“The two Gentlemen of Verona” 1590 – 1595)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
ATTO QUARTO – SCENA PRIMA
Entrano diversi Fuorilegge.
PRIMO FUORILEGGE
Nervi a posto, ragazzi: ho avvistato un viandante.
SECONDO FUORILEGGE
Fossero dieci, niente paura: diamogli addosso!
[Entrano Valentino e Svelto]
TERZO FUORILEGGE
Alto là, messere! Gettateci quanto avete,
o vi gettiamo a terra per depredarvi.
SVELTO
Signore, siamo rovinati. Son questi i malfattori
di cui tanta paura han tutti i viaggiatori.
VALENTINO
Amici miei…
PRIMO FUORILEGGE
Non siamo amici, signore: siamo nemici.
SECONDO FUORILEGGE
Zitti! Lasciamolo parlare.
TERZO FUORILEGGE
Certo, per la mia barba! È uno come si deve.
VALENTINO
Sappiate allora che ho ben poco da perdere.
Sono un uomo colpito dalle avversità:
i poveri abiti che indosso son tutto il mio avere,
e se qui voi me ne spogliate
vi prendete l’intero ammontare di ciò che possiedo.
SECONDO FUORILEGGE
Dove siete diretto?
VALENTINO
A Verona.
PRIMO FUORILEGGE
Da dove venite?
VALENTINO
Da Milano.
TERZO FUORILEGGE
Vi avete soggiornato a lungo?
VALENTINO
Sedici mesi, più o meno, e avrei prolungato il soggiorno
se non ci si fosse messo di mezzo un destino maligno.
PRIMO FUORILEGGE
Perché, siete stato bandito?
VALENTINO
È così.
SECONDO FUORILEGGE
E per quale reato?
VALENTINO
Uno che molto mi affligge dover raccontare.
Ho ucciso un uomo, della cui morte sono assai pentito –
anche se l’ho ucciso da uomo, in duello,
ad armi pari e senz’ombra di slealtà o tradimento.
PRIMO FUORILEGGE
Beh, non c’è da pentirsi, se è andata così.
Ma vi han messo al bando per tanto poco?
VALENTINO
Sì, e fui pure lieto di uscirne con tale sentenza.
SECONDO FUORILEGGE
Conoscete le lingue?
VALENTINO
I miei viaggi giovanili me ne han dato l’opportunità:
altrimenti mi sarei spesso trovato nelle peste.
TERZO FUORILEGGE
Sulla tonsura del fratacchione di Robin Hood,
costui sarebbe un capo ideale, per la nostra masnada.
PRIMO FUORILEGGE
Sarà dei nostri. Signori, una parola.
SVELTO
Padrone, siate dei loro: son malviventi, ma uomini d’onore.
VALENTINO
Taci, screanzato!
SECONDO FUORILEGGE
Ma dite un po’: davvero non sapete a che santo votarvi?
VALENTINO
Soltanto alla mia buona stella.
TERZO FUORILEGGE
Sappiate allora che alcuni di noi sono gentiluomini,
che l’irruenza di una gioventù intemperante
strappò al consorzio delle persone dabbene.
Io stesso fui esiliato da Verona
per aver tramato il rapimento d’una dama:
un’ereditiera, più o meno imparentata con il Duca.
SECONDO FUORILEGGE
Ed io da Mantova, per via d’un gentiluomo
che, in un impeto d’ira, ho pugnalato al cuore.
PRIMO FUORILEGGE
E io per reati minori della stessa natura.
Ma veniamo al sodo… Noi si cita queste colpe
in parte per giustificare un’esistenza senza legge,
e in parte perché, nel vedervi dotato
di sì bella presenza e – per vostra stessa ammissione –
versato nelle lingue, ed in possesso di quei raffinamenti
che a noi, in questa professione, fan difetto…
SECONDO FUORILEGGE
Invece è perché vi hanno bandito,
soprattutto per questo, che veniamo a patti con voi.
