(“As you like it” 1599 – 1600)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
ATTO TERZO – SCENA PRIMA
Entrano il Duca (Frederick), signori e Oliver.
IL DUCA
Non l’hai più visto? Ma signor mio, signore,
non è possibile. Se non fosse che io
nella parte migliore son la clemenza stessa,
non cercherei un oggetto assente alla mia ira,
con te presente. Ma stai bene attento:
ritrova tuo fratello, ovunque sia.
Cercalo con un lanternino: portalo
vivo o morto, entro un anno, o non tornare
qui, nel nostro ducato, a procacciarti il pane.
Le tue terre e la roba che oggi chiami tua,
se val qualcosa, noi ti confischiamo tutto
finché, per bocca sua, non potrai discolparti
di quanto noi pensiamo contro di te.
OLIVER
Oh, Altezza,
se mi poteste leggere nel cuore!
Non ho mai amato mio fratello, in tutta
la mia vita.
IL DUCA
Per questo sei ancora più infame.
Su, cacciatelo via, e gli ufficiali
a ciò preposti prendano possesso
della sua casa e delle terre. Fatelo
subito, e quanto a lui, lo si getti per strada. Escono.
ATTO TERZO – SCENA SECONDA
Entra Orlando (con un foglio in mano).
ORLANDO
Pendete lì, miei versi, per testimoniare
il mio amore. E tu, regina della notte,
tre volte incoronata, dalla tua
pallida sfera lassù, co’ tuoi casti occhi,
riguarda il nome della tua cacciatrice
che tiene in mano tutta la mia vita.
Questi alberi saranno, o Rosalinda,
i miei taccuini, e sulla loro scorza
inciderò i miei pensieri, sì che ogn’occhio
che s’apre in questo bosco vi vedrà
la tua virtù testimoniata ovunque.
Corri, su corri, Orlando, e su ogni albero incidi
la bella, casta, indicibile lei. Esce.
Entrano Corin e Touchstone.
CORIN
Allora, mastro Touchstone, vi piace questa vita da pastore?
TOUCHSTONE
Per dirti il vero, pastore mio, pigliata in sé è una vita discreta; ma se pensi che è una vita di pastore, fa schifo. In quanto che l’è solitaria, l’apprezzo molto; ma in quanto appartata mi fa vomitare. Visto poi che si vive nei campi mi piace assai; ma visto che non è a corte è noiosa da morire. Frugale com’è, guarda, s’adatta bene al mio umore; ma dato che non dà di più, mi sdegna lo stomaco. Hai qualche frustolo di filosofia, pastore?
CORIN
Beh, quel tanto che serve a capire che più uno è malato e peggio sta; e che chi manca di mezzi, contento e quattrini, tre buoni amici non ha vicini; che la pioggia bagna e il fuoco scotta; e che buon’erba fa pecora tonda; e che la notte si può spiegare con la mancanza di luce solare; e chi non ha arte né doni di natura può ben lagnare mancanza di cultura, oppure scende da una razza di scemi.
TOUCHSTONE
Questo si chiama essere un filosofo naturale. Sei mai stato a corte, pastore?
CORIN
Sinceramente no.
TOUCHSTONE
Allora sei un uomo dannato.
CORIN
Oh, spero di no.
TOUCHSTONE
Ma sì che lo sei, come un uovo fritto male, da una parte sola.
CORIN
Perché non sono stato a corte? Dimostratemelo.
TOUCHSTONE
Beh, se non sei mai stato a corte, non sai che siano le buone maniere; e se non lo sai, allora le tue maniere saranno cattive, e la cattiveria è un peccato, e il peccato è dannazione. Sei molto a rischio, pastore.
CORIN
Non è vero un fico, mastro Touchstone. Quelle che a corte son buone maniere qui in campagna ci fanno ridere, proprio come le maniere campagnole, portate a corte, fanno scompisciare dalle risate. M’avete detto che a corte non vi salutate mai senza baciarvi le mani: è una maniera di cortesia che sarebbe puzzolente se i cortigiani fossero pastori.
TOUCHSTONE
Un esempio in breve, su avanti, un esempio.
CORIN
Beh, noi stiamo sempre a maneggiar pecore, e la lana delle pecore lo sapete che è unta.
TOUCHSTONE
Ma perché, forse che le mani dei cortigiani non sudano? E il grasso di montone non è forse sano come il sudore umano? Sei rasoterra, rasoterra. Avanti, un esempio migliore.
CORIN
Inoltre, le nostre mani hanno i calli.
TOUCHSTONE
E dunque le labbra le sentono meglio. Rasoterra di nuovo. Un esempio più forte, dài.
CORIN
E spesso sono sporche del catrame che giova a curare le pecore: vorreste farci sbavare il catrame? Le mani dei cortigiani son profumate di zibetto!
TOUCHSTONE
Uomo rasoterra! Pasto da vermi appetto a questo bel tocco di carne! Impara dai saggi, e medita. Lo zibetto nasce molto peggio del catrame, è sozza cacca di gatto. Prova a far meglio, pastore.
CORIN
Avete un ingegno troppo di corte per me, mi arrendo.
TOUCHSTONE
Ah vuoi restare dannato? Dio t’aiuti, uomo rasoterra! Ma lui t’ha già preparato per l’arrosto, carne cruda che non sei altro.
