(“Hamlet” – 1600 – 1601)
Traduzione di Nemi D’Agostino
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
Introduzione
La leggenda e le fonti
La leggenda di Amlodhi (che in antico norvegese significa «deficiente») risale almeno al secolo IX, e alla fine del secolo XII il danese Saxo Grammaticus la espose nei libri III e IV della sua Historia Danica, stampata nel 1514. Saxo, che forse ha presente la storia liviana di Lucio Giunio Bruto (anche brutus vale «deficiente») che cacciò da Roma i Tarquini, racconta una sinistra saga vichinga: Amleth(us), principe dello Jutland, per vendicare il padre Horwendil, vassallo del re danese, ucciso dallo zio Fengo, il quale ha forzato la cognata Gerutha a sposarlo, ricorre alla finta pazzia come espediente inevitabile per sopravvivere (in Shakespeare non è più così) e con l’aiuto di un amico, di una «sorella di latte» che Fengo aveva utilizzato per smascherarlo, e dalla stessa madre Gerutha, riesce nel suo intento. Spedito in Inghilterra con una lettera che ne ordina l’uccisione – è una situazione che si trova nel mito greco di Bellerofonte – Amleth sfugge al tranello, sposa la figlia del re inglese, è mandato in Scozia e vi sposa la regina, e tornato in patria con le due mogli si vendica di Fengo e vi regna finché non è ucciso in battaglia da un altro zio e nuovo re danese. Saxo racconta la storia con l’innocenza elementare e anonima delle saghe, senza porsi dubbi, domande o problemi di colpa, senza moralizzare i fatti e sentirne la tragicità. Questa vicenda, che in sé aveva l’universalità dei miti (A. Barton), è ripresa nel Cinquecento dall’amico di Margherita di Navarra, François de Belleforest, nel V volume delle sue Histoires Tragiques (1570). In ossequio alla sua temperie lo scrittore francese esercita sulla storia un continuo commento morale, con paralleli classici e biblici e in una prospettiva universale ed edificante, rendendola irta di problemi e aggiungendo alla figura del principe «dubbi, ritardi e rimproveri» (Jenkins). Da guerriero primitivo Amleto diventa un eroe «malinconico» e positivo, acquista un’aura cavalleresca nel perseguire l’onore e la gloria, e una giustificazione per la sua vendetta che diventa «un tirannicidio», oltre che una punizione dell’assassino del padre approvata dall’etica nobiliare e giustificata dal Belleforest. Il quale scarica tutte le colpe sulla libidine femminile – la regina è adultera, la sorella di latte sensuale e vogliosa, la moglie scozzese infedele – e trova spiegazioni etico-culturali a quella remota orribile vicenda nella perversità delle femmine e nella barbarie dei tempi precristiani. La sua storia misogina è tragica nel senso medievale, quale esempio della caduta dei grandi, esposto in forma narrativa. Ora, e qui si entra nelle congetture, la storia che potremmo definire pre-tragica di Belleforest (tradotta in inglese solo nel 1608 come The Historie of Hamblet) dev’essere stata la fonte di un dramma popolare perduto ma di cui restano indizi sicuri, e che i critici hanno chiamato lo Ur-Hamlet e attribuito a Thomas Kyd, autore della popolare tragedia di vendetta The Spanish Tragedy (1587). L’esistenza dello Ur-Hamlet è provata da un’allusione di Nashe nel Menaphon (1589), e il dramma venne rappresentato forse nell’ultimo decennio del secolo. In esso appariva per la prima volta il fantasma del re morto a esortare il figlio alla vendetta – ce lo dice il Lodge nel 1596 – ed esso è considerato la fonte diretta dell’Amleto di Shakespeare, che potrebbe però aver usato anche il Belleforest (Jenkins). Ciò che più importa notare in questa vicenda è che, analogamente a quanto era avvenuto nel passaggio dalle fonti mitiche ai tragici greci (Untersteiner, Dodds, Snell, Vernant), la saga viene calata nel Cinquecento in un contesto morale, in una «civiltà di colpa», ma è ancora tutta spiegabile in termini di un’ideologia aristocratico-religiosa. Alla sua apparizione in Shakespeare la storia diventa ambigua, alla certezza epico-mitica si sostituisce l’interrogativo tragico, l’eroe non è più positivo ma problematico e sostanzialmente inesplicabile. Il poeta tragico rivive il mito e s’interroga su di esso, sente l’eroe affrancato dall’idealità (Frye) nella sua situazione-limite come simbolo della condizione umana, viene alle prese con la realtà della fabula come una parte vasta e misteriosa della sua stessa realtà, si sente nei suoi riguardi insieme partecipe e distaccato come ciascuno col proprio passato, e cerca in essa il senso e il segreto dell’agire umano ma consapevole che non potrà mai raggiungerlo. Sui problemi delle fonti e della trasmissione del testo l’ultimo intervento è del Jenkins nell’ampia introduzione all’edizione New Arden (1982). Hamlet, datato al 1600-1601 e pervenuto in un bad quarto del 1603 (che sembra ricostruito a memoria), in un good quarto del 1604 su cui si fondano le edizioni critiche a cominciare da quella del J. Dover Wilson (1934), e in una versione più corta nel primo in-folio del 1623, è il più lungo e il più controverso dei plays di Shakespeare, e l’unico a presentarsi in tre diverse versioni, di cui due autorevoli. Il testo che leggiamo è quello (modernizzato) del 1604 con aggiunte dall’in-folio e contributi dal primo in-quarto.