Volete essere il nostro generale,
e fare di necessità virtù
e vivere come noi in queste plaghe selvagge?
TERZO FUORILEGGE
Cosa ne dici? Vorrai far parte della banda?
Di’ “Sì”, e sarai il capitano di noi tutti.
Ti renderemo omaggio, resteremo ai tuoi ordini,
ti avremo caro, da capo e condottiero.
PRIMO FUORILEGGE
Ma se hai in spregio la nostra cortesia, morrai.
SECONDO FUORILEGGE
Non vivrai tanto da vantarti di tale offerta.
VALENTINO
Accetto l’offerta, e vivrò con voi,
a patto che non rechiate oltraggio alcuno
a donne indifese o poveri viandanti.
TERZO FUORILEGGE
No, noi detestiamo sì turpi vigliaccate.
Su, dagli altri della banda: vieni con noi.
Vedrai le ricchezze rastrellate:
di noi e di esse, disponi come vuoi. Escono.
ATTO QUARTO – SCENA SECONDA
Entra Proteo.
PROTEO
Ho già tradito l’amico Valentino:
dovrò fare altrettanto con Turione.
Con il pretesto di tesserne gli elogi
coglierò il destro di corteggiarla io stesso;
ma Silvia è troppo onesta, troppo sincera e pura
per farsi sedurre dalle mie indegne profferte.
Quando protesto la mia assoluta sincerità
lei mi rinfaccia d’aver tradito l’amico;
quando consacro i miei voti alla sua beltà
lei mi fa ricordare che fui spergiuro
perché ho tradito l’amor della mia Giulia.
Ma nonostante le impennate sarcastiche –
l’ultima delle quali basterebbe a soffocare ogni mia speranza –
pure, a mo’ di cane fedele, più lei spregia il mio amore
più questo cresce e le si accuccia ai piedi.
[Entrano Turione e i musici]
Ma ecco, arriva Turione. Andiamo al balcone di lei
a gratificarne l’orecchio con una serenata.
TURIONE
Ebbene, Ser Proteo, ci avete preceduto di soppiatto?
PROTEO
Sì, nobile Turione: sapete bene che l’amore
agisce di soppiatto, se gli sbarran la strada.
TURIONE
Sì, ma spero, signore, che non sia qui la vostra bella.
PROTEO
Signore, è proprio qui: o sarei da un’altra parte.
TURIONE
Chi è mai? Silvia?
PROTEO
Sì, Silvia: e la corteggio per voi.
TURIONE
Grazie di tanta corte. E ora, signori,
accordate, e poi suonate a tutto spiano.
[Entrano l’Oste e Giulia travestita]
OSTE
Mi sa tanto, giovin signore, che siete un po’ condriaco: e come mai, se è lecito?
GIULIA
Beh, caro il mio oste: ho poco da stare allegro.
OSTE
Via, ci pensiamo noi a farvi stare allegro; ora vi porto dove c’è della musica, e là vedrete il gentiluomo di cui avete chiesto.
GIULIA
Ma lo sentirò parlare?
OSTE
Sì, certamente.
GIULIA
Quella sì, sarà musica!
OSTE
Sentite, sentite!
GIULIA
Lui è tra costoro?
OSTE
Sì. Ma tacete! Ascoltiamoli.
Canzone
Chi mai è Silvia? chi è costei
Cui s’inchina ogni pastore?
Bella e saggia, e santa sei,
E al tuo viso ed al tuo cuore
Le sue grazie il ciel versò.
Tu sei buona al par che bella,
Ché saggezza a leggiadria
S’accompagna; e amor novella
Luce a chiederti venìa:
Ne’ tuoi sguardi amor brillò.
Così a te risuoni il canto
Non mortal, divina cosa!
Sovra ogni altra ha Silvia il vanto;
E la terra, ov’ella posa
De’ suoi fior la coronò.
OSTE
Che vi succede? Siete più triste di prima? Come mai, giovanotto? Non vi garba la musica?
GIULIA
Vi sbagliate: è il musico che non mi garba.
