I due gentiluomini di Verona – Atto II

“The two Gentlemen of Verona” 1590 – 1595)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

I due gentiluomini di Verona - Atto II

ATTO SECONDO – SCENA PRIMA

Entrano Valentino [e] Svelto.

SVELTO

Signore, il vostro guanto.

VALENTINO

Ne ho già due: mio non è.

SVELTO

Allora è vostro: non c’è due senza tre.

VALENTINO

Ehi, fa’ vedere! Ma certo, m’appartiene:

da creatura divina esso proviene.

Ah, Silvia, Silvia!

SVELTO

Madonna Silvia! Madonna Silviaaa!

VALENTINO

Che ti prende, gaglioffo?

SVELTO

Non è a portata di voce, signore.

VALENTINO

Dico, messere, chi vi ha detto di chiamarla?

SVELTO

Voi, Vostro Onore – se non vi ho frainteso.

VALENTINO

Siamo alle solite: sei sempre troppo svelto.

SVELTO

L’ultima volta mi avete dato del posapiano.

VALENTINO

Ma va’ là! Dimmi, conosci Madonna Silvia?

SVELTO

La donna amata da Vostro Onore?

VALENTINO

E come sai che sono innamorato?

SVELTO

Perbacco! Da questi segni particolari: primo, avete imparato, tale e quale Ser Proteo, a starvene a braccia conserte come un ipocondriaco; ad abbandonarvi a canti d’amore come un pettirosso; a camminare solo soletto come un appestato; ad ansimare come uno scolaretto che si è perso l’abbecedario; a lacrimare come una ragazzotta appena tornata dal funerale della nonna; a digiunare come se vi foste messo a dieta; a star sul chi vive come chi teme d’essere rapinato; a snocciolar piagnistei come un mendico ad Ognissanti. Un tempo il vostro riso faceva pensare al “chicchiricchì” di un gallo; quando camminavate, avevate l’incedere d’un leone; se non toccavate cibo, avevate appena finito di pranzare; se avevate un’aria mesta, era solo per mancanza di quattrini. E adesso, per via di un’incantatrice, vi siete talmente metamorfosato che, ogni volta che vi guardo, a malapena vi riconosco pel mio padrone.

VALENTINO

Si notano tutte, le cose che mi porto dentro?

SVELTO

Si notano tutte: non dentro, ma fuori.

VALENTINO

Fuori di me? Impossibile!

SVELTO

Fuori di voi? Eccome! Sicuramente, fuori di voi chi altro sarebbe così ingenuo? Nessuno! Ma voi siete così al di fuori di queste follie, che tali follie ve le portate dentro, cosicché si vedono in trasparenza come il liquido in un contenitore d’urina: e chiunque vi osserva è tal quale un dottore che vi diagnostica la malattia.

VALENTINO

Ma dimmi, Madonna Silvia la conosci?

SVELTO

Colei che vi mangiate con gli occhi quando siete a tavola?

VALENTINO

Anche questo hai notato? Proprio lei intendevo.

SVELTO

Allora, signore, non la conosco.

VALENTINO

La riconosci quando me la mangio con gli occhi, e adesso non la conosci?

SVELTO

È tutt’altro che bella, vero, signore?

VALENTINO

Ancor più che bella, ragazzo, è affascinante.

SVELTO

Signore, questo lo so bene.

VALENTINO

Cos’è che sai?

SVELTO

Che tanto bella non è, ma che vi ha affascinato.

VALENTINO

Intendevo dire che la sua beltà è raffinata, ma il suo fascino incomparabile.

SVELTO

Solo perché l’una è dipinta, e l’altro è inestimabile.

VALENTINO

Come sarebbe, “dipinta”? E perché “inestimabile”?

SVELTO

Diamine, signore! Per farsi bella si dipinge tanto che nessun uomo la fa degna di stima.

VALENTINO

È questa la stima che hai di me? Io la stimo e la trovo bella.

SVELTO

Ma non l’avete più vista da che si è deteriorata.