Le interpretazioni
La storia critica dell’Amleto passa per tre fasi. Fino all’Ottocento è un’opera grande ma barbara che necessita di tagli e modifiche, e la sua fabula appare a Voltaire assurda e ridicola. Ma critici e uomini di teatro che la rappresentavano con successo non trovavano in essa nulla di ambiguo o poco comprensibile: Amleto è un principe rinascimentale energico, attivo, anche violento e con una tipica vena di malinconia, che finge la pazzia e calcola con prudenza la vendetta, e sebbene la fortuna lo tradisca, alla fine egli muore avendo assolto il suo compito. Un dramma di vendetta, insomma, con un eroe positivo dalla psiche non problematica. Il problema esegetico nasce con i romantici e vede l’intervento di grandi scrittori, Goethe e Coleridge, Tieck e Nietzsche, Jaspers e Pasternak, Freud e Brecht. Oggi il compito di proporre nuove interpretazioni dovrebbe essere escluso a mio avviso non solo dalle funzioni del critico ma anche da quelle dei regista, che nella crisi evidente del teatro interpretativo convenzionale dovrebbe tenersi al di sopra dell’interpretazione e comunicare in qualche modo il mistero inesauribile del personaggio e dell’opera. Ciò che si dice di Amleto o del Misantropo di Molière è vero in realtà di tutti i personaggi teatrali: chi tenta di «strappare il cuore del loro mistero» li immiserisce. «II faut jouer avec Shakespeare et non pas jouer Shakespeare», per adattare un detto di Kantor, il testo non va razionalizzato, spiegato, reso comprensibile, «explained away».
Il «caso Amleto» è stato inventato dai romantici e ha fatto il suo tempo. Amleto non è, come dice Jenkins, «il dramma più problematico che mai Shakespeare o alcuno altro drammaturgo abbia scritto», perché ogni vero dramma è problematico; Amleto non presenta nessun particolare mistero né difficoltà di comprensione maggiori di quelle di ogni altra grande tragedia di Shakespeare, di Racine o dei greci. L’Amleto è un capolavoro che in realtà non manca di difetti tecnici, i quali gli impediscono di essere una delle vette dell’opera di Shakespeare: prolissità, diseguaglianze di stile, effetti convenzionali ecc., ma tutto è compensato dall’invenzione di un protagonista che è una delle più alte rappresentazioni dell’animo e della sindrome moderni.
Nota per una lettura
Il richiamo ai greci può aiutare molto a sgomberare il campo da quel fantasma critico che è «il caso di Amleto». Nella sua forma più elementare l’ambigua giustizia greca, la Dike dalle molte facce, divina o umana che sia, opera come lex talionis o vendetta (Frye). La tragedia di vendetta è lo schema tragico più semplice e potente. Sia l’Orestea che l’Amleto parlano di un principe il cui padre è ucciso da un parente legato alla madre, e che riceve da un sopramondo (dio o fantasma) l’ordine di compiere la vendetta, il che egli fa dopo aver superato la sua perplessità (l’amekanìa dei greci) e gli ostacoli frapposti dalla parte avversa.
Oreste, davanti al matricidio, arretra e pone l’interrogativo (ti draso? – cosa faccio?) che è dell’agire tragico distinto dall’eroico (Heidegger, Vernant, Frye). All’interrogativo tragico, anche se l’intreccio è diverso, può ricondursi il problema del ritardo amletico. Oreste uccide la madre (assieme al complice) perché è lei l’assassina del padre, e perché il matricidio è ammesso dall’ethos dei ghennaioi, ma così facendo scatena un conflitto oggettivo e si pone in una situazione irresolubile – è innocente e colpevole nello stesso tempo – che solo un altro intervento divino può sciogliere ma non cancellare. Amleto si trova di fronte una situazione rovesciata: l’assassino è lo zio, la madre è solo indiziata di complicità. Non uccide la madre per questo, e perché glielo impedisce l’etica cristiana e nobiliare ribadita dallo stesso fantasma, ma in fondo la uccide lo stesso, simbolicamente in un primo momento, e indirettamente alla fine. La vendetta esige una remunerazione: le Furie per Oreste, fino all’intervento trascendente che gli riporta la felicità e ricostituisce l’ordine da lui voluto; la malinconia per Amleto – finta o vera che sia la sua pazzia – fino alla morte che gli dà la felicità e ricostituisce l’ordine da lui voluto, spezzando il processo tragico ma senza superarlo o cancellarlo.