CORIN
Padrone mio, io sono un onesto lavoratore: mi guadagno quello che mangio e quel che ho lo porto addosso; non provo odio per nessuno e di nessuno invidio la fortuna; son contento del bene degli altri e non mi lagno se mi va male; e il più grande orgoglio mio è di vedere brucare le pecore e gli agnelli succhiar le poppe.
TOUCHSTONE
Altro peccato di dabbenaggine! Metti assieme pecore e montoni e vuoi guadagnarti la vita con la copula del bestiame: insomma fai da ruffiano a un pecorone col campanaccio al collo, e fai metter sotto un’agnella di dodici mesi a un vecchio caprone cornuto con la zucca storta, che è un far fottere irragionevole. Se questo non basta a dannarti allora è il diavolo stesso che non accetta pastori. Altrimenti non vedo come ti potrai salvare.
CORIN
Guarda chi arriva, il signorino Ganimede, il fratello della nuova padrona.
Entra Rosalinda (leggendo un foglio).
ROSALINDA
Dall’India d’Oriente all’altra India
non c’è gemma come Rosalinda.
La sua fama dal vento spinta
porta ovunque Rosalinda.
La pittura meglio dipinta?
Crosta, appetto a Rosalinda.
E ogni faccia è in mente stinta
tranne la bella Rosalinda.
TOUCHSTONE
Beh, di versi così ne riesco a fare per otto anni di fila, tolte sempre le ore di pranzo, cena e sonno. Marciano come le comari che vanno al mercato a vendere il burro.
ROSALINDA
Ma va, buffone!
TOUCHSTONE
Ne volete un assaggio?
Se un cervo sente una certa spinta
vada alla cerca di Rosalinda.
Se anche la micia vuol la spinta
così pure fa Rosalinda.
Fodera fitta in stagione matrigna
pur per la snella Rosalinda.
Mietitore le spighe stringa
poi salti sul carro con Rosalinda.
Noce dolce ha scorza arcigna,
tale noce è Rosalinda.
E chi la rosa più bella incigna
si becca la spina di Rosalinda.
Questo è l’autentico galoppo fasullo dei versi. Perché vi fate appestare da questa roba?
ROSALINDA
Ma zitto, testa di rapa! Li ho trovati su un albero.
TOUCHSTONE
Francamente quell’albero fa frutti schifosi.
ROSALINDA
Proverò a innestarlo con te, e poi con un nespo-lo. Così avremo frutta anzitempo, perché tu sarai marcio prima ancora di maturare, testa di nespola che non sei altro.
TOUCHSTONE
Ha parlato il pozzo della saggezza. Se ha parlato da saggio o no, lo giudichi la foresta.
ROSALINDA
Smettila, che arriva mia sorella tutta assorta nella lettura. Su nascondiamoci.
Entra Celia con un foglio.
CELIA (legge)
Perché questo è un deserto?
Perché non c’è anima? No.
Lingue a ogn’albero appendo
che gentilezze dicano.
Una, che la vita è un breve
inutile vagabondaggio,
e che se misuri una spanna
hai misurato il suo viaggio.
Due, che tra amico e amico
ogni promessa vien rotta,
ma sui rami più limpidi
o alla fine d’ogni motto,
io scriverò Rosalinda,
così chi legge impara
che l’essenza di ogni anima
in lei, lei sola appare.
Perciò alla Natura fu detto
che in un sol corpo chiudesse
ogni virtù al suo estremo.
E la Natura compresse
guance d’Elena, non cuore,
di Cleopatra la maestà,
di Atalanta il meglio,
di Lucrezia la castità.
Così il divino consesso
la formò con molti brani,
con occhi, facce e cuori,
perché avesse i tocchi più rari.
Il Cielo volle lei così fornita,
ed io suo schiavo, in questa e l’altra vita.
ROSALINDA
O dolcissimo Giove, che razza di tiritera amorosa barbosa hai rifilato ai tuoi parrocchiani, e senza mai strillare “Pazienza buona gente!”.
CELIA
Ah, dunque, amici spioni? Scostati un poco, pastore. E tu con lui, mariolo.
TOUCHSTONE
Vieni, pastore, cerchiamo di fare una ritirata onorevole, se non con armi e bagagli, almeno con sacca e bisaccia. Esce (con Corin).
CELIA
Li hai sentiti quei versi?
ROSALINDA
Come no, li ho sentiti tutti e qualcosa in più, perché parecchi avevano qualche piede di troppo.
CELIA
E che importa: i piedi riuscivano a portar bene i versi.
ROSALINDA
Già, ma quei piedi eran zoppi, e non si reggevano senza appoggiarsi ai versi, così finivano per far zoppicare anche i versi.
CELIA
Ma non ti meraviglia che il tuo nome risulti inciso o appiccato a quanti tronchi c’è in giro?
ROSALINDA
Senti, già prima che tu arrivassi ero rimasta di sassolino, ché guarda qui cos’ho trovato su una palma. Mai sono stata messa tanto in rima, almeno dai tempi di Pitagora, quand’ero un topo irlandese, cosa che ricordo appena.
CELIA
E non riesci a indovinare chi l’ha fatto?
ROSALINDA
Si tratta d’un uomo o cosa?