VALENTINO

E da quand’è, che si è deteriorata?

SVELTO

Da quando avete preso ad amarla.

VALENTINO

L’ho amata dal momento che l’ho vista, e ai miei occhi è sempre bella.

SVELTO

Se l’amate, non potete vederla.

VALENTINO

E perché?

SVELTO

Perché l’Amore è cieco. Oh, se voi aveste i miei occhi! O se gli occhi vostri avessero la vista buona d’un tempo, quando facevate la predica a Ser Proteo che andava in giro senza giarrettiere!

VALENTINO

E cosa vedrei allora?

SVELTO

La vostra stessa temporanea follia, e le infinite magagne di lei: visto che lui, innamorato com’era, non aveva occhi per le sue brache slacciate; e voi, innamorato come siete, non sapete nemmeno se ve le siete infilate, le brache.

VALENTINO

Giovanotto, non sarai per caso innamorato anche tu? Ieri mattina non hai visto le scarpe che mi dovevi lustrare.

SVELTO

Vero, signore, ero innamorato: del mio letto. Devo ringraziarvi: per quest’amore mi avete dato la striglia, e questo mi dà l’ardire di rinfacciarvi il vostro.

VALENTINO

Per farla breve, mi fa ribollire il sangue.

SVELTO

Dovreste darvi una calmata, e farvelo sbollire.

VALENTINO

L’altra sera m’ha ingiunto di scriver dei versi per l’uomo che ama.

SVELTO

E voi?

VALENTINO

L’ho fatto.

SVELTO

E non son versi zoppi?

VALENTINO

Per nulla, ragazzo mio: ho fatto del mio meglio. Zitto! Eccola che arriva.

[Entra Silvia]

SVELTO [a parte]

Oh, che burattinata coi fiocchi! Che favolosa marionetta! Adesso sarà lui a farla parlare.

VALENTINO

Mia signora e padrona, mille volte buongiorno.

SVELTO [a parte]

Buonanotte! Ci siamo: un milione di salamelecchi…

SILVIA

Ser Valentino, mio fedelissimo, a voi due volte mille.

SVELTO [a parte]

Gl’interessi li dovrebbe lui a lei, ma qui è tutto all’inverso.

VALENTINO

Poiché me l’avete ingiunto, vi ho scritto la lettera

per quell’innominato vostro amico segreto:

cosa che ho fatto con la più gran riluttanza,

sol perché assai devoto a Vossignoria.

SILVIA

Grazie del cortese servigio: è scritta con mano esperta.

VALENTINO

Credetemi pure, madonna, non è stato facile,

poiché, ignorandone il destinatario,

procedevo a tentoni, tra mille esitazioni.

SILVIA

Forse pensate di aver faticato un po’ troppo?

VALENTINO

No, madonna: pur d’esservi d’aiuto, son pronto a scriverne,

se tale è il piacer vostro, altre mille così.

Eppure…

SILVIA

Sospensione eloquente! Il resto lo indovino,

eppure non ve lo dico, eppure non me ne importa,

eppure riprendetevela, eppure ve ne ringrazio,

eppure intendo non disturbarvi mai più.

SVELTO [a parte]

Eppure lo farete – sia pure con un altro “eppure”.

VALENTINO

Che intendete, mia signora? Non vi è piaciuta?

SILVIA

Sì, sì: i versi son scritti con briosa eleganza,

ma a malincuore: e allora fate meglio a riprenderveli.

Suvvia, riprendeteli.

VALENTINO

Madonna, sono per voi.

SILVIA

Certo, certo: li avete scritti a mia richiesta, signore,

ma non li voglio più. Teneteli per voi.

Avreste dovuto comporli con più sentimento.

VALENTINO

Sol che vi aggradi, signora, ve ne scriverò altri.

SILVIA

Dopodiché, per amor mio, rileggeteli,

e se vi piaceranno, bene; e se no, tanto peggio.