In Amleto, come nel King Lear – e in accordo col tipico procedimento elisabettiano di espansione spaziale, temporale e linguistica dell’azione rispetto alla concentrazione del modello classico –, il motivo centrale acquista caratteri seriali e generazionali: tre padri uccisi, tre figli vendicatori, ciascuno con una reazione diversa, secondo la collocazione del personaggio nella prospettiva di tipo rinascimentale dell’opera. La strutturazione del materiale, la tessitura (texture), che comunque non è mai omogenea (Pagnini), sembra adeguarsi a quella prospettiva: la polisemia si addensa al centro attorno all’eroe e degrada allontanandosi dal nucleo tragico.
L’ombra della morte e del lutto si stendono da cima a fondo su quest’opera sinistra. Il fantasma apre la tragedia ripresentando la propria morte e il proprio funerale subito seguito dalle nozze, e scatena una vera tragedy of errors, punteggiata da omicidi che mai sono quelli voluti, da suicidi meditati o attuati o involontari, e da funerali. È un trionfo e una festa della Morte, cui serve carne per un suo festino, come dice Fortebraccio alla fine.
Nello schieramento dei personaggi, l’eroe (perplesso, non privo di hýbris, e omologabile a prototipi di eroe malinconico, folle o babbeo) è accompagnato da un amico fedele e schietto (Pilade, Orazio) e legato (con un legame apparente di philia, di parentela e di clan, non di amore sessuale o d’incesto) con due figure femminili. La prima è il tipo della supplice (Elettra, Ofelia, ma quest’ultima predestinata al suicidio), la seconda è la figura femminile centrale che contribuisce a scatenare la tragedia, il tipo di Eva o Elena di Troia: Clitennestra e Gertrude sono associate all’usurpatore e ambigue nelle loro motivazioni. Il coro classico si diluisce qui nella folla dei personaggi secondari o nei momenti corali dei protagonisti: fanno da coro Orazio come il re, Ofelia e gli attori e la regina che narra la morte di Ofelia, e Amleto stesso nei suoi soliloqui, e Polonio che come un coro di vecchi eschilei esprime i luoghi comuni del buonsenso o della saggezza, che possono essere nello stesso tempo giusti e sbagliati.
Amleto appare diviso tra la fede appassionata nei valori aristocratici e la consapevolezza della loro dissoluzione, tra l’amoroso attaccamento alla famiglia feudale e il senso del suo sfacelo. Ci sono altre contraddizioni inconsce in lui, tra l’ideale della moderazione e della imperturbabilità stoica e i lamenti e le violenze sfrenate di cui sono vittime Polonio e Ofelia, tra il suo moralismo e la passione della vendetta. Questa passione sterile è del resto parte intima del carattere amletico, che nei suoi astratti furori, nella sua purezza arrogante, nella sua furia misogina, nel suo idealismo puritano che può diventare violenza brutale, nel suo arrovellarsi sull’onore e sulla virtù ha qualcosa dell’Ippolito euripideo, la cui hýbris è la sua stessa purezza. E Amleto è affine anche a Edipo nel suo voler sapere, nella sua scelta di passare dalla calma e luminosa apparenza (doxa) allo svelamento della verità non apparente (alètheia), e cioè nel suo voler passare dall’inautentico all’autentico, dall’esserci all’essere, il che gli riesce solo nella morte. Diceva Hölderlin che «il re Edipo ha forse un occhio di troppo», e forse anche Amleto lo ha, tormentato com’è dal richiamo dell’essere. La sua tragedia, anche al di là della situazione creata dallo spettro, è ansia d’autentico, ma l’autentico si può raggiungere solo fuori dall’esserci, nella morte-felicità. In questo senso la fine di Amleto è un riscatto, accennato nelle celebrazioni finali di Orazio e di Fortebraccio, sobri riconoscimenti del suo carisma di eroe solitario, tramite fra i comuni mortali e il trascendente. Comunque la positivizzazione di Amleto non è il messaggio di Shakespeare, e non è neanche nella visione complessiva della tragedia, ma solo nei sottomondi di quei personaggi per cui egli da morto diventa quasi un eroe divino (anèr theiòs), come suo padre per lui e Lear per i sopravvissuti.