OSTE
E perché, mio bel giovane?
GIULIA
Mi suona falso, vecchio mio.
OSTE
Come? Le corde non son accordate?
GIULIA
Non è questo, è il canto: un falsetto da straziarmi fin le corde del cuore.
OSTE
Avete un orecchio sensibile.
GIULIA
Sì, e vorrei esser sordo: fa perdere colpi al mio cuore.
OSTE
Mi par di capire che non amate la musica.
GIULIA
Neanche un poco, quando è tanto stonata.
OSTE
Udite, che fine variazione sul tema!
GIULIA
È proprio la variazione a offendermi.
OSTE
Vorreste suonassero sempre la stessa solfa?
GIULIA
Vorrei che ciascuno suonasse sempre la stessa musica.
Ma, oste, codesto Ser Proteo di cui si parla
si reca spesso da questa gentildonna?
OSTE
Vi dico quel che il suo uomo, Lanciotto, ha detto a me: lui l’ama a dismisura.
GIULIA
Dov’è Lanciotto?
OSTE
È andato in cerca del suo cane, che domani, per ordine del padrone, dovrà portare in dono alla signora.
GIULIA
Zitto! Fatevi da parte: la compagnia si scioglie.
PROTEO
Ser Turione, non temete: perorerò così bene
da farvi dire che l’astuta mia trama è impareggiabile.
TURIONE
Dove ci ritroviamo?
PROTEO
Al Pozzo di San Gregorio.
TURIONE
Addio.
[Escono Turione e i Musici]
[Entra Silvia, al balcone]
PROTEO
Buonasera a Vossignoria, madonna.
SILVIA
Grazie della serenata, signori.
Chi era a parlare?
PROTEO
Uno, signora, che se ne conosceste il cuore puro e fedele,
imparereste subito a riconoscere dalla voce.
SILVIA
Volete dire Ser Proteo.
PROTEO
Ser Proteo, nobile dama: al vostro servizio.
SILVIA
Il vostro desiderio?
PROTEO
Che il mio coincida col vostro.
SILVIA
Sarete soddisfatto: il mio desiderio è sempre lo stesso,
che ve ne torniate difilato a casa e a letto.
O uomo astuto, spergiuro, mendace, sleale,
tu mi pensi così sciocca e sprovveduta
da esser sedotta dalle tue lusinghe?
Tu che giurando ne hai ingannate tante?
Torna, sì, torna in patria a fare ammenda alla tua donna.
Quanto a me – lo giuro su questa pallida regina della notte –
son così lungi dall’accordarti ciò che desideri
che ti disprezzo per la tua colpevole corte;
e per cominciare me la prendo con me stessa
per tutto il tempo sprecato a parlare con te.
PROTEO
Lo ammetto, dolce amore, ho amato un’altra donna:
ma è morta.
GIULIA [a parte]
Sarebbe falso, se fossi io a dirlo:
sono ben sicura che non è sepolta.
SILVIA
Quand’anche fosse, il tuo amico Valentino
è sempre in vita; e a lui – ne sei tu stesso testimone –
io son promessa. E non hai vergogna
di fargli torto con la tua insistenza?
PROTEO
Ma ho anche sentito che Valentino è morto.
SILVIA
E allora immagina che sia morta anch’io: nella sua tomba,
puoi starne certo, è sepolto anche il mio amore.
PROTEO
Dolce madonna, lasciatemelo strappare alla terra.
SILVIA
Corri alla tomba della donna amata, e strappale il suo.
O quantomeno seppellisci in essa il tuo.
GIULIA [a parte]
Da quell’orecchio non ci sente.
PROTEO
Madonna, se tanto indurito è il vostro cuore,
concedete all’amor mio almeno il vostro ritratto,
il quadro appeso nella vostra stanza:
ad esso io parlerò, ad esso andran pianti e sospiri.
Se la sostanza della vostra mirabile persona
è votata ad altri, io non son che il simulacro d’un amante,
e al vostro simulacro farò dono verace del mio amore.
