Shakespeare e la filosofia occulta del Rinascimento

L’estetica del colore nel Macbeth

di Caroline Pagani

Shakespeare e la filosofia occulta del Rinascimento

Ut (Occulta) Philosophia Poesis

Il mistero che avvolge l’identità di William Shakespeare è noto ed è stato molto discusso. Quel che è meno enigmatico è il fatto che egli sia stato immerso in quel clima storico-culturale di generale fermento e ‘rinascita’ che si suole denominare col termine ‘Rinascimento’. Nel XVI e XVII secolo, il proliferare di trattati ad uso degli artisti e di libri di emblemi, tra cui la nota Iconologia del Ripa, costituisce uno dei fenomeni più rilevanti della cultura del Rinascimento, dovuto a quella sensibilità visuale, visiva, ‘pittorica’ che caratterizza l’epoca. E tale sensibilità, il pensiero ‘emblematico’, ha esercitato un’influenza notevole su Shakespeare. Un altro tratto distintivo dovuto al pensiero rinascimentale è l’idea delle ‘arti sorelle’, poesia e pittura, parola e sguardo, derivante dalla famosa similitudine oraziana, ‘ut pictura poesis’.

Il presupposto fondamentale su cui si basa la teoria umanistica della pittura tra XV e XVIII secolo è quello per il quale il poeta è simile al pittore. Di conseguenza, la pittura sarebbe poesia muta e la poesia un quadro, una pittura parlante. La matrice di tale teoria affonda le proprie radici nell’antichità, in Aristotele e Orazio, e viene riscoperta, in epoca rinascimentale, nella tendenza radicata ad associare le due arti. La Rinascenza ‘scopre’ lo sguardo. E valorizza la parola. Un’altra caratteristica dovuta alla cultura rinascimentale è il pensiero esoterico.

La componente esoterica è più che mai evidente nella produzione artistica. I quadri tendono a parlare un linguaggio simbolico, ermetico. Questa fase nella storia dell’arte occidentale rientra nel capitolo del Manierismo e precede l’affermazione del Barocco. Tanto il Manierismo in sede artistica, quanto il primo Barocco, esaltano quelli che Hauser chiama “i caratteri emotivi in una teatralità grandiosa”.

(Per “manierismo” in Shakespeare si intende indicare, come nella critica letteraria, “una modalità di espressione come categoria estetica, denominatore comune di tutte le tendenze letterarie che si oppongono al classicismo, rifiutandone il canone naturalistico-mimetico”. Hauser ne ha individuato le ragioni storiche e strutturali, collegandole all’angoscia e al turbamento che si producono ogniqualvolta entra in crisi un modello storico-sociale consolidato e si determina così una frattura fra realtà e letteratura, come avviene in Inghilterra nei primi decenni del Cinquecento. Inserita nel momento di trapasso dal rinascimento al barocco, la scrittura manierista si contraddistingue per una tendenza all’esasperazione,avvalendosi di artifici stilistici, arrivando a scompaginare l’architettura logica alla quale viene contrapposta una diversa visione del mondo. La visione di un mondo in cui sono crollate le certezze, in cui, come dice Argan, “l’uomo passa al dubbio metodico”, dovuta allo scardinamento della posizione dell’uomo all’interno del cosmo, dell’universo, in seguito alla rivoluzione copernicana.)

Così come avviene per le arti figurative, in questa epoca, anche la letteratura intrattiene relazioni privilegiate con l’esoterismo. Manierismo e scienze occulte sono compagni di letto. L’intero universo è considerato come un grande teatro di specchi, che può essere guardato da prospettive differenti e anamorfiche, come un insieme di geroglifici da decifrare in cui, per usare le parole di Fernando Pessoa “tutto è simbolo e allegoria”. Nell’Inghilterra elisabettiana sorsero diverse correnti filosofiche ed esoteriche di cui si dice il nostro personaggio facesse parte. Che egli appartenesse alla confraternita dei Rosacroce o meno, non si può ignorare che in alcuni dei suoi drammi emerge una sapienza talmente estesa e profonda che sembra affondare le proprie radici nell’ermetismo e nella Cabala. Il pensiero ermetico,- come rileva la storiografa Paola Zambelli, in uno studio significativamente intitolato La natura ambigua della magia, – dice che il nostro linguaggio è ambiguo, polivalente, e si avvale di simboli e metafore. In alcuni brani delle opere di Shakespeare, (Amleto, Macbeth, Il sogno di una notte di mezza estate, La Tempesta, in particolare, ma anche Il mercante di Venezia, e gli ultimi drammi romanzeschi: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’Inverno) è possibile individuare parole e concetti tratti da esoteristi quali Ermete Trismegisto, Paracelso, Cornelio Agrippa, Francesco Giorgi, Marsilio Ficino, Giordano Bruno e dal gruppo teologico tedesco conosciuto come Rosacroce, la cui dottrina si diffuse pienamente in Inghilterra nel XVII secolo.

