogni, io, figli d’una mente oziosa,

generati da un’inutile fantasia

fatta d’una sostanza tenue come l’aria

e più incostante del vento,

che spasima ora per il gelido grembo del nord,

ma poi, gonfia di rabbia,

si svolge sbuffando verso un nuovo amore,

il sud umido di rugiada.

BENVOLIO

Questo vento, di cui parli, ci porta via da noi stessi:

la cena sarà già finita e noi arriveremo troppo tardi.

ROMEO

O troppo presto, invece. Perché il mio cuore predice

qualche sciagura ancora appesa alle stelle

che proprio stanotte, durante questa festa,

comincerà amaramente la sua durata paurosa,

e segnerà la fine della vita spregevole chiusa nel mio petto

con qualche vile scacco di morte prematura.

Ma colui ch’è al timone della mia rotta

diriga il mio cammino,

Avanti, ragazzi, andiamo.

BENVOLIO

E tu suona, tamburino!

ATTO PRIMO – SCENA QUINTA

Marciano attraverso il palcoscenico, mentre vengono avanti i servitori portando tovaglioli.

PRIMO SERVO

Dov’è Pentolaccia, che non ci aiuta a sparecchiare? Mai che cambi un piatto, che sgrassi un tagliere!

SECONDO SERVO

Quando la pulizia è nelle mani di un paio di persone che non si lavano mai le mani, la faccenda diventa sporca.

PRIMO SERVO

Leva gli sgabelli, sposta la credenza, e stai attento all’argenteria. E, se mi sei amico, mettimi da parte un po’ di marzapane, se poi mi vuoi davvero bene, avverti il portiere di lasciar entrare Susanna la Mola e Nella… ehi, Antonio, e tu, Pentolaccia!

TERZO SERVO

Eccomi qua, ragazzi, sono pronto.

PRIMO SERVO

Vi cercano, vi chiamano, vi desiderano, vi vogliono, là nel salone.

QUARTO SERVO

Non possiamo mica essere di qua e di là insieme! Allegri, su, e svelti: chi campa di più prende tutto.

Escono (i servitori).

Entrano (Capuleti, Donna Capuleti, Giulietta, Tebaldo, la Nutrice e) tutti, ospiti e dame, andando incontro alle maschere.

CAPULETI

Benvenuti, signori! Le dame che non soffrono

per i calli vorranno fare un ballo con voi!

Ah, mie care, chi di voi potrà ora rifiutare un ballo?

Chi farà la mammoletta è perché, lo giuro,

ha i piedi a barchetta! Colpite, eh?

Benvenuti, signori! Li ho conosciuti anch’io i tempi

quando andavo ai balli in maschera e sussurravo

favole dolci alle orecchie delle belle signore,

che le gradivano: ma è tutto finito, passato, passato!

Benvenuti, signori! E voi, musici, suonate!

Largo, largo, fate spazio, e voi, ragazze, forza!

La musica suona e ballano.

Su, altre luci, birboni, ripiegate i tavoli.

E spegnete il camino, c’è ormai troppo caldo…

Ah, diamine, questa festa improvvisata sta venendo proprio bene.

Ecco, qui, sedete, caro cugino Capuleti,

sia voi che io abbiamo passato il tempo delle danze!

Quanti anni son passati dall’ultima volta

che voi e io abbiamo indossato le maschere?

CUGINO CAPULETI

Per la Madonna, trent’anni!

CAPULETI

Non è possibile, amico mio; di meno, di meno!

È solo dal matrimonio di Lucenzio,

e corra veloce come vuole la Pentecoste,

ne son passati solo venticinque: fu allora

che ci mettemmo le maschere.

CUGINO CAPULETI

Sono di più, di più! Suo figlio ha di più, mio caro,

suo figlio ha trent’anni.

CAPULETI

Non me lo dire!

Era sotto tutela solo due anni fa.

ROMEO

Chi è quella donna che arricchisce la mano

di quel cavaliere?

SERVO

Non lo so, signore.

ROMEO

Oh, ella insegna alle torce a bruciare con più luce!

Sembra pendere sulla guancia della notte

come un gioiello splendente dall’orecchio di un etiope;

una bellezza troppo ricca per l’uso,

troppo preziosa per la terra.

Una colomba di neve in un branco di corvi,

così è lei tra le sue compagne. Finito il ballo

guarderò dove si mette, e, toccando la sua,

renderò felice la mia rozza mano.

Ha forse mai amato, sinora, il mio cuore?

Negatelo, occhi, perché mai, sino a stanotte,

avevo visto la vera bellezza.

TEBALDO

Dalla voce mi pare un Montecchi! Portami

la mia spada, ragazzo. (Esce un ragazzo.) Ma come, quel verme

osa venire qui col volto grottescamente coperto

per prenderci in giro mentre festeggiamo?

Per la nobiltà e l’onore del mio casato,

colpirlo a morte non lo ritengo un peccato!

CAPULETI

Che c’è adesso, nipote, cosa ti rannuvola?

TEBALDO

Zio, questo è un Montecchi, un nostro nemico,

un maledetto, che è qui venuto stanotte

a dissacrare la nostra festa.

CAPULETI

Non è il giovane Romeo?

TEBALDO

È proprio lui, il maledetto Romeo.