VALENTINO

E se mi piaceranno, madonna, cos’accadrà?

SILVIA

Ne avrete tratto piacere: è questo il premio di tali fatiche.

E così, buona giornata, mio cavalier servente. Esce.

SVELTO

O scherzo impercettibile, invisibile e arcano!

Banderuola sulla torre, naso su volto umano!

Il padrone la corteggia, lei insegna al corteggiatore –

lui, l’allievo di lei! – a farle il precettore.

Quale miglior trovata, qual sublime invenzione

far scrivere a se stesso lo scriba mio padrone!

VALENTINO

Ehi tu, messere: di che vai ragionando?

SVELTO

Ma no, stavo rimando; siete voi a sragionare.

VALENTINO

E perché dovrei?

SVELTO

Per far da portavoce a Madonna Silvia.

VALENTINO

E per conto di chi?

SVELTO

Di voi stesso. Insomma, lei vi corteggia in codice.

VALENTINO

Ma quale codice?

SVELTO

Dovrei dire, per lettera.

VALENTINO

Andiamo! Mica mi ha scritto.

SVELTO

E perché dovrebbe, dal momento che vi ha indotto a scrivervi da voi stesso? Ma come, non vi accorgete dello scherzo?

VALENTINO

No, credimi.

SVELTO

Roba da non crederci. E voi credevate che facesse sul serio? Eppure vi ha dato l’imbeccata.

VALENTINO

Non mi ha dato un bel nulla: solamente un rabbuffo.

SVELTO

Ma se vi ha dato una lettera!

VALENTINO

Quella l’ho scritta io per il suo amico.

SVELTO

Ed è giunta a destinazione: tutto qui.

VALENTINO

E se ci fosse sotto qualcos’altro?

SVELTO

Ve lo garantisco, tanto meglio così.

Le avete scritto spesso, ma lei, tra il suo riserbo

e il poco tempo libero, non vi ha risposto verbo.

E così, non fidandosi del tramite di un messo,

a scrivere all’amata portò l’amante stesso.

Vi parlo come un libro stampato perché tutto questo l’ho trovato su di un libro stampato. Cosa state a rimuginare, signore? È ora di cena.

VALENTINO

Ho già cenato.

SVELTO

Sì, ma datemi ascolto, signore: Amore, come il camaleonte, può vivere d’aria, ma io son uno che per vivere ha bisogno di mangiare, e avrei una gran voglia di metter qualcosa sotto i denti. Oh, non siate come la vostra bella: lasciatevi commuovere – e datevi una mossa. Escono.

ATTO SECONDO – SCENA SECONDA

Entrano Proteo [e] Giulia.

PROTEO

Fatti coraggio, gentile Giulia.

GIULIA

Dovrò per forza, se non c’è rimedio.

PROTEO

Appena posso, farò ritorno.

GIULIA

Se resterete mio, tornerete anche prima.

Serba questo ricordo, per amor della tua Giulia.

[Gli dà un anello]

PROTEO

Quand’è così, facciamo cambio: ecco, prendete il mio.

[Le dà un anello]

GIULIA

E dello scambio un bacio sia sacro suggello.

PROTEO

A te la mano, a pegno di fedeltà costante;

e se nell’arco d’un giorno mi sfuggirà un’ora sola

senza ch’io, o Giulia, sospiri per te,

che un’ora dopo qualche brutta sventura

venga a punirmi d’aver obliato il mio amore.

Mio padre è lì che aspetta. No, non dirmi nulla.

Siamo all’alta marea – no, non la marea delle tue lacrime:

tale marea mi fa indugiare oltre il lecito. [Esce Giulia]

Addio, Giulia. Cosa? Mi lasci senza dirmi nulla?

Ma sì: la fedeltà d’amor tacer si vuole.

Nobili azioni esige, e non parole.

[Entra Pantino]

PANTINO

Ser Proteo, vi stanno aspettando.

PROTEO

Vengo subito, andate!

Ahimè, il congedo ci rende muti, a noi poveri amanti.

