Di Giangiuseppe Pili.
Giulio Cesare è senza dubbio un’opera di grande spessore, da leggere e godere. Si tratta, come cercato di mostrare, di un’opera a suo modo atipica, per la centralità data alla storia e alle sue figure e alla politica ben di più che ai tormenti personali degli individui che pure si adombrano continuamente tra le righe.
Giulio Cesare è una tragedia di William Shakespeare, ispirata alla morte di Cesare alle idi di marzo. Il ritratto storico ricalca l’edizione delle Vite di Plutarco, dimostrando il fatto che il bardo di Avon si curava di ricostruire le sue vicende anche da un punto di vista storico.
Il Giulio Cesare è una tragedia dal sapore propriamente politico, quindi distante sia dall’Enrico IV, dall’Amleto, dal Re Lear e dal Macbeth che, come abbiamo cercato di mostrare in altro loco, sono opere intimistiche e ben poco politiche, pur essendo ambientate in un contesto in cui vive il potere e la ragion di Stato. Nel Giulio Cesare, invece, è la figura di Bruto a dominare la scena, il quale prende la ferale decisione di uccidere il futuro tiranno in nome della libertà. Come in Macbeth, anche nel Giulio Cesare la causa scatenante e ultima è indotta da un personaggio intrigante, Caio Cassio. Bruto è un personaggio sulla linea di Amleto-Macbeth, nel senso che è combattuto, non sa decidersi e soltanto l’intervento esterno lo induce all’azione: come nel caso di Amleto, Bruto vedrà un fantasma e, come nel caso di Macbeth, avrà un cattivo consigliere ad informarlo.
Bruto, dunque, è l’oggetto della tragedia perché, in fondo, è un buono e davvero crede nella causa della libertà. Egli è consapevole di uccidere per questo e per questo comanda ai giurati di non sacrificare nessun altro romano: è Cesare ad aver valicato i suoi limiti, a causa di una presunta ambizione. Quindi egli è l’unica causa della tirannia in cui Roma ricadrà, qualora il tirannicidio non avvenga. Ma la realtà è più sfumata e le cose sono più complesse. Cesare, sempre presentato quasi dietro le quinte, è un personaggio sfuggente, ma la sua grandezza è considerata da Shakespeare inoppugnabile. Il sacrificio di Cesare ha senso solo a condizione che Cesare divenga davvero il tiranno supremo, il Napoleone ante litteram, lo Stalin dei tempi antichi. Ma alcune evidenze sembrano suggerire il contrario: sebbene sia chiaro che Cesare sia un uomo ambizioso, rimane aperta la possibilità che non si tratti d’una ambizione negativa. In fondo, molti uomini aspirano al potere e non tutti coloro che lo vogliono sono poi cattivi governanti.
Bruto è combattuto e legge presagi nefasti ma non li interpreta forse nel modo migliore. Caio Cassio, invece, non è combattuto e la sua volontà è nitida: egli mal sopporta uomini più grandi di lui perché egli stesso non può e non potrà mai assurgere alle loro qualità. Cassio è un uomo debole e rancoroso perché non ha le qualità sufficienti per aspirare all’ammirazione degli altri e, conseguentemente, non può apprezzarne le virtù morali. Inoltre, egli vorrebbe essere Cesare ma non né ha neppure i mezzi e, quindi, può solo tramare alle sue spalle: quando si vorrebbe andare dritti, bisogna invece aggirare l’ostacolo nei modi più tortuosi, se l’oggetto della contesa ha un potere molto più ampio di quanto si possa disporre. Il risultato, allora, è cercare i giusti alleati, questo insegna la strategia. E, almeno in questo senso, Cassio pensa in modo strategicamente effettivo. Sicché prima di tutto si guadagna la fiducia di Bruto e poi di altri congiuranti. Bruto si lascia persuadere dalle circostanze e da Cassio, ma rimane un uomo retto e, quindi, diventa l’uomo della provvidenza.
La tragedia, dunque, non è quella di Giulio Cesare ma di Bruto, perché egli sa di sacrificare, de facto, se stesso per un valore politico e morale: la libertà. Ma non così il suo compare Cassio, il quale agisce in virtù di una invidia superficiale e profonda, mascherata da buone intenzioni. Il mascheramento, però, sta anche dall’altra parte della barricata. Giulio Cesare ha come braccio destro Marc’Antonio e Ottaviano, già pronti ad una sacra alleanza prima di rompere tra loro. La morte di Cesare sarà pagata dal popolo e da Bruto, prima che da tutti gli altri. Mentre Marco Antonio e Ottaviano sanno bene che quello sarà il loro momento di non ritorno. Questo è testimoniato dalla scaltrezza, lineare ma efficace, di Marco Antonio. Conoscendo già il testamento di Cesare, egli inganna Bruto e parlerà dei congiuranti durante l’esposizione pubblica del testamento, quando si scoprirà che Cesare lascia molti dei suoi possessi al popolo: un atto di ambizione applicata ai posteri e alla loro memoria o un atto di amore nei confronti di quel popolo che tante volte si è sacrificato? Difficile dirlo. Marco Antonio, però, sa che la buona memoria di Cesare, contrapposta alla presunta malevolenza dei congiuranti, può essere un atto politico molto utile alla sua stessa causa.