CELIA
Sicuro, e con una collana al collo che una volta portavi tu. Che fai, cambi colore?
ROSALINDA
Chi, te ne prego?
CELIA
Ah Signore, signore! Sarà vero che è raro ritrovare un amico, ma pure le montagne a volte vengono smosse dal terremoto e così si rincontrano.
ROSALINDA
Presto, dimmi chi è.
CELIA
Ma è possibile?
ROSALINDA
No, adesso te ne prego davvero, ti prego e riprego col più ardente ardore, dimmi chi è.
CELIA
Oh meraviglioso, meraviglioso! Meraviglioso più d’ogni meraviglia! E di nuovo meraviglioso! E ancora, ancora, al di là d’ogni strillo di meraviglia.
ROSALINDA
All’anima della mia faccia! Forse credi che essendomi così bardata da maschio ho messo calzoni e giubba ai miei sentimenti? Un altro tuo dito d’indugio per me è come andare a scoperta nel Mar dei Sargassi. Ti prego, dimmi subito chi è, e alla svelta. Ti vorrei veder balbettare, che l’uomo segreto ti gorgogliasse dalla bocca come il vino da un fiasco stretto; o troppo tutto assieme o niente. Ti prego togliti il tappo di bocca, e fammi bere la novella.
CELIA
Così ti metti un uomo in pancia.
ROSALINDA
È un uomo come Dio comanda? Che tipo è? Ha una testa che valga un cappello? O un mento la barba?
CELIA
Beh, di barba ne ha poca.
ROSALINDA
Ma Dio gliene darà dell’altra, se è un tipo capace di riconoscenza. Aspetterò che gli cresca la barba se non perdi altro tempo per dirmi del mento.
CELIA
È quel ragazzo Orlando, quello che ha sgambettato il forzuto e il tuo cuore in una botta sola.
ROSALINDA
Eh no, al diavolo gli scherzi. Parla chiara e sin-cera.
CELIA
Giuro, cugina, è lui.
ROSALINDA
Orlando?
CELIA
Orlando.
ROSALINDA
Povera me, ora come faccio con questa giubba e le braghe? Che ha fatto quando l’hai visto? Che ha detto? Come t’è parso? Come vestiva? Che fa qui? T’ha chiesto di me? Dov’è adesso? Come vi siete lasciati? E quando lo rivedi? Rispondi con una parola.
CELIA
Prima mi devi procurare la bocca di Gargantua. È una parola troppo grossa per le bocche del giorno d’oggi. Per dire sì o no a tutte quelle domande ci vuol più tempo che a recitare il catechismo.
ROSALINDA
Ma lui lo sa che mi trovo in questa foresta, e travestita da uomo? E com’è, è ancora bello come quel giorno alla lotta?
CELIA
Senti, è più facile contare i bruscolini nell’aria che rispondere alle domande degli innamorati. Accontentati di quest’assaggio, che l’ho riveduto, mettici sopra la salsa e gustalo bene. L’ho trovato sotto un albero come una ghianda caduta.
ROSALINDA
Allora bisogna chiamarlo l’albero di Giove, se semina frutti così.
CELIA
Cara signora, mi stia un po’ a sentire.
ROSALINDA
Continui, continui.
CELIA
Se ne stava lì steso come un cavaliere ferito.
ROSALINDA
Vista pietosa, ma che onore per le zolle!
CELIA
Grida”brrr!” alla lingua, per favore, fa corvette a sproposito. Era vestito da cacciatore.
ROSALINDA
Ahi, brutto segno! È qui per spezzarmi il cuore!
CELIA
Vorrei riuscire a cantare senza bordone. Così prendo le stecche.
ROSALINDA
Ma non lo sai che son donna? Se penso devo parlare. Prosegui tesoro.
CELIA
Ho perso il filo. Aspetta! Non è lui che arriva?
Entrano Orlando e Jaques.
ROSALINDA
È lui. Presto, qui dietro, e stiamo a vedere.
JAQUES
Grazie per la compagnia, ma francamente stavo bene da solo.
ORLANDO
E io lo stesso, però, per educazione, son io a ringraziarvi.
JAQUES
Statevi bene; incontriamoci il meno possibile.
ORLANDO
Mi piacerebbe che fossimo più estranei.
JAQUES
Vi prego di non sconciare altri alberi scrivendoci sopra canzonette amorose.
ORLANDO
Vi prego di non sconciare i miei versi leggendoli in modo così sgraziato.
JAQUES
È Rosalinda il nome della vostra spasimata?
ORLANDO
Proprio così.
JAQUES
Non è granché, come nome.
ORLANDO
Nessuno pensava di farvi cosa gradita, quando è stata battezzata.
JAQUES
Di statura, quant’è?
ORLANDO
M’arriva giusto al cuore.
JAQUES
Siete pieno di spirito di patata. Avete frequentato forse mogli d’orefici, e imparato a memoria i motti degli anelli?
ORLANDO
Proprio no; casomai vi rispondo come le tele tinte, da cui voi ricavate tutte le vostre domande.
JAQUES
Che spirito agile! Proviene, credo, dai calcagni d’Atalanta. Vogliamo sederci assieme noi due e inveire contro quella puttana nostra padrona, la terra e tutta la nostra miseria?