Escono.

ATTO SECONDO – SCENA TERZA

Entra Lanciotto [col suo cane Cànchero].

LANCIOTTO

Ma sì, mi ci vorrà un’ora buona, per smetterla di piangere – tutta la razza dei Lanciotti ha questo difettaccio. Io ne ho ereditato la mia parte, come il figliol prodigio, e ora sto per accompagnare Ser Proteo alla corte imperiale. Credo che il mio Cànchero sia il cane più carogna di questo mondo. Mia madre giù a piangere, mio padre a far lagne, mia sorella a frignare, la fantesca a ululare, la gatta a contorcersi, e tutta la casa nella più gran fermentazione, e con tutto questo ‘sto cagnaccio crudele manco una lacrima ha versato! È un cuore di selce, un sasso nato e sputato, assolutamente spietato: che gran figlio di cane! Pure un ebreo avrebbe pianto, nel vederci partire. Diavolo, persino mia nonna – che già era cieca, notate bene – si è fatta accecare dalle lacrime alla mia partenza. Insomma, adesso vi faccio vedere. Diciamo che questa scarpa è mio padre. Anzi, quest’altra, la sinistra, è mio padre. No, no, la scarpa sinistra è mia madre. No, manco questo va bene. Ma sì, è così, proprio così: la più scalcagnata. Questa scarpa, col suo bravo buco, è mia madre, quest’altra mio padre. Accidenti a loro, stavolta ci siamo. Ora, signori, questa bacchetta è mia sorella: difatti – notate bene – è bianca come un giglio e secca come uno stecco. Questo cappello è Annetta, la serva, e io sono il cane. Voglio dire, il cane è lui, e io sono il cane. Che dico? Il cane sono me, e io sono me stesso. Sì, certo, è così. A questo punto io vado da mio padre: “Beneditemi, padre”. E la scarpa non riesce a spiccicar parola, e giù a piangere. A questo punto dovrei baciarlo, mio padre: e lui, dàlli a piangere. Allora mi rivolgo a mia madre. Se solo potesse parlare come lei, la vecchia ciabatta! Fa lo stesso: io la bacio. Ecco, ci siamo, tale e quale mia madre: la riconosco all’odore. E ora tocca a mia sorella: sentitela, che lagna! E per tutto il tempo ‘sto cane non versa manco una lacrima, non dice una parola. Guardate me, invece, come innaffio la polvere col mio pianto!

[Entra Pantino]

PANTINO

Via, via, Lanciotto! A bordo! Il tuo padrone si è già imbarcato: dovrai inseguirlo a forza di remi. Ma che ti succede? Che hai da piangere, amico? Muoviti, somaro! Se aspetti ancora un po’, perderai la marea.

LANCIOTTO

Non importa se perdo la marea, giacché è la marea più crudele che mai si porti via un uomo.

PANTINO

Qual è la marea più crudele?

LANCIOTTO

Quella che mi porta via con questo Cànchero d’un cane.

PANTINO

Uffa! Ti ripeto, amico, che perderai la marea, e se perdi la marea perdi anche l’imbarco, e se perdi l’imbarco perdi il padrone, e se perdi il padrone perdi il lavoro, e se perdi il lavoro… Perché mi tappi la bocca?

LANCIOTTO

Perché sennò tu mi perdi la lingua.

PANTINO

E dove me la perdo, la lingua?

LANCIOTTO

In questi discorsi del cànchero.

PANTINO

Senti chi parla di Cànchero!

LANCIOTTO

Perdere la marea, e l’imbarco, e il padrone, e il lavoro, e tenermi ‘sto Cànchero! Accidenti, compare, se l’estuario fosse a secco ce la farei a colmarlo con un mare di lacrime. Se poi calasse il vento, manderei avanti la barca a forza di sospiri.

PANTINO

Su, adesso muoviti, amico. Mi han detto di chiamarti.

LANCIOTTO

Messere, chiamami come ti pare.