Nei suoi goffi distici il Re-Attore comunica una sorta di desolata sapienza tragica, facendosi anche lui coro di se stesso e tuttavia incapace di prestarsi aiuto: l’uomo si crede libero e capace di programmare e attuare le sue intenzioni, ma in realtà non conosce ciò che è e che sarà, né ciò che farà o che verrà dalle sue azioni. Tutto è dominato dall’ironia e visto come da un altissimo occhio ironico. A cominciare dalla terza battuta dell’opera (Lunga vita al re!) fino a quel rasserenamento di Amleto nella fede in una speciale provvidenza, a pochi minuti dall’orrore finale.
La tensione incessante è il contrassegno dell’esistenza eroica. Ma la massima che racchiude l’imperativo eroico è quella che il vecchio Fenice ha insegnato e ricorda ad Achille (Iliade, IX, 443): «essere dicitore di parole e operatore di opere». Ora, questo è ciò che l’eroe tragico fallisce sempre, la massima eroica per lui è irrealizzabile. Amleto è piuttosto un dicitore di opere e facitore di parole. Anche per lui la tragedia si apre con un «che fare?» (I, iv, 57) ed è seguita da autoanalisi e autolacerazione, come in tanti altri eroi di Shakespeare e dei greci, colpiti dal male di vivere e ingombri del peso di se stessi. Ma in Amleto appare specialmente sottolineata una sindrome che tornerà ad nauseam nella cultura europea: insicurezza, paralisi, sterile relativismo, crisi esistenziale, vana ricerca dell’assoluto, nausea dell’io abominevole, senso di essere di troppo, depressione e malinconia, senso pascaliano di essere pazzo tra i pazzi, di essere incomprensibile a se stesso e agli altri come gli altri lo sono per lui. Allora si affonda nella palude.
Il mondo di Amleto è per metà quello di un folle attaccamento ai valori, la passione per il prestigio allo stato puro (Hegel), per metà quello di Montaigne, anzi quello del fool che facendo il pazzo colpisce per la sua pertinenza e smaschera gli altri e se stesso. Difatti Amleto è il «pazzo» del suo play, un buffone angoscioso perché facendo ridere toglie la felicità. Del resto per il Rinascimento la felicità non è più un valore (Heller), per Machiavelli è amorale, per Guicciardini immorale e da identificarsi col vizio, non con la virtù. Amleto è infelice perché la felicità nel mondo è falsa, è vera solo nella morte. E come poteva un personaggio che è tanto figlio del suo tempo – così vicino al suo autore, ci sia concesso di sospettare, che con lui il frame-breaking, il passaggio dal mondo drammatico a quello esterno gli riesce così semplice –, come poteva non essere coinvolto come Don Chisciotte nel gran motivo rinascimentale della follia? Shakespeare fa della follia presunta, che sarebbe innecessaria alla sua azione, uno degli aspetti essenziali e inspiegabili del suo eroe. Ci sono in Amleto la follia lucida e liberatoria, la follia malinconica, la follia violenta, la follia sacrale che connette l’individuo al lato o cuore irrazionale del cosmo. Ci sono tutti gli aspetti della follia rinascimentale tranne uno, la gioiosa follia erasmiana.
L’Amleto ha sensi diversi in ogni epoca e ogni cultura, ma anche per ogni lettore e per ogni lettura. Una volta mi pareva un’opera tetra perché un mondo tetro vi distruggeva un uomo dolorante. Mi colpivano l’immagine inventata da Shakespeare per mostrare l’oscena abitudine umana dell’incostanza e dell’abbandono («le carni cotte per il funerale…») che per Amleto è tanto più grave perché è lo sfacelo della lealtà e della fedeltà, somme virtù aristocratiche: o l’altra del mondo abominevole cui pone fine, desiderata con devozione (e illusione?), la felice morte. Ma ora mi pare sinistro e tetro anche Amleto, col suo onore ossessivo cui sacrifica tutto, col suo prestigio che infine lo fa cascare nel tranello del re, vera «trappola per topi» della storia, col suo razzismo e il suo maschilismo, la sua purezza filistea e lo stesso suo chagrin che è forma d’egoismo (Proust). Sotto i valori dell’onore e della passione, nota Haydn, «il controrinascimento di Montaigne e di Shakespeare smaschera l’ira e la lussuria, la libidine egocentrica e la libidine del sangue». In Amleto e in Faustus il sottile Frye nota l’affinità al tipo del «filosofo fissato», e nell’eroe tragico in genere l’affinità al tipo dell’impostore, se non altro perché inganna se stesso. Ma in Amleto c’è altro: qualcosa dell’uomo necans che vi vedeva Wilson Knight, il culto ossessivo del padre, il manicheismo intollerante, la fissazione distruttiva, le uccisioni facili che i vecchi professori universitari incapaci di uccidere una mosca erano pronti a giustificare in assoluto o in nome dei valori storici. Oggi, considerare Amleto un eroe positivo in una tragedia politica o progressista è solo una cantonata. Il principe appare un uomo sconvolto secondo ogni metodo di analisi psicologica della sua epoca, quello razionalistico della malinconia e degli umori o quello etico dell’anima razionale (coscienza, pensiero) che in lui comunica la propria paralisi alla volontà, mentre l’ira domina la parte vegetativa e deprime e sconvolge l’intero stato dell’uomo. Ma per noi che guardiamo da semplici spettatori o comparse il suo sfacelo, non c’è colpa di Amleto che possa giustificare le sue sofferenze.