ORLANDO
No, non me la voglio prendere contro nessuno al mondo, tranne me stesso di cui conosco meglio i difetti.
JAQUES
Il vostro peggior difetto è d’essere innamorato.
ORLANDO
È un difetto che non cambio con la migliore delle vostre virtù. M’avete stancato.
JAQUES
A dire il vero stavo cercando un matto quando ho trovato voi.
ORLANDO
È affogato nel ruscello. Guardateci dentro e lo vedrete.
JAQUES
Ci vedrò la mia faccia.
ORLANDO
Appunto, quella d’un matto, o d’una nullità.
JAQUES
Beh, me ne debbo andare. Statevi bene, caro Signor Amoroso.
ORLANDO
Contento che ve ne andiate. Addio Messer Malinconico. (Esce Jaques.)
ROSALINDA (a parte a Celia)
Adesso gli parlo come se fossi un lacchè insolente, e così mi diverto un po’ con lui. – Mi sentite, boscaiolo?
ORLANDO
Vi sento benissimo. Cosa desiderate?
ROSALINDA
Per favore, che ora fa l’orologio?
ORLANDO
Fareste meglio a chiedere l’ora del giorno; non ci sono orologi in questi boschi.
ROSALINDA
Allora non ci sono veri amanti in questi boschi, sennò un sospiro al minuto e una lagna all’ora rintraccerebbero i pigri passi del tempo, proprio come un orologio.
ORLANDO
E perché non dite i passi veloci del Tempo? Non sarebbe altrettanto giusto?
ROSALINDA
Direi di no, signore. Il Tempo viaggia a passi diversi a seconda delle persone. Vi dirò con chi va al passo, con chi al trotto, con chi al galoppo, e con chi sta fermo.
ORLANDO
Sentiamo: con chi va al trotto?
ROSALINDA
Per la vergine, trotta duro con le ragazze tra il contratto di matrimonio e il giorno della festa. Anche se l’intervallo è sette notti, il Tempo trotta così lento che pare sett’anni.
ORLANDO
E con chi va all’ambio, il Tempo?
ROSALINDA
Con un prete che non sa il latino e con un ricco che non ha la gotta; il primo dorme bene perché non è capace di studiare, e il secondo se la spassa perché non ha dolori. L’uno non mena il fardello d’un sapere magro e sciupone, l’altro non sa il fardello della penuria, pesante e tediosa. Ecco con chi va all’ambio il Tempo.
ORLANDO
E con chi va al galoppo?
ROSALINDA
Con un ladro avviato alla forca; per lento che gli caschi il piede, che più lento non si può, già si vede in anticipo a destinazione.
ORLANDO
E fermo con chi sta?
ROSALINDA
Con gli avvocati in vacanza, che dormono tra le sessioni e non s’accorgono che il tempo passa.
ORLANDO
Dove abiti, bel giovanotto?
ROSALINDA
Con questa pastora mia sorella, qua ai bordi del bosco, come la frangia sulla sottana.
ORLANDO
Sei nato da queste parti?
ROSALINDA
Come il coniglio che sta dove la madre lo sgrava.
ORLANDO
Ma il modo di parlare è più scelto di quello che ci si procura in un recesso come questo.
ROSALINDA
Me l’han detto in molti. La verità è che m’ha insegnato a parlare un mio vecchio zio prete, che in gioventù era uomo di mondo e la corte la conobbe anche troppo, perché lì nel far la corte si prese una cotta. E contro le cotte l’ho sentito predicare tante volte, e graziaddio che non sono femmina, e non son toccata da tutti quei peccati svitati dei quali tacciava quel sesso in blocco.
ORLANDO
Te ne ricordi qualcuna, delle accuse più pesanti che lui scagliava alle donne?
ROSALINDA
Non ce n’erano di pesanti, eran tutte uguali co-me i baiocchi, e ognuna pareva mostruosa finché la compagna non la appaiava.
ORLANDO
Su, dimmene qualcuna.
ROSALINDA
No, non voglio sprecar medicine per qualcuno che non sta male. C’è qualcuno ad esempio che va in giro per la foresta e deturpa gli alberelli scavando le scorze con “Rosalinda”. Appende odi sui biancospini e sui pruni lamentazioni, tutto perdinci per deificare questo nome di Rosalinda. Se lo incontrassi, questo spacciator d’amorazzi, gli darei qualche buon consiglio, ché secondo me s’è beccata una malaria d’amore.
ORLANDO
Sono io che ho questa febbre d’amore. Dimmi il tuo rimedio ti prego.
ROSALINDA
Ah, ma in voi non vedo affatto i segni di mio zio prete. M’ha insegnato come riconoscerlo, uno malato d’amore. E non vedo che siate ingabbiato in quella gabbia di giunchi.
ORLANDO
Quali sarebbero questi segni?
ROSALINDA
Guancia smunta, che non avete; occhio pesto e infossato che non avete; scontrosaggine, che non avete neanche; barba lunga, e non l’avete – ma di questa non ne parliamo, che la poca che avete è come la rendita d’un cadetto. E poi la calzamaglia senza giarrettiera, il berretto senza nastro, le maniche sbottonate, le scarpe slacciate e tutto quanto avete indosso che mostra segni di trascurataggine e depressione. No, non mi pare il vostro caso: voi anzi siete piuttosto leccatino nelle vostre bardature, e avete l’aria di chi ama sé più che altri.