GIULIA [a parte]
Se fosse sostanza, certo la tradiresti
per farne il simulacro che son io.
SILVIA
Son quanto mai riluttante a farvi da idolo, signore;
ma poiché alla vostra falsità bene si addice
riverir simulacri e adorare fantasmi,
domattina mandatemi qualcuno, e ve lo farò avere.
E ora, buonanotte.
PROTEO
Sì, la notte dei poveri condannati
che attendon l’esecuzione mattutina.
[Escono Proteo e Silvia]
GIULIA
Oste, volete venire?
OSTE
O santi numi! Dormivo della grossa.
GIULIA
Di grazia, dove abita Ser Proteo?
OSTE
Diavolo, a casa mia. Ma guarda! dev’esser quasi giorno.
GIULIA
Non ancora, ma è stata la notte più lunga
da me trascorsa in veglia, e la più tormentosa. [Escono]
ATTO QUARTO – SCENA TERZA
Entra Aglamoro.
AGLAMORO
È questa l’ora che Madama Silvia
m’indicò, per farle visita e appurarne gl’intenti.
Avrà da darmi qualche grossa incombenza.
Madonna, madonna!
[Entra Silvia, in alto]
SILVIA
Chi chiama?
AGLAMORO
Il servo vostro, e vostro amico:
e sempre agli ordini di Vossignoria.
SILVIA
Ser Aglamoro, mille volte buongiorno.
AGLAMORO
O nobile signora, altrettante a voi.
Secondo le istruzioni di Vossignoria
sono venuto così di buon’ora per sapere a quale servizio
il vostro piacere ambisce a destinarmi.
SILVIA
O Aglamoro, tu sei un gentiluomo –
non credere lo dica per adularti, ti giuro, non è così –
ardito, savio, compassionevole, compìto.
Tu non ignori qual profondo affetto
io porti all’esiliato Valentino;
né che mio padre vorrebbe forzarmi a sposare
il vanesio Turione, ch’io aborro dal profondo dell’anima.
Tu stesso hai amato, e ti ho anche udito dire
che mai dolore ti è giunto dritto al cuore
quanto la morte della dama che tanto amavi,
sulla cui tomba giurasti eterna castità.
Ser Aglamoro, vorrei andar da Valentino
a Mantova, ove mi han detto che dimora;
e poiché le strade son piene di pericoli
vorrei che mi facessi degnamente compagnia:
del tuo onore e della tua fedeltà posso fidarmi.
Non farti schermo dell’ira di mio padre, Aglamoro,
ma pensa al mio dolore, al dolore d’una donna,
al buon diritto che ho di fuggir via
per salvarmi da una di quelle unioni disgraziate,
che cielo e sorte da sempre ripagano con mille guai.
Io ti scongiuro – e lo faccio con cuore
pieno di angustie, come il mare di sabbia –
di farmi da cavaliere e partire con me.
Se no, di tacere su quanto t’ho confidato,
così da poter rischiare di partire da sola.
AGLAMORO
Madonna, assai mi dolgo delle vostre pene,
e poiché so che hanno un virtuoso oggetto
acconsento ad accompagnarvi,
senza far conto delle conseguenze:
tanto mi sta a cuore la vostra buona fortuna.
Quando intendete partire?
SILVIA
Stasera stessa.
AGLAMORO
Dove potrò incontrarvi?
SILVIA
Alla cella di Fra’ Patrizio,
dove farò la santa confessione.
AGLAMORO
Non deluderò Vossignoria. Buongiorno, nobile dama.
SILVIA
Buongiorno, Ser Aglamor cortese. Escono.
ATTO QUARTO – SCENA QUARTA
Entra Lanciotto [con il cane.]