Più i personaggi sono vicini all’occhio del conflitto più hanno molte facce come Claudio. Lui e Amleto, i due «potenti avversari» (V, ii, 62), sono eroi tragici, ciascuno con la sua dike, e una iperdeterminazione di motivi che li rendono inesauribili. Vedere Claudio come eroe positivo (Wilson Knight) è peccare dell’eccesso opposto a quello tradizionale, decurtare la tragedia come quando si rende positivo Creonte dell’Antigone. Ma vederlo come il villain dell’opera è ridurre Shakespeare alla monovalenza e piattezza delle fonti e delle convenzioni dell’epoca. Claudio è un principe machiavellico persino troppo tollerante e generoso, ma anche un machiavellico può avere una dignità, un onore, una giustizia, un desiderio di pace e di conciliazione, un rimorso e un’intenzione di migliorare, una capacità di amare e di patire. Credere alle parole di Amleto, o attribuirne il giudizio feroce a Shakespeare, è portare l’opera verso una tesi; se Claudio è un mostro l’Amleto è un melodramma. Ma Claudio, come Macbeth o Enrico VIII, ha un carisma per cui non c’è spiegazione possibile.
All’inizio del V atto e poi nella scena seconda, a pochi minuti dalla fine, la tensione drammatica sembra allentarsi, spira quasi un’aria di stanchezza e di compromesso, ma è solo l’ironia del fato. Di colpo, lo sfacelo. Tutti i progetti, le trame, le aspettative si rovesciano. In pochi minuti tutti. tranne Orazio, sono morti, sgozzati come capretti per il festino della morte. Peccato che Shakespeare non sia qui riuscito, come nel Re Lear, a mostrare una strage senza sbavature melodrammatiche. Ma quando dopo la catastrofe inspiegabile arriva il Rasserenatore, l’opera riacquista, per gli ultimi minuti, tutta la sua ironia cosmica. Il Rasserenatore incarna una necessità biologica. La verità, dice Jaspers, fermerebbe la vita che ha bisogno di illusioni, di cecità, di valori e di errori. Il Rasserenatore riasserisce la vita contro il suo opposto ma egli non comunica alcun messaggio positivo o ottimistico, non dà alcuna risposta agli interrogativi dell’opera né alcun colpo di spugna al tragico.
Nelle frequenze più basse del testo G.B. Shaw coglieva l’ironia che Shakespeare insinua fin nell’omaggio dovuto all’eroe. Amleto riceve onoranze militaresche, «alla danese», per ciò che non è riuscito a essere e che forse non aveva alcuna vocazione per essere. La tragedia si conclude tra la falsa commozione e la commovente falsità delle cerimonie ufficiali. E soprattutto senza lasciare in noi non dico alcun effetto catartico, ma nessuna convinzione di averla capita. Come sempre avviene per le grandi tragedie, a ogni lettura dell’Amleto, a essere onesti, ci sembra di capirne meno di prima, come succede, a ogni profonda esperienza, con la vita.
RIASSUNTO
ATTO PRIMO, scena 1
Al castello di Elsinore in Danimarca, le sentinelle Bernardo e Marcello hanno invitato Orazio a raggiungerli per parlargli dello spettro che è loro apparso le notti precedenti. Per le due sentinelle si tratta di un cattivo presagio che indica forse l’invasione imminente delle truppe di Fortebraccio, principe di Norvegia. Orazio rifiuta di credere loro fino a quando vede apparire lo spettro che egli identifica come il re Amleto, recentemente deceduto. Lo spettro non dice nulla e scompare quasi immediatamente. Riappare poco dopo e sembra sul punto di parlare quando il canto del gallo, che annuncia l’alba, lo costringe a scomparire. Orazio decide allora di informare Amleto dell’accaduto.