ORLANDO
Mio bel ragazzo, vorrei proprio convincerti che sono innamorato davvero.
ROSALINDA
Convincere me! Dovreste pensare a convincere quella che dite di amare, cosa che lei, scommetto, è più pronta a fare che a confessare. Questo è uno dei punti sui quali le donne riescono sempre a far sceme le proprie coscienze. Ma parliamo sul serio, siete davvero voi che appendete sugli alberi quei versi che lodano e sbrodano questa Rosalinda?
ORLANDO
Giovanotto te lo giuro, sulla bianca mano di Rosalinda; sono proprio io, son proprio io quel disgraziato.
ROSALINDA
E siete davvero così cotto come dicono le poesie?
ORLANDO
Ah, né poesia né prosa può dire quanto!
ROSALINDA
L’amore non è che pazzia, e credetemi, va trattato al buio con la frusta, come si fa coi pazzi. E sapete perché gli innamorati non son puniti o curati così? Perché i lunatici sono tanti, che pure i medici sono cotti. A ogni modo, io m’impegno a guarirvi con la persuasione.
ORLANDO
Ne avete già guariti in questa maniera?
ROSALINDA
Sì, uno, procedendo così: doveva pensare che io ero il suo amore, la sua padrona. E io, ogni giorno, lo mettevo lì a farmi la corte. Durante la qual seduta, visto che anch’io sono un ragazzo un po’ lunatico, mi mettevo a lagnarmi, facevo la femminuccia, cambiavo idea ogni minuto, mi facevo venir le voglie e gli facevo le mossette, avevo la puzza al naso, sparavo capricci e giocavo a far la scimmietta, frivoleggiavo, gli voltavo le spalle, tutto lacrime e sorrisi, fingevo un po’ tutte le emozioni e poi recitavo a sentir niente, perché i ragazzi e le donne sono, per la più parte, bestie di questa razza. Ora lo coccolavo, ora lo respingevo; prima facevo la gatta, poi lo mandavo a spasso; piangevo per lui un momento, e poi gli sputavo in un occhio. E in questa maniera portai il mio cascamorto dal pazzo umor d’amore a un vero umor di pazzia, cioè a voltar le spalle al gran flusso mondano per vivere in un cantuccio meramente monastico. In questo modo lo guarii, e in questo modo m’impegno a farvi il fegato lindo come il cuore d’una pecora sana, e senza la minima macchia d’amore.
ORLANDO
Me, giovanotto, sarà difficile guarirmi.
ROSALINDA
E invece vi guarirò: voi dovete far solo questo, chiamarmi Rosalinda, e venire ogni giorno a farmi la corte alla mia capanna.
ORLANDO
Bene, verrò, quant’è vero che amo. Dimmi dov’è la capanna.
ROSALINDA
Venite con me e ve la faccio vedere. E a proposito, mi dovete dire dov’è che abitate nel bosco. Vogliamo andare?
ORLANDO
Molto volentieri, ragazzo mio.
ROSALINDA
Attento, dovete chiamarmi Rosalinda. Vieni, sorella, andiamo? Escono.
ATTO TERZO – SCENA TERZA
Entrano Touchstone, Audrey e Jaques (che li segue).
TOUCHSTONE
Muoviti cara Audrey. Ci penso io a portarti le capre, Audrey. Allora, Audrey, ti sei persuasa che sono il tuo tipo? Ti va bene il mio stampo così alla buona?
AUDREY
Il vostro stampo? Che Dio ci assista! Cos’è ‘sto stampo?
TOUCHSTONE
Eccomi qua, con te e le tue capre, com’era tra mezzo ai Goti il più capriccioso dei vati, l’onesto Ovidio.
JAQUES (a parte)
Ah cultura male alloggiata, peggio del grande Giove in una capanna di frasche!
TOUCHSTONE
Quando i versi d’un uomo non son capiti, né il suo spirito assecondato da quel moccioso primaticcio, l’intelletto, allora uno ci resta più tramortito di quando, alla locanda, ti rifilano un conto salato. Sinceramente, era meglio se gli dei t’avessero fatta un po’ più poetica.
AUDREY
Non lo capisco, questo “poetica”. Vuoi dire onesta di nome e di fatto? Vuoi dire sincera?
TOUCHSTONE
No, sincera no davvero, perché la poesia più sincera è la più fasulla, e siccome gli innamorati sono poetici, quando giurano in poesia si può dire che come innamorati ti pigliano per i fondelli.
AUDREY
E allora perché volevi che gli dei m’avessero fatta poetica?
TOUCHSTONE
Certo che lo volevo. Proprio perché mi giuri di essere onesta. In quanto che, se tu fossi poetica, potevo avere qualche speranza che mi pigliassi per i fondelli.
AUDREY
E allora mi vuoi disonesta?
TOUCHSTONE
Neanche per sogno, visto che non sei uno scorfano. Perché quando l’onestà s’accoppia con la beltà è come condire lo zucchero col miele.
JAQUES (a parte)
Ecco un pazzo pieno di senno.
AUDREY
Beh una gran bellezza non sono, perciò prego gli dei che mi tengano onesta.