Shakespeare, probabilmente, attinse da tutti questi insegnamenti e dottrine esoteriche i temi che elaborò interiormente per creare le sue grandi opere. Soprattutto nelle ultime realizzazioni si nota un linguaggio misterico che fece pensare all’autore come ad un grande iniziato che operava sotto falso nome. Così, il cigno di Avon sembra muoversi in un’aura enigmatica, come uno spirito libero, in possesso di concetti misterici ben definiti. Nonostante si combattesse molto contro la magia e le sue derivazioni, è innegabile che nel Rinascimento essa fosse un fatto culturale, e la letteratura dell’epoca era densa di significati occulti. In uno studio approfondito di Frances Yates, Cabbala e Occultismo nell’età elisabettiana, si rileva come i drammi maggiori del più grande drammaturgo del periodo siano avvolti in un’atmosfera particolare: quella dell’occulto, e soprattutto come essa avesse una connessione profonda con la filosofia del periodo, la filosofia occulta caratterizzata dalla magia, dall’intento di penetrare nelle sfere profonde della conoscenza. Il mondo dell’epoca elisabettiana è caratterizzato da un particolare retroterra ideologico-culturale, dalla magia rinascimentale e dall’interesse per il soprannaturale. Le grandi creazioni di Shakespeare – Amleto, Lear, Macbeth, Prospero – sono considerate appartenenti alle fasi tarde della filosofia occulta rinascimentale che fu la filosofia dell’età elisabettiana. Amleto è ossessionato dal fantasma, Macbeth incontra le streghe. Il Macbeth, insieme alla Tempesta, è una delle opere più ‘esoteriche’ di Shakespeare, dove per ‘esoterismo’ si intende, come indica il significato etimologico del termine, ciò che è interno, nascosto, segreto, dotato di un linguaggio che richiede e permette, attraverso un lavoro di interpretazione, lo svelamento di un senso più profondo. L’esoterismo si vede così conferire una funzione ermeneutica, in quanto esso è anche una sintesi dei simboli, che stimola un’interpretazione del linguaggio simbolico e per immagini. Il retroterra ideologico e filosofico delle opere shakespeariane è quindi di estrema importanza per comprendere appieno i testi, anche nella loro ricezione estetica, nella loro simbologia, nelle loro immagini e nei loro colori. Sono chiaramente reperibili in alcune di queste opere, e in particolare nel Macbeth, influenze pneumatologiche e demonologiche che incontrarono un particolare favore nell’Inghilterra elisabettiana e giacomiana. Anche il sovrano Giacomo I Stuart era cultore delle pseudo scienze del sovrannaturale e dell’occulto. In Esotérisme de l’oeuvre shakespearienne uno studioso esoterico osserva come Shakespeare e i suoi contemporanei che sono vissuti prima del cartesianesimo, non ragionassero come noi. Di conseguenza, la magia, l’astrologia, l’alchimia e la filosofia erano considerate come degli aspetti della scienza: la scienza occulta. All’inizio del XVI secolo Giovanni Tritemio era considerato il mago più potente; Agrippa divulga il suo insegnamento segreto nei quattro libri della sua De Occulta Philosophia. Secondo l’opera di Agrippa, esistono delle corrispondenze analogiche tra il microcosmo del mondo umano e il macrocosmo del mondo universale, basate sul principio che “ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto”.

“L’universo è ordinato secondo una gerarchia che distingue, partendo dall’alto verso il basso, gli spiriti sopracelesti, celesti, sublunari e infernali. Tritemio, fedele alle categorie alchemiche, li raggruppa in spiriti del fuoco nelle regioni superiori, in spiriti aerei, in spiriti terrestri precipitati dal cielo sulla terra, spiriti dell’acqua e spiriti sotterranei delle grotte e degli antri e, infine, quelli che temono la luce ed errano nelle tenebre. Da una categoria all’altra vi sono scambi costanti e un’ interazione di influenze”.

Dominare il mondo di questi spiriti è quindi l’arte del mago. Ma per comandare gli spiriti bisogna dominarli attraverso la virtù. È per questo che Agrippa distingue magia bianca, cerimoniale e magia nera, negromantica. Macbeth è stato definito da Agostino Lombardo il simbolo dell’arte drammatica e Harold Bloom vi ha ravvisato la celebrazione dell’immaginazione rinascimentale. Questa tragedia è infatti dotata di una spiccata qualità rituale, nella forma e nei contenuti, in essa la dimensione sovrannaturale ha grande rilievo, pur rimanendo un’opera moderna. Macbeth è forse il primo dramma che introduce seriamente in scena i riti e le pratiche della stregoneria contemporanea. Con l’inserimento nel testo e quindi in scena delle streghe, delle evocazioni ed invocazioni, Shakespeare ha anche introdotto una dimensione marcatamente sovrannaturale all’intera azione. Il drammaturgo ha incluso, nei discorsi delle streghe e in particolar modo negli incantesimi, una conoscenza della magia negromantica ed esorcistica.

Le evocazioni presenti nel testo sono vere e proprie evocazioni e rivelano una consapevolezza del potere della parola che esplica qui la facoltà di stare per la cosa nominata, proprio come scrive Agrippa nel De Occulta Philosophia“le parole esprimono e rappresentano le cose, le esplicano, ne costituiscono il veicolo”.