ATTO PRIMO, scena 2
In una delle sale del castello, Claudio re di Danimarca fratello del re defunto e dunque zio di Amleto, parla della sua ascesa al trono, in seguito alla morte del padre di Amleto, del suo matrimonio con Gertrude, la regina vedova, ed annuncia di avere scritto al vecchio re di Norvegia per chiedergli di porre fine alle ambizioni di suo nipote Fortebraccio che vuole riconquistare le terre perse da suo padre. Si rivolge in seguito a Laerte, figlio del suo consigliere Polonio, e gli dà il permesso di tornare a Parigi. Si gira allora verso Amleto e lo interroga sulle ragioni della sua malinconia. Gli consiglia di porre fine alla sua tristezza, che giudica irragionevole, e gli chiede di non riprendere gli studi all’università di Wittenberg. La regina unisce le sue preghiere a quelle del re ed Amleto promette di fare tutto il possibile per obbedirle. Dopo la partenza del re e della sua corte, Amleto, lasciato solo, esterna tutta la sua tristezza e la sua indignazione per il nuovo matrimonio della madre, che ha avuto luogo appena un mese dopo la morte di suo padre. Arrivano Orazio, Marcello e Bernardo. Orazio rivela a Amleto la comparsa dello spettro ed il principe decide di montare la guardia con loro la sera stessa e parlare allo spettro. Per la prima volta Amleto si interroga sulle circostanze reali della morte del padre e sospetta il tradimento e l’inganno.
ATTO PRIMO, scena 3
Laerte si prepara a partire per la Francia. Mette in guardia sua sorella Ofelia contro le dichiarazioni d’amore di Amleto. Anche se i sentimenti di Amleto possono essere autentici, quest’ultimo resta un principe e dunque non libero di sposare chi vuole. Arriva Polonio, che si prodiga in consigli a Laerte, quindi chiede a Ofelia di evitare Amleto. Ofelia promette di obbedirgli.
ATTO PRIMO, scena 4
Amleto, Orazio e Marcello attendono, sugli spalti del castello, la comparsa dello spettro. Sentendo gli echi dei festeggiamenti dati dal nuovo re al castello di Elsinore, Amleto commenta la reputazione di ubriaconi acquisita dai Danesi: un’inclinazione naturale in un popolo o in un individuo può spesso «guastare la sostanza più nobile». Lo spettro appare ed Amleto lo scongiura di parlare. Lo spettro gli fa segno di seguirlo ed Amleto accetta, disattendendo i consigli dei suoi compagni.
ATTO PRIMO, scena 5
Lo spettro dichiara di essere lo spirito di suo padre ritornato sulla terra per ingiungergli di vendicarlo. Confessa ad Amleto di essere stato assassinato da suo zio Claudio, che, approfittando del sonno, gli ha versato un veleno mortale negli orecchi. Dopo avere compiuto il suo misfatto, Claudio ha fatto credere a tutti che il vecchio re fosse stato punto da un serpente. Amleto padre, ucciso così senza potersi pentire dei propri peccati, ormai è condannato ad errare nei gironi del Purgatorio. Chiede pertanto ad Amleto di punire il fratello assassino ed incestuoso ma di non fare male alla madre che sarà, sempre e comunque, in preda ai rimorsi della coscienza. Lo spettro scompare. Arrivano Orazio e Marcello. Amleto finge indifferenza e per tre volte fa loro giurare di nulla rivelare dell’apparizione di questa notte. Ad ogni volta, lo spettro, ormai invisibile, grida «Giurate!» Giurano infine di nulla rivelare e di non lasciare nulla intendere anche se la condotta di Amleto sembra loro strana e singolare.
ATTO SECONDO, scena 1
Polonio sospetta che il figlio Laerte conduca una vita poco virtuosa e invia a Parigi un emissario, Reynaldo, per spiarlo. Sopraggiunge Ofelia che appare sconvolta per la condotta di Amleto. Quest’ultimo, che gli è apparso male in arnese, pallido e tremante, si è accontentato di tenerla a lungo in punta di mano e di osservarla lungamente, senza nulla dire. Polonio pensa che il comportamento di Amleto sia dovuto alla freddezza mostrata, su suo ordine, da Ofelia e decide di parlarne al re.
ATTO SECONDO, scena 2
Claudio chiede a Rosencrantz e Guildenstern, amici d’infanzia di Amleto, di sondare il principe per conoscere le cause della sua singolare “trasformazione”. Entra Polonio che annuncia al re l’arrivo degli ambasciatori di ritorno della Norvegia. Il re della Norvegia ha convinto Fortebraccio di invadere la Polonia piuttosto che la Danimarca. Dichiara allora di avere scoperto la causa della pazzia di Amleto: il suo amore impossibile per Ofelia che ha respinto le sue avances. Per il re e la regina, queste spiegazioni non sono affatto convincenti. La regina pensa che sia stato il proprio affrettato matrimonio ad aver fatto perdere la ragione a suo figlio. Arriva Amleto, che finge la pazzia, cosa che gli permette di prendersi gioco delle osservazioni e delle insinuazioni di Polonio. Polonio esce, dopo avere accolto Rosencrantz e Guildenstern. Amleto scopre presto che sono stati inviati dal re per interrogarlo e volge la conversazione sull’arrivo di una compagnia di attori, sul teatro e sui principali ruoli che sono sempre più spesso affidati a bambini ed adolescenti. Amleto accoglie gli attori, introdotti da Polonio. Essi gli recitano qualche verso sulla morte del re Priamo di Troia e del lutto portato dalla moglie Ecuba. Polonio porta via gli attori, eccetto l’attore principale al quale Amleto chiede di rappresentare “L’omicidio Gonzaga” davanti alla corte e di inserire qualche verso scritto di suo pugno. Lasciato solo, Amleto si meraviglia del potere di evocazione del teatro e si tormenta sulla propria inerzia. Ha deciso di fare rappresentare l’assassinio di suo padre davanti allo zio e di osservarne le reazioni, al fine di smascherarlo e vendicare il padre.