LANCIOTTO
Quando un servo si comporta da cane col padrone – dico bene? – son grane: uno che mi son tirato su sin da cucciolo, uno che ho salvato dall’annegare quando tre o quattro dei suoi fratellini e sorelline, ancora ciechi, fecero quella fine. L’ho ammaestrato proprio a regola d’arte, come si suol dire: “Così andrebbe ammaestrato un cane”. Mi hanno mandato a consegnarlo in dono a Madonna Silvia, da parte del mio padrone: e manco arrivo nella sala da pranzo che lui salta sul vassoio di lei e le fa fuori la coscia di cappone. Oh, gran brutta rogna quando un figlio di cane non sa ben comportarsi in società! Io vorrei avere, tanto per dire, uno che si accolli la responsabilità di fare il cane per davvero, di essere, insomma, cane in tutto e per tutto. Se non avessi avuto più cervello di lui, ad addossare a me stesso le sue malefatte, credo davvero che me l’avrebbero impiccato. Com’è vero che sono vivo, gliel’avrebbero fatta pagare. Giudicate voi stessi: mi s’intrufola in compagnia di tre o quattro cani di razza superiore sotto la tavola del Duca. Non ci rimane, con licenza parlando, il tempo d’una pisciata, che tutta la sala lo sentiva all’odore. “Fuori quel cane!” dice uno. “Che razza di bastardo è quello?” dice un altro. “Cacciatelo via a frustate!” dice il terzo. “Impiccatelo!” dice il Duca. Io, che quell’odoraccio lo conosco bene, sapevo che era Cànchero, e allora corro da quello che frusta i cani. “Amico”, gli faccio, “hai mica in mente di frustarlo, il cane?”. “Sì, perdiana”, fa lui. “Gli fate un grave torto”, faccio io, “son stato io a far quella cosa”. Lui non sta a far cerimonie, ma mi caccia dalla stanza a frustate. Quanti padroni farebbero ciò per un loro servo? Eh sì, ve lo giuro, sono stato messo ai ferri per le salsicce che aveva rubato lui, altrimenti me lo giustiziavano. Sono stato messo alla gogna per delle oche che aveva ucciso lui, altrimenti gliel’avrebbero fatta pagare. Adesso tu a questo non ci pensi. Ma sì, mi ricordo lo scherzo che mi combinasti quando mi congedai da Madonna Silvia. Non te l’avevo detto di tenermi d’occhio, e fare come facevo io? Quando mai mi hai visto alzare la gamba e far pipì sul guardinfante d’una gentildonna? Mi hai mai visto fare uno scherzo del genere?
[Entrano Proteo e Giulia travestita]
PROTEO
Ti chiami Sebastiano? Mi vai a fagiolo,
e ti darò pronto impiego in qualche servizio.
GIULIA
Ai vostri comandi: farò del mio meglio.
PROTEO
Lo spero. [A Lanciotto] E allora, tanghero, figlio di puttana!
dove sei stato a vagabondare questi due giorni?
LANCIOTTO
Diamine, signore, ho portato il cane a Madonna Silvia, come m’avete ordinato.
PROTEO
E lei che dice di quel piccolo tesoro?
LANCIOTTO
Diavolo, dice che quel vostro cane è una bestiaccia, e vi manda a dire che per un tal presente vi ringrazia ringhiando.
PROTEO
Ma il cane se l’è tenuto?
LANCIOTTO
No, in verità, non se l’è tenuto. Eccolo qui, l’ho riportato indietro.
PROTEO
Cosa? Le hai portato questo da parte mia?
LANCIOTTO
Sì, signore. L’altro, quella specie di scoiattolo, me l’han rubato al mercato quei ragazzacci scavezzacolli; e allora le ho offerto il mio, di cane, che è grande quanto dieci dei vostri, e perciò è un dono tanto più grande.
PROTEO
Filatene di qui e ritrova il mio cane,
o non far più ritorno al mio cospetto.
Fuori, ti dico! Che aspetti, di farmi andare in bestia?
[Esce Lanciotto]
Un manigoldo, che mi fa fare eterne figuracce!