TOUCHSTONE
E fai bene, perché sprecar l’onestà su una sporca befana è come mettere una fettina di vitella su un piatto sporco.
AUDREY
Una befana non sono, anche se graziaddio non sono una gran bellezza.
TOUCHSTONE
Beh, ringraziamo gli dei che t’han fatta brutta; magari la strega verrà fuori appresso. Ma la vada come la vuole, ho intenzione di sposarti, e per questo sono andato a trovare il curato del villaggio qua vicino, Mastro Oliver Scassatesti, che m’ha promesso di trovarsi qui, in questo punto esatto del bosco, per farci coppia.
JAQUES (a parte)
Quest’incontro non me lo voglio perdere.
AUDREY
Boh, gli dei ci assistano!
TOUCHSTONE
Amen. Se uno fosse un fifone ci sarebbe da vacillare di fronte a questo passo. Ché qui non c’è chiesa ma bosco, e gli invitati han tanto di corna. Ma con questo? Coraggio! Le corna sono odiose ma necessarie. Ed è stato detto che i più non sanno neanche il bene che hanno. Giusto. Molti hanno corna magnifiche, e nemmeno lo sanno. Però son le mogli a portarle in dote, mica se le mettono da soli. Corna dunque? Proprio così. E solo ai poveracci? No, no. Il più nobile cervo le ha grosse come il cervo più scalcagnato. Allora è meglio restare scapoli? Neanche. Una città murata val più d’un villaggio, no? Così il frontone d’uno sposato val mille volte la spoglia facciata dello scapolo. E c’è di più, un muro a difesa è meglio che starsene allo scoperto, e similmente un bel paio di corna è meglio che esser senza. Ecco qua Mastro Oliviero.
Entra Sir Oliver Martext.
Siate il benvenuto, sire. Ci volete sbrigare qui sotto frasca, o dobbiamo venire in chiesa?
SIR OLIVER
Non c’è qualcuno qui, per dar via la sposa?
TOUCHSTONE
Ma io non ho mica intenzione di farmela dare da un altro!
SIR OLIVER
La legge canonica dice che va data via, sennò il matrimonio non vale.
JAQUES (si fa avanti)
Si proceda, si proceda. La do via io.
TOUCHSTONE
Oh buonasera, messer Vattelapesca. Come va, messere? Arrivate a buon punto. Grazie per l’ultima volta che ci siamo visti e son felice di rivedervi. C’è da sbrigare una cosuccia da niente, signore. Ma vi prego, tenete il cappello.
JAQUES
Dunque ti vuoi sposare, Arlecchino?
TOUCHSTONE
Beh come il bue ha il giogo, il cavallo il morso e il falcone i sonagli, così l’uomo ha le sue voglie. E se i piccioni si dan di becco, gli sposini pure.
JAQUES
E tu, che sei un uomo educato, come fai a sposarti sotto la frasca come un pezzente? Ma vai in chiesa, vai, e procurati un prete con le carte in regola, che ti possa spiegare il significato del matrimonio. Quello lì non farà che incollarvi assieme come pannelli di legno; ma se poi uno di voi si ritira? Finirà come la legna verde, un corno qua e uno là.
TOUCHSTONE (a parte)
Mi sa tanto che mi conviene farmi sposare proprio da questo babbeo piuttosto che da un altro. Perché questo qui ha l’aria di non saperlo fare come va fatto; e un matrimonio mal fatto, nei tempi da venire, sarà una gran bella scusa per piantare la moglie.
JAQUES
Vieni con me, lascia che ti consigli io.
TOUCHSTONE
Audrey, vieni tesoro,
Qua non c’è scelta; o sposi o concubini.
Addio, buon Mastro Oliver. E non:
Oh caro Oliver,
Oh baldo Oliver,
Non mi abbandonare:
ma così:
Fila via,
dico, va via,
non mi faccio sposar da te.
(Escono Jaques, Touchstone e Audrey.)
SIR OLIVER
Per me, è uguale. Nessuno di questi sfottitori lunatici mi farà ripudiare la vocazione. Esce.
ATTO TERZO – SCENA QUARTA
Entrano Rosalinda e Celia.
ROSALINDA
Non dire altro, ho solo voglia di piangere.
CELIA
Fallo, ti prego, ma abbi la bontà di considerare che le lacrime non s’addicono a un uomo.
ROSALINDA
Ma non ho motivo di piangere?
CELIA
Tutti i motivi che vuoi, perciò piangi pure.
ROSALINDA
Persino i suoi capelli son del colore del tradimento.
CELIA
Un po’ più scuri di quelli di Giuda. E pure i suoi baci, perbacco, son figli di quelli di Giuda.
ROSALINDA
Diciamo, non è che i capelli li abbia brutti di colore.
CELIA
No, anzi bellissimi. Non c’è meglio del castano.
ROSALINDA
E i suoi baci sono puri, come baciare l’ostia benedetta.
CELIA
Si vede che s’è comprato un paio di labbra smesse di Diana. Una monaca dell’ordine di San Gennaro non bacia con più devozione, son proprio labbra che hanno il ghiaccio della castità.
ROSALINDA
Ma perché ha giurato che veniva stamattina e non si vede?
CELIA
Beh, decisamente non è un uomo di parola.
ROSALINDA
Lo credi davvero?