ATTO TERZO, scena 1
Per comprendere la ragione della triste follia di Amleto, il re e la regina decidono di metterlo a confronto con Ofelia. Polonio invita Ofelia a fare finta di essere sola mentre il re ed egli stesso aspettano, nascosti dietro una tenda. Entra Amleto, che pronuncia il monologo famoso «Essere o non essere» fino al momento in cui scorge Ofelia. Amleto nega il suo amore per lei e le consiglia di non sposarsi ma di entrare in convento. Claudio che è ora convinto che la pazzia del nipote non sia dovuta ad un dispiacere d’amore, inizia a vedere in Amleto un pericolo per la corona. Decide di sbarazzarsi di lui e lo invia in Inghilterra. Polonio suggerisce di tentare un’ultima volta di scoprire le ragioni della condotta di Amleto mettendolo a confronto con la madre, Gertrude.
ATTO TERZO, scena 2
Dopo avere dato le sue istruzioni agli attori, Amleto incarica Orazio di spiare le reazioni del re durante la rappresentazione. Il re, la regina e la loro corte vengono ad assistere alla rappresentazione. Amleto, la testa sulle ginocchia di Ofelia, si prepara a commentarle la pièce che è preceduta di un riassunto mimato dell’azione, seguito da alcune parole indirizzate al pubblico da un personaggio chiamato “Prologo”. La pièce propriamente detta comincia. Mette l’accento sui temi del tradimento, dell’omicidio e dell’ incesto. Nel momento in cui Luciano versa del veleno nell’orecchio del re, Claudio si alza e lascia la sala, benché Amleto gli abbia garantito che si trattava di una pièce incentrata sull’omicidio del duca Gonzaga a Vienna. Ma Amleto in realtà è sicuro di avere ottenuto così la conferma dell’omicidio del padre. Il re invia Rosencrantz e Guildenstern, quindi Polonio, a comunicare ad Amleto il desiderio della madre di avere un incontro con lui. Amleto dichiara la sua intenzione di vendicarsi della morte del padre ma decide di procedere verso la madre solo con atti verbali.
ATTO TERZO, scena 3
Claudio incarica Rosencrantz e Guildenstern di accompagnare Amleto in Inghilterra. Polonio s’appresta a spiare Amleto durante il colloquio con la regina. Rimasto solo, il re prova rimorsi. Si inginocchia per pregare ed ottenere il perdono dei suoi peccati. Entra Amleto. Potrebbe facilmente uccidere il re ma decide di risparmiarlo perché uccidere lo zio in preghiera avrebbe per risultato di fargli guadagnare il paradiso.
ATTO TERZO, scena 4
Polonio, nascosto dietro una tenda, assiste all’incontro di Amleto con la madre. Il comportamento brutale di Amleto spaventa la regina che chiama aiuto. Polonio si muove e denuncia la sua presenza. Amleto lo uccide, credendo che sia il re. Rimprovera alla madre la sua condotta indegna e la sua mancanza di virtù. Lo spettro del re defunto appare allora e chiede ad Amleto di vendicarsi di Claudio ma di non aggiungere alle tante sofferenze anche quelle della madre. Amleto chiede alla madre di non andare più a letto con Claudio. Quindi, cambia parere e le consiglia di accogliere il re e di raccontargli quanto appena successo. Abbandona la scena trascinandosi dietro il cadavere di Polonio.
ATTO QUARTO, scena 1
Gertrude ha ormai la certezza che suo figlio è in preda alla pazzia. Mette il re a corrente della morte di Polonio. Claudio si rende conto che era lui stesso il vero obiettivo di Amleto e incarica Rosencrantz e Guildenstern di partire immediatamente per l’Inghilterra.
ATTO QUARTO, scena 2
Rosencrantz e Guildenstern tentano di scoprire il luogo in cui Amleto ha nascosto il cadavere di Polonio. Amleto li canzona e rifiuta di rispondere loro. Accetta tuttavia di incontrare il re.