Questo atteggiamento mentale deriva dalla diffusa opinione, documentata in Inghilterra da John Dee, derivata da Pico della Mirandola, che le parole, usate in certi modi dal mago, sono capaci di veicolare forze misteriose e occulte. Shakespeare probabilmente conosceva qualcosa dello gnosticismo attraverso la filosofia ermetica di Giordano Bruno, come aveva già approfonditamente indagato la Yates, e negli studi più recenti di Bloom questa influenza viene riconosciuta, anche se forse in modo indiretto. È altresì riscontrabile un particolare interesse per la dimensione metafisica, e soprattutto per la parola e l’immagine, l’immagine visiva. Quest’ultima si sviluppa attorno alla riscoperta rinascimentale della filosofia platonica in un contesto che è però ancora legato alla tradizione aristotelica. È stato messo in luce da vari critici come Shakespeare conoscesse molto bene i classici e come egli avesse anche una conoscenza approfondita di Platone e Aristotele, grazie alla circolazione e divulgazione ad opera di Marsilio Ficino e Giordano Bruno, di numerose traduzioni di testi dei suddetti filosofi. Dal Macbeth emerge dunque una sensibilità ai contenuti concettuali che alimentarono il Rinascimento. Come rileva Claudia Corti in ‘Macbeth’: la parola e l’immagine, “Shakespeare indaga sul fenomeno linguistico, anatomizzato nella sua capacità a denotare l’essenza del reale, e interroga il fenomeno visivo nella sua presunta oggettività e facoltà di significare […] a cui si accompagna la virtualità conoscitiva della visione fantasmatica”.
Importante è nel testo il rapporto che intercorre fra parola e cosa, fra essere e dire. Si può infatti affermare che, nella prospettiva occidentale, il linguaggio è stato sempre visto come un’entità costitutiva dell’uomo. L’essere si realizza nel linguaggio, come direbbe Martin Heidegger. Il linguaggio non è semplicemente un segno, la parola, il nome conferiscono un’identità, la parola è dotata di un potere reificante, essa cioè non si limita ad indicare ma è, si identifica con ciò che designa. Non si tratta di una mera analogia fra il nome e la cosa, ma di un vincolo sostanziale, poiché, “l’essere non è altro dal suo darsi nel linguaggio”. Esiste quindi un rapporto inalienabile fra uomo e linguaggio, a cui il mondo classico diede il nome di lògos: termine che indica simultaneamente la manifestazione fonica di qualcosa e la sua essenza. Di conseguenza, le parole sono le cose stesse, e le cose esistono in quanto parole. Tale concezione classica dell’identità fra linguaggio ed entità umana affonda le proprie radici nella classicità, e in particolar modo in un trattato di Aristotele: il De Interpretatione. In un capitolo dedicato all’enunciazione egli afferma: “I suoni della voce sono dunque segni delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. […] quello poi di cui questi suoni e segni scritti sono in primo luogo segni sono le affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti, e le cose, di cui queste costituiscono le immagini, sono del pari le stesse per tutti”.

Il linguaggio, dunque, è espressione delle affezioni dell’anima (immagini, concetti, sentimenti). Nella visione occidentale, infatti, come sottolinea Heidegger, “il linguaggio è la dimora dell’essere”. Anzi, la Parola indica l’Essere. La Parola conferisce alle Cose la qualità istitutiva dell’esistenza, manifestandone al tempo stesso la loro essenza. L’essere si dà nel linguaggio. Questa concezione classica del parlare trapassa nel Rinascimento, periodo sensibile alla plasticità, che non separa mai il senso della parola dalla sua espressione. Aristotele, nel De Enunciazione,parla di ‘segni’, cioè di qualcosa che designa, ma anche di ‘simboli’ e ‘immagini’, ossia di qualcosa che evoca e che raffigura fenomenicamente. A partire dal XV secolo, la riscoperta della metafisica platonica che invade la cultura occidentale porta i filosofi ad interrogarsi sul linguaggio. Se la realtà del mondo non è quindi ontologica, se gli oggetti della Natura non sono che copie delle Idee, allora la conoscenza è simbolica. La visione del linguaggio come suprema categoria ontologica dell’Essere comincia ad incrinarsi, il pensiero trasferendosi da un ordine sentito come reale ad un altro avvertito come simbolico, conferisce particolare importanza ai nomi e ai segni, di conseguenza, il rapporto fra parole e realtà tende a diventare raffigurativo. Ha così inizio “quel processo attraverso cui le cose si derealizzano, divenendo, nelle parole, simulacri”. È in base a questa prospettiva generale che nel Rinascimento acquista particolare importanza il segno linguistico. Come scrive Agrippa nel De Occulta Philosophia“le parole esprimono e rappresentano le cose”, anzi le esplicano, esse ne “costituiscono il veicolo”.