CELIA
Sì, non che sia un ladruncolo o un ladro di cavalli, ma in quanto a fede in amore lo credo vuoto, come una coppa tappata o una noce bacata.
ROSALINDA
Non lo credi fedele in amore?
CELIA
Beh, sì, quando ha preso la sbandata, ma non credo che l’abbia presa.
ROSALINDA
Ma l’hai sentito tu stessa, giurare e spergiurare che l’aveva preso.
CELIA
L’aveva, forse, una volta. E poi, i giuramenti d’un innamorato non hanno più forza di quelli d’un oste. Tutti e due affermano conti fasulli. Lui è qui nella foresta al seguito del duca tuo padre.
ROSALINDA
L’ho incontrato ieri, il duca, e abbiamo parlato a lungo. M’ha chiesto chi erano i miei, e io gli ho risposto che valevano quanto i suoi, allora s’è messo a ridere e m’ha lasciata andare. Ma perché parlare di padri quando esiste qualcuno come Orlando?
CELIA
Ah quello sì che è in gamba! Scrive gran versi, dice gran cose, fa gran giuramenti e li rompe alla grande, non di punta ma di piatto, sul cuore della donna amata, come un giostratore scadente, spronando tutto da un lato, spezza la lancia come un’oca imperiale. Ma tutto va alla grande, quando gioventù cavalca e follia comanda. Adesso chi arriva?
Entra Corin.
CORIN
Padrona e padrone, mi avete chiesto spesso
di quel pastore che piangeva amore,
quello che avete visto, seduto accanto a me
sull’erba, che intesseva lodi per la pastora
superbiosa e spocchiosa ch’era la sua patita.
CELIA
Beh, cosa gli è successo?
CORIN
Se volete vedere
una scena dal vivo, tra il pallido incarnato
dell’amore sincero, e il rosso ardente
del disprezzo altezzoso e dello scherno,
son quattro passi da qui, vi ci porto
se v’interessa.
ROSALINDA
Vieni, vieni, andiamoci.
La vista degli amanti è cibo per chi ama.
Portaci allo spettacolo.Vedrai se in questa recita
non mi dimostro anch’io un’attrice provetta. Escono.
ATTO TERZO – SCENA QUINTA
Entrano Silvio e Febe.
SILVIO
Dolce Febe non fare così, non farlo Febe!
Dillo, non m’ami, ma non dirlo in modo
così amaro. Persino il boia, quello
che ammazza per dovere d’ufficio, e ha il cuore
di pietra per la vista continua della morte,
non fa cascar l’accetta sul collo umiliato
senza prima aver chiesto perdono. E tu vuoi essere
più cruda di chi passa l’esistenza nel sangue?
Entrano (inosservati) Rosalinda, Celia e Corin.
FEBE
Non voglio affatto farti da carnefice;
Ti sfuggo, solo per non farti male.
Dici che nei miei occhi si legge l’omicidio;
Ma davvero ti pare bello, ti par probabile,
gli occhi, le cose più fragili e morbide,
timidi, pronti a chiudere le porte
davanti a un bruscolino, chiamarli boia, tiranni,
assassini? Ecco qua, ti fò il cipiglio
con tutto il cuore: se gli occhi davvero
potessero ferire, resteresti stecchito.
Su, fingi di svenire, casca in terra,
ma se non ti riesce, abbi almeno il pudore
di non mentire, che i miei occhi uccidono.
Mostrami la ferita che t’han fatto i miei occhi.
Ce l’hai uno spillo? Grattati, e ti resta lo sgraffio.
Metti la mano su un’ortica, e vedi
se il palmo non ne serba almeno per qualche attimo
il segno e l’impronta sensibile. Ma lo sguardo
che t’ho scagliato contro, non t’ha fatto del male,
e negli occhi, son certa, non c’è forza
che possa provocare ferite.
SILVIO
O cara Febe,
se mai, e questo mai può essere vicino,
dovesse capitarti di scoprire
in qualche fresco viso la forza dell’amore,
le sentiresti allora, le ferite invisibili
delle frecce puntute d’amore.
FEBE
E tu fino ad allora
non venirmi vicino. E quando arriva
l’ora, sfottimi pure, non avere pietà
come intanto, di te, io non avrò pietà.
ROSALINDA (si fa avanti)
E perché mai, se è lecito? Che madre hai avuto, di’,
che insulti, e esulti, tutto in una volta,
su un povero infelice? Perché, se siete brutta
– e affé mia non vi trovo più bella di parecchie
che t’entrano nel letto al buio, senza candela –
la dovete menare così, tronfia e spietata?
Che senso ha? Perché mi guardate a quel modo?
In voi non vedo altro che uno dei prodotti
dozzinali, che la Natura porta
al mercato. Per l’animuccia mia!
Mi sa che questa vuole intrappolare
pure i miei occhi! No, perdinci, mia Signora
Superbia, non sperateci. Non crediate di farcela
ad arruolare i miei spiritacci tra i vostri
smaniosi, con la vostra fronte d’inchiostro, il crine
setoso e nero, gli occhi di ranocchia,
e le guance di burro. E tu, pastore pazzo,
perché le tieni dietro che pari lo scirocco
pregno di nebbia e acquate? Tu, come uomo, vali
mille volte di quanto lei vale come femmina.