CAPULETI

Calmati, mio caro, e lascialo in pace:

si comporta da vero gentiluomo,

e tutta Verona, a dire ll vero, vanta in lui

un giovane pieno di virtù e gentilezza.

Per tutte le ricchezze di questa città

non accetterei che gli fosse fatto del male

in casa mia. Calmati, allora, non badare a lui,

io voglio così, e se tu mi rispetti,

sii di buon umore, e caccia via questi cipigli

che non si addicono a una festa.

TEBALDO

Sì, sì, si addicono, quando un nemico

si traveste da ospite. Non lo sopporterò.

CAPULETI

Lo sopporterai. Ehi, mio buon ragazzo!

Ripeto, lo sopporterai. Andiamo, sono io

il padrone di casa, o tu? Via,

altro che sopportarlo, per Dio, vorresti

suscitare una rissa in casa mia, tra i miei ospiti,

fare il galletto, prender decisioni…

TEBALDO

Ma, zio, è una vergogna.

CAPULETI

Via, via, vai, vai… Sei un insolente,

non è vero? Ma te lo farei pagar caro,

uno scherzo così. So quello che faccio.

Osare contraddirmi, hai scelto proprio il momento giusto…

Bravi, amici miei, avete ballato benissimo…

Sei un presuntuoso, ma adesso basta, su, o…

Più luce, più luce… è una vergogna, te la farò

finire io… allegri, allegri, ragazzi miei!

TEBALDO

La pazienza imposta, mescolandosi contro natura

con una collera irrefrenabile,

rende tutta tremante la mia carne.

Me ne andrò via: ma questa intrusione,

che ora sembra dolce,

si muterà in amarissimo fiele. Esce.

ROMEO

Avessi profanato con la mia mano indegna

questo sacro santuario, rimedio al mio peccato:

queste mie labbra, pellegrini rossi di vergogna,

con un bacio correggono quel tocco indelicato.

GIULIETTA

Buon pellegrino, la vostra mano giudicate con più calma,

che solo umile devozione, in fondo, ha mostrato:

anche i santi hanno mani che i pellegrini han toccato,

e chi torna dal Santo Sepolcro usa unire palma a palma.

ROMEO

Non hanno labbra i santi? e i devoti palmieri?

GIULIETTA

Sì pellegrino, ma le devono usare in devozione.

ROMEO

Oh cara santa, lascia allora che le labbra imitino la preghiera delle mani,

se non vuoi che la fede si muti in disperazione.

GIULIETTA

Non si muovono i santi,

anche quando ascoltano le altrui preghiere.

ROMEO

E allora resta immobile, mentre colgo il frutto

delle mie preghiere. (La bacia.) Così le tue labbra

cancellano il peccato dalle mie.

GIULIETTA

Allora le mie labbra hanno il peccato che han tolto.

ROMEO

Il peccato dalle mie labbra? Oh, colpa dolcemente denunziata.

Ridammi il mio peccato. (La bacia di nuovo.)

GIULIETTA

Tu baci a regola d’arte.

NUTRICE

Giulietta, vostra madre vuole parlarvi.

ROMEO

Chi è sua madre?

NUTRICE

Come, ragazzo mio, sua madre è la padrona di casa,

una buona signora, saggia e virtuosa.

Io ho allevato sua figlia, con cui avete parlato sino ad ora,

e vi posso dire che chi se la prenderà

avrà roba sonante.

ROMEO

È una Capuleti? Che terribile prezzo dovrò pagare.

Debbo la vita a una nemica.

BENVOLIO

Su, andiamocene, la festa è al culmine.

ROMEO

Sì, lo temo proprio, il resto sarà il mio tormento.

CAPULETI

Fermatevi, non andatevene così, signori,

abbiamo ancora da offrirvi un piccolo desinare.

Gli dicono qualcosa all’orecchio.

Ho capito, se è così, vi ringrazio tutti,

vi ringrazio, signori, buona notte. Portate delle torce, qui.

Avanti, andiamocene a letto! Ah, perdiana, in fede mia, si fa

io vado a riposarmi. [tardi,

(Escono Capuleti, Donna Capuleti, gli ospiti, i gentiluomini e le maschere.)

GIULIETTA

Vieni qui, balia: chi è quel gentiluomo?

NUTRICE

Il figlio e l’erede del vecchio Tiberio.

GIULIETTA

E chi è quello che sta uscendo adesso?

NUTRICE

Vergine! Credo che sia il giovane Petruccio.

GIULIETTA

E l’altro, dietro a lui, che non ha mai ballato?

NUTRICE

Non lo so.

GIULIETTA

Va a domandargli il nome. Se è sposato

la tomba sarà forse il mio letto nuziale.

NUTRICE

Il suo nome è Romeo, ed è un Montecchi,

l’unico figlio del vostro grande nemico.

GIULIETTA

Il mio unico amore nato dal mio unico odio! Uno sconosciuto

troppo presto visto e troppo tardi conosciuto!

Nascita d’amore tra le più strane e rare,

che un odioso nemico io debba amare.

NUTRICE

Cosa dici? cosa succede?

GIULIETTA

Sono dei versi appena imparati,

da uno con cui ho ballato.

Una voce dall’interno: “Giulietta”.

NUTRICE

Eccoci, eccoci, su, svelta, se ne sono andati via tutti. Escono.

Romeo e Giulietta
(“Romeo and Juliet” – 1594 – 1595)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

 

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

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