La parola, quindi, rappresenta direttamente l’oggetto; il nome sta per la cosa. In epoca rinascimentale si tende ad accordare al segno visivo un’importanza pari a quella assegnata al segno linguistico. Da qui deriverà il noto interesse per i geroglifici e gli emblemi, – segni simultaneamente visuali e verbali, documentato in Inghilterra dal filosofo emblematico dell’ epoca: John Dee. La parola, quindi, “non rappresenta semplicemente la forma di un’entità, bensì può rappresentarne l’essenza”. Questo aspetto è particolarmente evidente nel Macbeth ogniqualvolta vi sono delle invocazioni o evocazioni, basti pensare a Lady Macbeth nella scena dell’invocazione agli spiriti infernali. Le parole che pronuncia il personaggio hanno il tono e l’andamento esortativo di una formula magica,sembrano tratte di peso da un manuale di magia nera. In un testo di Agrippa sulle evocazioni magiche, intitolato Il libro segreto del comando, nelle “Invocazioni alle Divinità Infernali”,  ricorrono spesso modi imperativi che attestano la fiducia nell’efficacia pragmatica della parola. L’apporto della Cabala, in questo senso, ha svolto un ruolo determinante per il valore che essa assegna sul piano conoscitivo alle lettere dell’alfabeto ebraico. Come è noto, per i cabalisti l’onnipotenza divina era tutta racchiusa, contenuta, inscritta nelle lettere dei nomi di Dio. A tale proposito Agrippa nella sua Filosofia Occulta afferma: “Ventidue lettere quindi costituiscono la base del mondo e di tutte le sue creature; tutto quanto è stato detto e creato proviene da esse e tutto ritrae il nome e la virtù delle loro rivoluzioni. Per penetrarne gli arcani necessita esaminare così a fondo le loro combinazioni, che ne scaturisca la voce della divinità e ne balzi il testo dalle sacre lettere”.
È interessante osservare come in Inghilterra questa concezione naturalistico-magica del segno linguistico diventi il bersaglio dell’opposizione religiosa contro l’occultismo. Contrapporre un punto di vista ‘convenzionalistico’, che neghi cioè la possibilità di un rapporto diretto fra segno e oggetto, equivaleva a cercare di togliere alla parola medesima ciò che essa aveva di pericoloso, di misterioso, di ‘diabolico’ o ‘stregonesco’ che le aveva conferito l’ermetismo cabalistico. All’interno di questo dibattito, è interessante osservare la posizione di Francis Bacon, il quale mette in guardia contro l’idolatria che il Cinquecento aveva riservato al linguaggio. Egli afferma nell’Advancement of Learning“le parole sono immagini e innamorarsi di loro è come innamorarsi di un quadro”. È appunto in tale retroterra culturale, in tale humus che si innesta il discorso di Shakespeare. Di tale discorso shakespeariano Macbeth esemplifica un momento di particolare pregnanza concettuale e di forte densità semantica. Un elemento semanticamente denso va colto nella presenza del modulo ternario. Tre sono le streghe, tre le domande, tre i fenomeni naturali menzionati. Le streghe sono figure provenienti dalla tradizione culturale demonologica ed occultistica. Nei trattati demonologici del Cinquecento e del primo Seicento, il numero tre compare come matrice dell’illusione e dell’essere. Ma le pseudo scienze rinascimentali del sovrannaturale assegnavano al numero tre anche un’altra e diversa valenza. Quella del superamento di un contrasto. Nell’esordio del Macbeth l’idea del contrasto trova un’eccellente esemplificazione nella dicotomiae nell’opposizione espressa dalle fatidiche sorelle con “bello è il brutto e brutto è il bello”, che illustra il connubio delle forze contrastanti Bene/Male, luce/tenebre, leitmotiv dell’intero dramma. Uno dei principi strutturali su cui quest’opera poggia è infatti anche quello della conflittualità e della contrapposizione di forze. Per questo motivo Agostino Lombardo ha definito il Macbeth il ‘simbolo dell’arte drammatica’, proprio perché il dramma mira alla “rappresentazione degli urti che ci sono nella storia, nel mondo, nell’anima degli uomini”.
C’è un legame tra il Macbeth e l’ultima opera di Shakespeare, la Tempesta, sono le più esoteriche. Negli ultimi drammi di Shakespeare l’atmosfera magica si fa particolarmente intensa e appare ancor più chiaramente connessa alle grandi tradizioni della magia rinascimentale: la magia intesa come sistema intellettuale dell’universo, “presagio della scienza” (Yates), come strumento per unire fedi religiose in contrasto all’interno di un generale movimento di riforma ermetica (aspetti presenti in Giordano Bruno che predicò in Inghilterra negli anni di formazione del Bardo). Shakespeare sembra quindi essere stato a conoscenza degli scopi religiosi più generali della magia rinascimentale sin dai drammi precedenti, anche se negli ultimi l’influsso di questa sensibilità è ancora più palpabile. Nel Pericle il drammaturgo introduce una grande figura di mago nel personaggio di Cerimone. Egli usa la terapia musicale per guarire e per riportare alla vita. Egli è il mago in quanto medico piuttosto che il mago in quanto cultore di scienze naturali incarnato dal Prospero della Tempesta. La Yates scorge intorno a questa figura di mago un’aura rosacruciana e l’influsso dell’ideale di medico diffusosi in Europa attraverso l’azione di Paracelso. Nel Racconto d’inverno viene ripreso il tema di una donna apparentemente morta che ritorna in vita, nel caso di Paolina e della presunta statua di Ermione. Paolina, con l’ausilio della musica, infonde la vita in un’immagine morta. In questa scena, nell’atto di richiamare in vita la statua, si può scorgere il nucleo ermetico del dramma.