Sono gli scemi come te che riempiono
il mondo di marmocchi malfatti. Non è lo specchio
che la fa insuperbire, sei tu, e solo in te
lei si vede più bella che non provino
le sue fattezze. E voi, signora mia,
imparate a conoscervi. Mettetevi ginocchioni
e ringraziate il cielo, facendo un po’ digiuno,
che vi manda l’amore d’una persona a modo;
giacché vi voglio dire da amico, in un orecchio,
cogliete l’occasione, vendete, non è roba
che va in tutti i mercati. E allora, implorate
il suo perdono, amatelo, e accettatelo.
Brutto è brutto, e più brutto quando comincia a sfottere.
Perciò, pastore, prendila. Tanti auguri agli sposi.
FEBE
Dolce ragazzo, insultami tutto l’anno, ti prego.
Meglio le tue insolenze che le sue smancerie.
ROSALINDA (a Febe)
Ma guarda un po’, lui s’è cotto delle tue schifezze, (a Silvio) e lei s’è cotta della mia stizza. Quand’è così, su ogni pesce in faccia che lei ti butta con gli occhi, io ci metto la salsa delle parolacce. (A Febe) E tu perché mi fai quegli occhi di pesce morto?
FEBE
Perché non ti porto rancore.
ROSALINDA
Ma non innamorarti di me, per carità!
Sono più falso io, che le promesse
che fa un ubriaco. E inoltre, non mi piaci.
Ma se proprio volete sapere dove vivo,
è a quattro passi, lì, in quel folto d’ulivi.
Ce ne andiamo, sorella? Pastore, fatti sotto.
Sorella, andiamo. Voi, cara la mia pastora,
guardatelo d’un occhio più buono, e senza spocchie.
Cercaste ammiratori in tutto il mondo,
c’è solo lui, credetemi, che vi stravede tanto.
Su, torniamo alle pecore.
Escono (Rosalinda, Celia e Corin).
FEBE
E io ora capisco
la forza del tuo verso, o mio pastore morto;
“Chi mai amò se non a prima vista?”.
SILVIO
Amore mio!
FEBE
Come? Hai detto qualche cosa?
SILVIO
Abbi pietà di me, Febe!
FEBE
Sì, caro Silvio,
mi duole per te.
SILVIO
Ma se ti duole,
il rimedio si trova. Se ti dolgono
le mie pene d’amore, dando amore
risolvi le mie pene e il tuo dolore.
FEBE
Il mio amore ce l’hai. Non lo dice il vangelo?
SILVIO
Già, ma io voglio te.
FEBE
Questa è vera ingordigia.
Silvio, è passato il tempo che ti odiavo,
ma ancora non è il tempo d’amarti. Però, visto
che sai parlar d’amore così bene,
la tua presenza, che prima mi urtava
adesso la sopporto. Anzi, ho per te un incarico.
Non cercare però altro compenso
che il piacere di darmi una mano d’aiuto.
SILVIO
Così santo e perfetto è l’amore che sento,
ed ho così bisogno di grazia,
che pure spigolare dietro chi fa i mannelli
mi parrà un gran raccolto. Se mi getti
ogni tanto la spiga scartata d’un sorriso,
su di questo vivrò.
FEBE
Lo conosci il ragazzo
che mi parlava poco fa?
SILVIO
Non bene,
ma lo vado incontrando spesso. È quello
che ha comprato il capanno e le pasture
ch’erano di quel vecchio contadino.
FEBE
Sia chiaro,
non ti mettere in testa che ho preso una sbandata,
se ti chiedo di lui. È solo uno sfacciato.
Parla bene però. Ma cosa me ne faccio
delle parole? Epperò le parole
fan pure un certo effetto se quello che le dice
piace a chi sta a sentirlo. È un bel ragazzo,
mica troppo però, ma certo è un diavolo
d’orgoglio, ma l’orgoglio gli sta bene.
Quello diventa un uomo coi fiocchi. Ma la meglio
cosa che ha è l’incarnato. E prima ancora
che la lingua beccasse, l’occhio sanava il danno.
Alto non è, ma è alto per l’età che dimostra.
Gambe, così così; ma non son mica male.
Labbra, un bel rosso, appena più acceso e carnoso
di quello che gli tempra la gota: appena appena
la distanza tra rosso unito e rosso
damaschino. Ci sono donne, Silvio,
che a studiarlo così, parte per parte
quasi avrebbero fatto il ruzzolone.
Ma per me, non mi fa freddo né caldo,
anche se ho più motivo di freddo che di caldo.
Lui che c’entrava, a farmi quei rimproveri?
Ha detto che i miei occhi erano neri, neri
i capelli, e adesso che ricordo
mi ha pure sfottuta. Ah, mi meraviglio
che non gli abbia risposto per le rime!
Ma tant’è, omissione non è quietanza. Adesso
gli scriverò una lettera veramente pepata,
e gliela porti tu, nevvero, Silvio?
SILVIO
Con tutto il cuore, Febe.
FEBE
Vado a scriverla subito.
L’ho tutta in testa. Ma nel cuore, anche.
Sarò cruda con lui, e breve, breve.
Vieni, Silvio. Escono.
Come vi piace
(“As you like it” 1599 – 1600)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V