Sebastiano, t’ho assunto al mio servizio
un po’ perché ho bisogno d’un giovane come te,
che sappia con discrezione attendere ai miei affari
(c’è poco da fidarsi di quello scriteriato),
ma soprattutto per le tue fattezze e il tuo contegno
che – se l’istinto non m’inganna –
dicon che sei ricco, bene educato e leale.
Sappi pertanto che proprio per questo ti prendo con me.
Va’ senza indugio, prendi con te quest’anello,
consegnalo a Madonna Silvia…
Mi amava molto, chi me ne fece dono.
GIULIA
Si direbbe che non l’amavate, se date via il suo pegno.
È forse morta?
PROTEO
No, credo che sia viva.
GIULIA
Ahimè!
PROTEO
Perché gridi “Ahimè”?
GIULIA
Non posso far altro
che compiangerla.
PROTEO
E perché dovresti compiangerla?
GIULIA
Perché mi pare che lei doveva amarvi
quanto voi amate la vostra dama, Silvia.
Ella sogna di un uomo dimentico del suo amore,
voi vi struggete per una donna che ha in spregio il vostro.
È un guaio che quest’amore sia un tal bastian contrario,
e se ci penso mi vien da dire “Ahimè!”.
PROTEO
Bene, dalle l’anello e, giacché ci sei,
questa lettera. Quella è la sua stanza. Dite alla mia dama
che le ricordo la promessa di quel ritratto celestiale.
A missione compiuta, torna in camera mia,
e là mi troverai, triste e solitario. [Esce]
GIULIA
Quante donne si accollerebbero una tale ambasciata?
Ahimè, povero Proteo, tu hai arruolato
una volpe, a far la guardia ai tuoi agnellini.
Ahimè, povera sciocca, perché mi muovo a pietà di colui
che mi disprezza dal profondo del cuore?
Poiché lui ama lei, di me lui non si cura,
e poiché io amo lui, devo averne pietà!
Questo è l’anello che gli affidai nel separarmi da lui,
per vincolarlo alla memoria del mio affetto;
e ora son io, infelice messaggero,
a invocare ciò che mai vorrei ottenere,
a portare ciò che vorrei veder respinto,
a lodare una fede che vorrei screditare.
Io sono il vero amore del mio padrone, a lui consacrata,
ma non posso essere il suo fedele servitore,
a costo di essergli infedele, tradendo me stessa.
Corteggerò per lui, ma lo sa il cielo
che farà fiasco: ché io sarò di gelo.
[Entra Silvia]
Gentildonna, buongiorno. Vi prego, siatemi d’aiuto:
portatemi a parlare con Madonna Silvia.
SILVIA
Che avreste mai da dirle, foss’io colei?
GIULIA
Se foste voi, vi chiederei, con pazienza,
di ascoltare il messaggio di cui sono latore.
SILVIA
Da parte di chi?
GIULIA
Del mio padrone Ser Proteo, madonna.
SILVIA
Ah, t’ha mandato a prendere il ritratto.
GIULIA
Sì, signora.
SILVIA
Orsola, portami il ritratto.
Va’, consegnalo al tuo padrone. Digli, da parte mia,
che una tal Giulia, obliata dai suoi volubili pensieri,
meglio si converrebbe alla sua stanza di questa mia parvenza.
GIULIA
Signora, vi prego, leggete questa missiva…
Oh, chiedo venia, signora: per distrazione
vi ho consegnato il foglio sbagliato.
Questa è la lettera per Vossignoria.
SILVIA
Ti prego, fammi dare un’occhiata anche a quell’altra.
GIULIA
Meglio di no, signora. Vogliate scusarmi.
SILVIA
Ecco, tieni!
Non li voglio vedere, gli scritti del padron vostro.
So che sono farciti di invocazioni
e lardellati di giuramenti di nuovo conio, che infrangerà
con la facilità con cui gli strappo la sua lettera.
[Strappa la lettera]
GIULIA
Signora, egli vi manda quest’anello.
SILVIA
A sua maggior vergogna se lo manda a me,
poiché gli ho udito dire mille volte
che glielo dette Giulia, alla partenza.