Il drammaturgo sembra alludere qui ad un particolare tipo di magia: quella ermetica di derivazione egizia. Gli scritti attribuiti al presunto Ermete Trismegisto ebbero un immenso influsso nel Rinascimento, ed erano collegati al Neoplatonismo, nucleo ermetico di quel movimento. Nell’Asclepio, Ermete descrive la magia religiosa mediante la quale si supponeva che gli antichi sacerdoti egizi infondessero la vita nelle statue delle loro divinità con vari riti e pratiche tra cui l’accompagnamento musicale. La Yates ha dimostrato come Shakespeare, nella scena di Paolina e la statua di Ermione, abbia alluso al famoso passo dell’Asclepio sull’atto creativo della divinità. Nel Racconto d’Inverno torna quindi il leitmotiv della religione magica ermetica o egizia, nell’episodio della magia di Paolina che alluderebbe alle statue magiche dell’Asclepio e la storica ravvisa nel dramma una delle più importanti correnti della filosofia magica della natura del Rinascimento. Anche il Cimbelino presenta aspetti misteriosi e significati ed esoterici nel simbolo centrale della caverna che pare alludere al simbolismo rasacrociano. La massima espressione filosofica e magica dell’ultima produzione shakespeariana è rappresentata dalla Tempesta. All’interno di questo dramma romanzesco acquista grande rilievo il masque, genere di intrattenimento spettacolare misto, di cui la Yates ha sottolineato le finalità magico-propiziatorie. Di che genere di magia si tratta nella Tempesta? Il mago Prospero agisce sulla falsariga del famoso manuale di magia del Rinascimento, il De Occulta Philosophia del neoplatonico Agrippa. Frank Kermode per primo ha indicato Agrippa come ispirazione per l’arte di Prospero il quale ha appreso proprio quell’ ‘occulta philosophia’da lui insegnata. La struttura o il sistema intellettuale entro cui funziona la magia di Prospero si rifà alle definizioni di Agrippa. Secondo lo studioso l’universo è infatti suddiviso in tre mondi: elementare, celeste, intellettuale. La magia naturale agisce nel mondo degli elementi; la magia celeste agisce nel mondo degli astri e una più alta magia religiosa agisce in quello sovraceleste. Nella Tempesta, Prospero sembrerebbe rifarsi alla magia evocatrice cabalistica, cerimoniale, bianca, nel Pericle, Cerimone usa quella risanatrice e Il racconto d’inverno è pervaso dalla filosofia naturalistica. Nella figura di Prospero è stato adombrato John Dee, il filosofo medico elisabettiano che Shakespeare dovette conoscere. Dee segue la teoria dei tre mondi di Agrippa che sono attraversati dal connettivo simbolico e cabalistico del numero. La scienza di Dee è di tipo ‘rosacrociano’. Con questo termine si designa uno stadio intermedio nella storia della tradizione magico-scientifica tra il Rinascimento e il XVII secolo. La Tempesta presenta così una filosofia che connette tutti questi influssi magico-religiosi e incarna una delle espressioni supreme di quella fase tanto importante nella storia del pensiero europeo. L’interesse di Shakespeare per l’occulto non deve essere interpretato nel senso di una derivazione dalla tradizione popolare e folcloristica, ma piuttosto da profonde radici di affinità con la filosofia dell’epoca. La filosofia dominante dell’età  elisabettiana fu precisamente la filosofia occulta cabalistico-cristiana, caratterizzata da una  peculiare miscela rosacrociana di magia e scienza. Se il nucleo concettuale della Weltanshauung della Rinascenza (italiana e inglese) va individuato nel prevalere della manifestazione verbale, è altresì vero che il centro della sensibilità del periodo va rinvenuta in un radicato visualismo. L’immaginificità shakespeariana è intrinsecamente visuale. Il Macbeth attesta tale tendenza rinascimentale a pensare per idee astratte, in termini di concrete correlazioni visive. Il pensiero elisabettiano è dotato di una peculiare qualità emblematica che trova terreno fertile di espressione nel teatro, dove spesso il dramma si configura come una sorta di geroglifico in cui “la singola immagine visiva diventa funtivo di una immanente dimensione iconica”. Il rapporto tra idea e immagine, la possibilità di rendere visiva e visibile l’Idea è unadelle postulazioni di base della teoria estetica cinquecentesca. Basti pensare ai ‘teatri della memoria’ o di icone simboliche di Giulio Camillo e Giordano Bruno. Il problema di unire il visibile e l’intelligibile perviene, nella Rinascenza, ad una momentanea soluzione nell’idea bruniana che qualunque significato può essere espresso attraverso l’immagine che vela mentre rivela.

(I ‘teatri della memoria’ erano trasfigurazioni di uno spazio mentale, luoghi in cui si costruivano immagini mnemoniche simboliche con la finalità di raccogliere lo scibile umano in un unico teatro della memoria appunto. Come sottolinea la Yates in L’arte della memoria, in cui analizza l’Idea del Theatro di Camillo, si tratta dello stesso concetto che sarà alla base dell’enciclopedismo settecentesco.)

Questi contenuti teorici si sono innestati, in Inghilterra, in una solida tradizione teatrale e scenografica, che privilegia sia l’apporto teorico e illustrativo delle figure, sia il loro intento simbolico e allegorico. I masques sono una clamorosa esemplificazione della qualità iconica ed emblematica del teatro elisabettiano e testimonianza delle inalienabili relazioni gnoseologiche che esistono fra pensiero e immagine. La filosofia che informa il pensiero elisabettiano e quindi l’estetica shakespeariana deriva dalla scuola neoplatonica fiorentina, ma anche dall’ermetismo e dalla filosofia dei Rosacroce che può aver esercitato non pochi influssi sull’elaborazione delle sue creazioni poetiche. La letteratura inglese, tra fine del XVI secolo e l’inizio del XVII secolo, è impregnata di influenze occultiste ed esoteriche. I drammaturghi elisabettiani – (non solo Shakespeare, ma anche Christopher Marlowee Ben Jonson) – hanno prodotto opere che si colorano di un esoterismo in cui è possibile scorgere l’uso di idee riprese da dottrine dei Rosacroce, idee anteriori al movimento stesso e che hanno nutrito l’humus cui il grande drammaturgo ha attinto.

Per un’estetica del colore. I colori simbolici del Macbeth.

(Ut Imago Color)Il colore è ovunque, ma ovunque esso sia, c’è già un simbolo.