Queste considerazioni, dunque, ci portano a mostrare come il caso del Giulio Cesare sia un esempio di tragedia politica mostrata attraverso gli individui. Infatti, la crisi scatenatasi in Bruto è per una ragione morale (individuale) ma anche politica (il valore della libertà del popolo), che conduce all’assassinio o al sacrificio di Cesare. E’ un tiranno o un grande uomo? E’ un problema politico, non morale. Così anche Marco Antonio e Ottaviano sono motivati da ragioni politiche ed egoistiche. Marco Antonio non ha scrupolo a riutilizzare il testamento, cioè l’ultimo lascito di un uomo alla storia nel presente, per trarne vantaggio. Ancora una volta si tratta di un vantaggio individuale ma anche politico perché, in questo caso, le due dimensioni si compenetrano.
Shakespeare, dunque, nel Giulio Cesare sembra lasciare intendere un significato stesso della storia rispetto al suo farsi: la storia sembra una questione individuale che poi diventa collettiva, ma l’individuo non è mai solamente parte del popolo che lo contiene. L’individuo è sempre al centro della scena, con i suoi problemi di vita e di morte, razionali e irrazionali. Shakespeare, anche quando rappresenta la storia, lascia sempre intendere che, alla fine dei conti, la storia è fatta di un individuo, di un secondo individuo, di un terzo individuo etc., ma non di un tutto indistinto di individui che agisce insieme. L’azione collettiva scaturisce dall’insieme di problemi che sono individuali e collettivi in quanto individuali e di portata collettiva, una linea che porterà uno scrittore come Joseph Conrad a pensare che la storia non esiste se non come collezione di eventi che tutti insieme costituiscono il processo. Ma rimane il fatto che la storia è e sempre sarà soltanto la scelta di tutti, ciascuno nella sua individualità.
La massa, d’altra parte, è presentata in questa tragedia in modo esplicito, cosa rara nelle tragedie di Shakespeare, così improntate ai drammi individuali. Il popolo romano viene presentato come volubile, capace di cambiare un’idea nel suo contrario in pochi secondi (come avviene mostrato brillantemente al momento della lettura del testamento: prima essi credono a Bruto ma poi si lasciano persuadere da Marco Antonio). Inoltre, il popolo è violento e cieco. Quando si presenta un poeta nel momento di massima acme violenta della massa, verrà semplicemente fatto a pezzi per il solo fatto di avere il nome (Cinna) di uno dei congiuranti. Sia notato, per inciso, l’amore di Shakespeare per i buffoni-poeti, generalmente tra i personaggi più caustici, ma anche più assennati. Essi, cioè, sono coloro i quali hanno l’intelletto per vedere il re sempre nudo e, possibilmente, di una nudità triste e caduca (il caso del buffone di Re Lear è il più clamoroso). Essi hanno intelletto e distacco continuo e, per questo, sono sempre capaci di riconoscere la semplice essenza delle cose senza alcun orpello. E’ il caso di John Falstaff, clamoroso ubriacone-poeta (per così dire), uomo buono e, allo stesso tempo, beffardo oltre il sopportabile (dai re). Non è un caso che questi personaggi finiscano tutti male, da Falstaff al povero Cinna, “sbranato” dalla folla. Impossibile non pensare che Shakespeare stia, in qualche modo, ironizzando e polemizzando, in un certo senso, proprio con se stesso, giacché si capisce che questi personaggi sono amati e odiati, compresi e proprio per questi condannati all’incomprensione. Si sente, così, l’eco dell’attrito delle cose umane, che si prende gioco degli intelletti più fini, lasciandoli sempre ai margini della vita e del potere, ma indissolubilmente legati ad entrambe le cose.
Data la natura del bardo di Avon, della sua grandezza e profondità, il Giulio Cesare è senza dubbio un’opera di grande spessore, da leggere e godere. Si tratta, come cercato di mostrare, di un’opera a suo modo atipica, per la centralità data alla storia e alle sue figure e alla politica ben di più che ai tormenti personali degli individui che pure si adombrano continuamente tra le righe. Leggere il Giulio Cesare, anche quando non la si voglia considerare tra le maggiori delle tragedie, rimane imprescindibile per una conoscenza anche solo sufficiente della produzione del grande genio che fu William Shakespeare.
Giangiuseppe Pili