E se il suo dito infedele ha profanato l’anello
Il mio non farà un tal torto alla sua Giulia.
GIULIA
Ed ella ve ne ringrazia.
SILVIA
Che hai detto?
GIULIA
Vi ringrazio, madonna, di preoccuparvi di lei.
Povera gentildonna! Il mio padrone le fa gran torto.
SILVIA
La conosci?
GIULIA
Quasi quanto me stesso.
Quando penso alle sue pene, posso giurarvi
che ho pianto cento e più di cento volte.
SILVIA
Forse lei crede che Proteo l’abbia lasciata.
GIULIA
Credo di sì; ed è questa la causa del suo dolore.
SILVIA
Non è donna di eccezionale bellezza?
GIULIA
È stata più bella, signora, che non sia ora.
Quando credeva che il mio padrone l’amasse davvero
ella era, a mio giudizio, bella quanto voi.
Ma da allora ella ha messo da parte lo specchio
e gettato il velo che la proteggeva dal sole
sì che l’aria ha avvizzito le rose delle sue gote
e illividito il candore di giglio del suo volto,
il quale adesso si è oscurato, ed è come il mio.
SILVIA
È alta?
GIULIA
Più o meno quanto me. Tant’è vero che a Pentecoste –
tempo di recite e liete mascherate –
i nostri giovani mi fecero impersonare una donna
e fui abbigliato nella gonna di Madonna Giulia:
la quale, a detta di tutti, mi stava a pennello,
quasi che l’indumento l’avessero fatto su misura.
Per questo so che è alta quanto me.
E in quell’occasione la feci piangere sul serio,
visto che recitavo una parte assai commovente.
Signora, si trattava di Arianna, in preda alla passione
pel tradimento di Teseo e la sua fuga crudele;
ed io recitai con tale slancio e tante lacrime
che la mia povera padrona, commossa com’era,
ne pianse amaramente; e vorrei esser morto
se non provai, intimamente, la sua stessa pena.
SILVIA
Dovrebbe esserti grata, paggio cortese.
Ah, la povera signora, sola e abbandonata!
Viene anche a me da piangere, se penso alle tue parole.
A te, bel giovane: eccoti la mia borsa. Te ne faccio dono
in onore della tua padrona, giacché le vuoi tanto bene.
Addio. [Esce]
GIULIA
Ella ve ne ringrazierà, se mai la conoscerete.
Una gentildonna virtuosa, bella e gentile.
La corte che le fa il mio padrone la lascerà, spero, fredda,
tale è il rispetto ch’ella nutre per la mia padrona.
Ahi, come l’amore sa illudere se stesso!
Ecco il suo ritratto: guardiamolo da vicino. Io credo
che, con la sua pettinatura, questo mio volto
apparirebbe in tutto e per tutto leggiadro quanto il suo:
eppure il pittore l’ha un tantino abbellita
sempre che non sia io a lusingare me stessa.
I suoi capelli sono fulvi, i miei di un biondo perfetto.
Se tutta qui è la differenza, per il suo amore,
dovrò portare una parrucca di quel colore.
I suoi occhi sono cerulei come il vetro, e così i miei;
vero, ma la sua fronte è bassa, la mia alta.
Ma cos’è mai che lui può ammirare in lei
e ch’io non possa fargli ammirare in me,
se questo folle Amore non fosse una divinità cieca?
Vieni, o parvenza, vieni a confrontarti con quest’altra parvenza:
è lei la tua rivale. Oh, tu forma insensibile,
tu sarai venerata, baciata, amata, adorata!
E se ci fosse un senso nella di lui idolatria
la mia sostanza sarebbe l’idolo, e non tu.
Ti tratterò bene, per riguardo alla tua padrona
che così mi ha trattato; non fosse stato così, giuro, per Giove,
ti strapperei questi occhi senza vista
pur di strapparti dal cuore al mio signore. Esce.
I due gentiluomini di Verona
(“The two Gentlemen of Verona” 1590 – 1595)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V