Anche i colori costituiscono un linguaggio metafisico, ermetico, che va svelato, che richiede una comprensione e interpretazione.

“Lo studio della combinazione dei colori è un’introduzione alla scienza ermeneutica delle corrispondenze”.

Corrispondenze analogiche e simboliche tra microcosmo e macrocosmo, tra l’uomo e l’universo nel Rinascimento. Ed è proprio sul principio delle suddette corrispondenze che si basa la magia, ossia il sistema di analogie simboliche che vigono e operano nell’universo. I colori non costituiscono quindi un linguaggio arbitrario, ma rivelano delle affinità che è possibile svelare. Essi si configurano così come un ‘algoritmo del mondo’. L’attribuzione di un valore simbolico ai diversi colori ha una tradizione molto antica, affonda le proprie radici nella notte dei tempi preistorici. Manlio Brusatin e più recentemente Lia Luzzatto hanno evidenziato le trasformazioni dell’interpretazione di alcuni colori attraverso i secoli, dalle culture precristiane (egizia, greca, latina) fino all’epoca moderna. L’interesse per il colore e per i suoi svariati, ambivalenti e multisfaccettati significati è particolarmente vivo nel XVI secolo. In Inghilterra, come rilevato in precedenza, sono ampiamente diffusi alcuni trattati di autori italiani da cui traggono ispirazione gli artisti (poeti, scrittori, drammaturghi, pittori) che hanno utilizzato il colore non solo in funzione del suo valore estetico, ma anche come efficace veicolo espressivo. Nell’epoca di Shakespeare anche Bacon nella New Atlantis ha utilizzato i colori deliberatamente per enfatizzare alcuni concetti. In ogni epoca è possibile accostare la letteratura, dalla poesia, alla narrativa, alla drammaturgia, alla pittura e all’iconografia del periodo, permettendoci di ravvisare delle corrispondenze, delle relazioni che esistono fra le ‘arti sorelle’. Esiste infatti un vocabolario di motivi simbolici condiviso da tutte le arti. Come sottolinea Anna Anzi in Shakespeare e le arti figurative, “È proprio alla luce di un simbolismo comune che un raffronto tra un dipinto e un’opera letteraria serve ad illuminare entrambi e ad arricchirli reciprocamente”. Il colore può essere indagato da un punto di vista qualitativo, al fine di individuare il potere e la capacità di suscitare emozioni e immagini nell’occhio interiore del lettore-spettatore, come avviene nella percezione dell’occhio di chi osserva i colori di un dipinto. Lo sguardo interiore possiede, infatti, per il critico letterario – soprattutto tra Cinquecento e Seicento – una vista altrettanto acuta dell’occhio esterno per il critico della pittura. La poesia è in grado, come la pittura, secondo l’antico detto oraziano ut pictura poesis, di produrre nella mente umana delle immagini. In Shakespearian Design, Mark Rose rileva come l’associazione tra le due arti fosse vicina, e lo statuto delle corrispondenze tra l’uso del colore da parte del pittore e l’uso dei colori della retorica o il design da parte del poeta. I versi dei drammi di Shakespeare tendono così a mostrarci quelle che Rose chiama significativamente ‘speaking pictures’, ossia pitture parlanti. L’opera letteraria si configura così più o meno densa di colore, in modo analogo a quanto avviene sulla tela del pittore. Di conseguenza, si può applicare al testo un’analisi di qualità marcatamente retinica, indagandone la dimensione pittorica nelle sue valenze luministico-coloristiche, il testo può essere considerato come una tela su cui il drammaturgo ha impresso le sue tinte con una piuma anziché con un pennello.

I colori del Macbeth

Il colore parla e dunque noi dobbiamo comprendere ciò che esso dice
La sensibilità visuale e visiva di Shakespeare ci può portare a scoprire il suo senso e il suo uso del colore. I colori del testo sono legati ad una fitta trama di immagini metaforiche e simboliche che formano la cosiddetta ‘imagery’ del Macbeth che è stata suddivisa da alcuni critici in‘grappoli iconici’. Già Caroline Spurgeon ha rilevato nel suo studio dedicato alla trama di immagini allegorico-metaforiche nelle opere shakespeariane, che il drammaturgo è interessato al colore, (anche se non si è addentrata in un’analisi dei suoi significati) soprattutto per la sua capacità di suscitare nel lettore delle emozioni. Ciò che emerge riguardo alla sensibilità di Shakespeare nei confronti del colore è il cambiamento di tono e il contrasto. Basti pensare, per esempio, alle numerose descrizioni del cambiamento di colore nel viso dei suoi personaggi, ad indicare un analogo mutamento nella sfera emotiva. A tale proposito, la Spurgeon rileva come l’interesse di Shakespeare nei confronti del viso dell’ uomo non sia stato adeguatamente notato. Egli ci mostra, nei suoi versi, tramite l’uso di immagini, le emozioni dei suoi personaggi sottolineando il cambiamento di colore nei volti, e non solo. Per fare ciò egli si avvale dell’uso di metafore, che in ogni caso portano con sé una particolare atmosfera emotiva, senza aver bisogno, nella maggior parte dei casi, di menzionare esplicitamente, di denotare, nominare nel testo delle tinte vere e proprie. E in questa analisi si vuole rendere manifesta questa presenza del colore, anche laddove Shakespeare non è così esplicito. Come per esempio nel Macbeth nell’ immagine del protagonista che, dopo aver commesso il regicidio, osserva attonito le sue mani talmente lorde di sangue da essere in grado di cambiare il colore dello stesso mare:

“Will all great Neptune’s Ocean wash this blood
Clean from my hand? No, this my hand will rather

The multitudinous seas incarnadine,
Making the green one red.”