ATTO QUARTO, scena 3
Amleto rifiuta di rispondere alle domande del re ma sembra contento di partire in esilio. Lasciato solo, Claudio rivela che ha ordinato che Amleto sia assassinato subito dopo il suo arrivo in Inghilterra.
ATTO QUARTO, scena 4
Prima di partire per l’Inghilterra, Amleto incontra Fortebraccio che attraversa la Danimarca per andare a conquistare alcune sterili terre in Polonia. Pensando alla semplicità della posta in gioco – vendicare la morte di suo padre e l’onore di sua madre -, Amleto si rimprovera della propria inerzia.
ATTO QUARTO, scena 5
Ofelia appare, resa folle dal dolore per la morte del padre e il rifiuto di Amleto. La regina tenta di condurla alla ragione ma Ofelia non risponde e si limita a cantare delle tristi canzoni d’amore. Arriva Laerte, di ritorno dalla Francia, ed esige che gli dicano la verità sulla morte del padre come anche le ragioni per le quali non gli abbiano tributato i funerali di stato. Al momento in cui il re si prepara ad offrirgli spiegazioni, Ofelia entra in scena. Rendendosi conto di ciò che è successo alla sorella, Laerte si promette di punire i responsabili della morte di suo padre.
ATTO QUARTO, scena 6
Orazio riceve una lettera di Amleto. Amleto vi scrive che la sua nave è stata attaccata dai pirati e che questi lo hanno risparmiato dopo avere ottenuto l’impegno di farli ricevere dal re della Danimarca. Amleto informa Orazio che Rosencrantz e Guildenstern sono sempre in viaggio per l’Inghilterra.
ATTO QUARTO, scena 7
Claudio imputa ad Amleto la responsabilità della morte di Polonio e della pazzia di Ofelia. Confida a Laerte le ragioni che lo hanno spinto a risparmiare il nipote: oltre all’affetto che gli porta sua madre Amleto ha infatti il sostegno di tutto il popolo. Un messaggero entra ed annuncia loro il ritorno di Amleto. Il re pensa ad un inganno e suggerisce a Laerte di indurre il nipote in duello. Laerte accetta la proposta del re e gli comunica il proposito di cospargere la punta della propria spada di un veleno mortale. Anche il re pensa di offrire una coppa avvelenata ad Amleto durante il duello. Entra la regina ed annuncia la morte di Ofelia, che si è suicidata annegandosi.
ATTO QUINTO, scena 1
Amleto ed Orazio incontrano due becchini in procinto di scavare la tomba di Ofelia. Amleto parla loro e si interroga sul senso della vita e della morte. Esaminando i crani dissotterrati dai becchini, si commuove di trovare quello di Yorick, il buffone che lo ha tanto divertito da piccolo. Arriva il corteo funebre. Laerte maledice colui che considera l’assassino della sorella e salta nella fossa. Amleto lo raggiunge e iniziano a battersi. Li separano. Prima di partire, Amleto grida il suo amore per Ofelia.
ATTO QUINTO, scena 2
Amleto racconta ad Orazio come ha fatto a sostituire la lettera del re che chiedeva alle autorità inglesi la sua esecuzione con quella in cui si chiedeva invece di giustiziare Rosencrantz e Guildenstern, i latori del messaggio. In seguito, tenta di riconciliarsi con Laerte e gli porge le sue scuse per il dolore arrecatogli. Arriva Osric, un cortigiano, per assicurarsi della partecipazione di Amleto al duello. Amleto accetta la sfida. Laerte sembrerebbe accettare l’amicizia di Amleto tuttavia insiste per battersi in duello. Il duello comincia. Dopo i primi scambi, il re offre la coppa avvelenata ad Amleto, che la mette da parte. Amleto vince il primo assalto e la regina beve alla sua salute, bevendo dalla coppa avvelenata. Nella confusione che se ne segue, Amleto e Laerte si scambiano le armi e fatalmente ne restano entrambi avvelenati. La regina muore e Laerte rivela il suo stratagemma e quello del re. Amleto si getta allora sul re e lo trafigge con la punta della spada avvelenata quindi lo costringe a bere dalla coppa avvelenata. Laerte muore dopo essersi riconciliato con Amleto. Orazio vorrebbe anch’egli bere dalla coppa avvelenata ma Amleto lo dissuade e lo incarica di tramandare la sua tragedia. In quel mentre entra Fortebraccio di ritorno dalla Polonia ed Amleto esprime pubblicamente il desiderio che il principe della Norvegia regni sulla Danimarca. Amleto muore a sua volta. Gli ambasciatori entrano ed annunciano l’esecuzione di Rosencrantz e Guildenstern. Fortebraccio ordina che le onoranze funebri siano rese ad Amleto.
Amleto
(“Hamlet” – 1600-1601)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V