“Basterà tutto il grande oceano di Nettuno
a lavare questo sangue dalla mia mano? No,
Questa mia mano, piuttosto imporporerà
Mari innumerevoli, facendo del verde,Un solo rosso”.

Questo è forse uno degli esempi più espliciti, pregnanti e drammatici dell’uso del colore, visto nel suo stesso cambiamento, che il drammaturgo ci abbia offerto. Un altro principale interesse coloristico dell’autore è dato dal contrasto dalle tinte: in particolar modo di bianco e nero, rosso e bianco, e in Macbeth anche nero e rosso. Questo senso del contrasto coloristico è spesso connesso ad una emozione o tema dominante che percorre l’intera opera. Una eclatante esemplificazione del contrasto bianco-nero, per esempio, è riscontrabile anche e soprattutto nell’Othello, dove alla purezza e al candore sia esterno che interiore di Desdemona, si oppone la nerezza del marito, nella pelle e nella mente, ottenebrata, accecata, ignorante, incapace di vedere e comprendere la vera natura della moglie, al di là degli inganni e delle apparenze orditi dal calunniatore Jago. E questo contrasto e questi colori percorrono tutta la tragedia. Le streghe, per esempio, pronunciando “Fair is foul and foul is fair”“Bello è il brutto e brutto è il bello”, fanno sembrare bianco ciò che è nero. Così come Macbeth è una tragedia che si regge sul contrasto, sulla conflittualità, sulla contrapposizione di forze, dall’inizio alla fine. Quindi, nel Macbeth, il nero si contrappone al bianco, il rosso si contrappone al bianco e, oltre ad essere contrapposti anche rosso e nero, talvolta sono molto vicini, come se si mescolassero e confondessero. Parlare dei colori di un testo letterario significa quindi individuare l’atmosfera fisica e morale evocata nel dramma, l’ambiente, l’aria, il clima dell’opera, le sensazioni e le rappresentazioni interne che esso è in grado di suscitare nel lettore-spettatore. I colori sono così legati ad un tessuto di immagini e simboli che percorrono tutta la tragedia, e formano la cosiddetta ‘Imagery’ o trama di immagini metaforiche e simboliche. Si possono analizzare, quindi, oltre alle metafore e ai simboli, la presenza dei numeri, delle immagini bestiali, infernali e demoniache. Emerge così che ‘colori’ non sono solo le tinte in senso stretto, ma anche le immagini simboliche ad esse correlate, come per esempio, la Luna, che ha una sua valenza specifica all’interno di questo testo, la Natura, con i suoi elementi, l’aria, la nebbia in cui volano le streghe, e gli animali – simbolo che popolano questo mondo, quasi tutti neri e malefici. L’animale è infatti un referente simbolico, esso è pensato simbolicamente. Le streghe contribuiscono notevolmente ad informare il tono e l’atmosfera di tutta l’opera, al punto da poter affermare che la magia nera costituisce uno dei colori peculiari del Macbeth. Simultaneamente, la tinta che la permea maggiormente è quella del sangue, con valori simbolici che variano dall’inizio alla fine dell’opera.

E quella che la avvolge costantemente è l’oscurità notturna che viene spesso invocata. Tuttavia, il mondo del Macbeth non è dominato da un’oscurità totale, il “latte dell’umana bontà”contrapposto al sangue delle guerre e degli omicidi, la luce dell’oro che emana dalla figura emblematica e sacrale di Duncan, re dal ‘sangue dorato’, che diventa una tintura alchemica; il verde non più nella sua accezione velenosa e mortifera, (quella dei rospi in cui Paracelso ravvisa un signum magicum), ma la tinta della speranza della foresta di Birnam che avanza verso Dunsinane, segnano il trionfo di una natura, prima sconvolta, malata, in preda alla febbre e sanguinante, che ha ritrovato il suo baricentro, con il ristabilirsi della successione monarchica naturale e legittima. I colori del Macbeth sono tinte ‘elementali’, simboliche, archetipiche, sono le tinte dei filosofi naturalisti occidentali (Paracelso, Telesio, Cardano, Della Porta, Bruno) che si rifanno all’insegnamento classico dei presocratici, ad Empedocle, che considerava i colori come le ‘radici’ del mondo esistente. Sono le tinte dei simboli che, per dirla con Gaston Bachelard, si distribuiscono intorno ai quattro elementi tradizionali.
Un problema di natura teorica sul quale non ci si può non interrogare, dopo aver sviscerato il ruolo svolto dal colore, riguarda la sua natura comunicativa ed espressiva, al di là della specificità del linguaggio di cui si teorizzano e si studiano le proprietà. La conclusione a cui si può giungere, è che, al di là dei contesti storicamente determinati, secondo i quali per esempio si adotta il bianco per simboleggiare la purezza, piuttosto che il lutto nelle culture e tradizioni orientali, o il nero per indicare il mistero piuttosto che la tristezza in Occidente, sembra che il colore costituisca un linguaggio sostanzialmente invariato nel suo significato primario, il colore ha un’essenza primordiale, ma che subisce delle alterazioni in rapporto ai contesti storico-culturali nei quali viene a trovarsi. Un colore non si può definire in assoluto, ma tenendo conto dell’insieme delle relazioni che intrattiene con altre tinte.

Mi sembra che si possa affermare, sulla scorta degli assunti della teoria del colore goethiana, che l’esperienza del colore è fondamentalmente una, indipendentemente  dai contesti nei quali si realizza, la pittura piuttosto che la letteratura, ad esempio. In un’immagine pittorica un oggetto è di un determinato colore in quanto si oppone ad un’altro. Una tinta, qui come altrove, non è mai presa isolatamente e acquisisce senso e significato in rapporto alla costruzione e alla sintassi dell’immagine globale. Ciò che si applica alle immagini si può applicare anche ai testi. La capacità di un pittore o di un drammaturgo di dare vita ad un linguaggio cromatico dipende comunque dall’originaria esperienza comune del colore. Nella molteplicità dei fenomeni che accompagnano il colore, è quindi possibile ravvisare un unico e identico nucleo, un unico nesso a tutti comune. Il colore si trova sempre accompagnato da certi valori e non ha una nascita solo materiale, ma anche ‘cosmica’, in quanto figlio di due forze, o entità cosmiche: Luci/Tenebre, come ha rilevato l’antroposofo Rudolph Steiner. Queste ultime costituiscono l’antitesi fondamentale su cui è edificato l’intero dramma, da cui si dipanano le altre tinte, che emergono spesso per contrasto. Macbeth, come qualunque altra opera letteraria, può essere analizzato da un punto di vista cromatico e simbolico, poiché laddove c’è un colore, c’è anche un simbolo.

Il termine ‘simbolo’ non ha un significato filosofico unitario e monovalente, ma ambiguo, polivalente, mutevole e stratificato, così il colore, che non si presta ad un’ unica lettura in cui si esaurisce tutto il suo senso. Colori, simboli e immagini, sono suscettibili di interpretazioni mutevoli che svelano e ri-velano e possono suggerire significati coerenti con l’economia generale di un testo letterario. Ogni colore, come il simbolo, infatti, può sempre essere inteso nel suo duplice significato; positivo e negativo, ‘divino o infernale’. Compito del lettore interprete è dunque quello di comprendere in quale ambito semantico e quale valenza attribuire alla tinta che è in grado di cogliere. Dall’analisi dell’opera shakespeariana emerge che il colore può essere un utile e interessante strumento, quasi una cifra da decodificare e al tempo stesso una griglia ermeneutica che offre la possibilità di addentrarsi e calarsi profondamente all’interno di un testo e del mondo culturale che ha influito più o meno consapevolmente sulla mente dell’uomo che l’ha prodotta. Il parto di un artista, che si tratti di un’opera figurativa, letteraria, poetica, teatrale non può essere aliena dall’ambito storico, ideologico, culturale che ne ha permesso la gestazione. E il genitore-autore di tale parto non può non essere stato, più o meno consapevolmente, influenzato da tale retroterra culturale, dall’humus che lo ha nutrito e in cui è stato immerso. Da questa analisi si può dedurre che i colori, i simboli e le immagini sono tra loro connessi, il colore è un simbolo, ma è anche un’immagine poiché il simbolo in quanto idolo motore, ha per noi un riferimento diretto all’immagine Sta poi al lettore rilevare la presenza del colore, la dimensione cromatica, la sua densità e saturazione, individuare il suo significato simbolico nel contesto storico culturale in cui è inserito e associargli un’immagine. Perché tutte le tinte, come i simboli, sono polisemiche e ambivalenti.
Nel Macbeth il senso del colore e del contrasto è molto forte, e tali tinte ma soprattutto i loro contrasti, si riscontrano nelle maggiori tragedie shakespeariane: Amleto, Otello, Re Lear, Antonio e Cleopatra. In L’uomo e i suoi simboli Jung rileva come l’arte impieghi una modalità espressiva simbolica e figurata, e come il linguaggio dell’uomo sia intriso di simboli e immagini, e nota “ciò che noi chiamiamo simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale”. Nella dimensione del colore, come in quella del simbolo, è pertanto racchiuso uno sfondo ‘metafisico’ che presuppone delle affinità tra il mondo visibile e l’invisibile. Difatti, il simbolo, come osserva Paul Klee, è anche una categoria dell’invisibile. Secondo Klee, la decifrazione dei simboli ci conduce verso quelle che chiama: “insondabili profondità del respiro primordiale”, perché il simbolo collega all’immagine “visibile la parte dell’invisibile intuita occultamente”.

C’è allora qualcosa che non sia un simbolo? Che non alluda ad un oltre, ad un ‘al di là’dell’immagine percepita ed evocata? Riconoscere la funzione simbolica, che cosa viene aggiunto e che cosa è occultato, sembra essere un’esigenza ontologica primaria. Noi siamo invasi dal colore, da simboli, segni, e ognuno di noi compie atti di conoscenza simbolica nel tentativo di andare al di là dell’immagine, di intuire occultamente l’invisibile a partire dalla percezione sensibile. Nella vita, come nella contemplazione di un’opera d’arte figurativa, nella lettura di un brano letterario, – sia esso poetico, narrativo o drammaturgico,- nella fruizione di uno spettacolo di arti performative, si percepisce, ma questa sensazione (nel senso etimologico del termine ‘aesthesis’), porta inevitabilmente ad un rimando, a visualizzare, immaginare, evocare, a trovare la metà di quell’oggetto spezzato che, riunita all’altra parte, riconduce alla interezza e alla completezza.

Caroline Pagani

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