PANTINO

Ti decidi o no?

LANCIOTTO

E sia, mi decido. Escono.

ATTO SECONDO – SCENA QUARTA

Entrano Valentino, Silvia, Turione [e] Svelto.

SILVIA

Mio cavaliere…

VALENTINO

Madonna?

SVELTO

Padrone, c’è Ser Turione che vi guarda storto.

VALENTINO

Sì, ragazzo: lo fa per amore.

SVELTO

Non certo per amor vostro.

VALENTINO

Della mia bella, allora.

SVELTO

E voi dovreste dargli una bella legnata.

SILVIA

Mio cavaliere, vi vedo triste.

VALENTINO

E in apparenza lo sono davvero.

TURIONE

Allora sembrate quel che non siete.

VALENTINO

Qualche volta capita.

TURIONE

Capita agli impostori.

VALENTINO

Capita anche a voi.

TURIONE

E cosa sembro, che invece non sono?

VALENTINO

Un uomo saggio.

TURIONE

E cosa prova il contrario?

VALENTINO

La vostra follia.

TURIONE

E da che si nota la mia follia?

VALENTINO

Dal vostro farsetto.

TURIONE

È un farsetto imbottito.

VALENTINO

Appunto: siete imbottito di follia.

TURIONE

Come osate!

SILVIA

Via, Ser Turione! In collera? Mi cambiate colore?

VALENTINO

Dategliene facoltà, madonna: è un po’ un camaleonte.

TURIONE

Più pronto a bere il vostro sangue che a viver della vostra aria.

VALENTINO

Vi prendo in parola, signore.

TURIONE

E fate bene, signore. E per oggi può bastare.

VALENTINO

Lo so bene, signore: finite sempre prima di cominciare.

SILVIA

Gran bella salva di parole, signori; e subito esaurita.

VALENTINO

Proprio così, madonna. E grazie a chi l’ha innescata.

SILVIA

E chi, mio cavaliere?

VALENTINO

Voi stessa, dolce signora: voi avete fatto da esca. Ser Turione prende a prestito la scintilla dalle occhiate di Vossignoria, e com’è giusto restituisce il fuoco in vostra compagnia.

TURIONE

Signore, provate a far fuoco su di me, a botta e risposta, ed io vi ridurrò alla bancarotta.

VALENTINO

Lo so bene, signore, che di parole ne avete un forziere. Ma non avete nient’altro da dare, credo, a chi è al vostro servizio: si direbbe, dalle lor logore livree, che sian ridotti a vivere di logore promesse.

[Entra il Duca di Milano]

SILVIA

Basta così, signori, basta! Viene mio padre.

DUCA

Silvia, figlia mia, questo è un assedio in piena regola!

Ser Valentino, vostro padre è in buona salute.

E che ne direste d’una lettera di vostri amici

piena di buone nuove?

VALENTINO

Mio signore, sarò assai grato

a chi da casa mi porti buone nuove.

DUCA

Il vostro conterraneo Don Antonio, lo conoscete?

VALENTINO

Sì, mio buon signore: è un gentiluomo

assai facoltoso e di tutto riguardo,

e non senza motivo universalmente stimato.

DUCA

Vi risulta abbia un figlio?

VALENTINO

Sì, mio signore, un figlio in tutto meritevole

dell’onore e della stima che circondano il padre.

DUCA

Lo conoscete bene?

VALENTINO

Quanto me stesso: dalla prima infanzia

ci siamo frequentati, da amici inseparabili.

E mentre io ho fatto il perdigiorno,

mancando di far tesoro del mio tempo

per adornare i miei anni di angeliche perfezioni,

Ser Proteo, invece – tale infatti è il suo nome –

ha fatto buon uso e tratto alto profitto dai suoi.

Giovane d’anni e maturo d’esperienza,

di fervido intelletto e sicuro giudizio,

in una parola – e inadeguate ai suoi meriti

son tutte le lodi che gli sto tributando –

egli è perfetto nel corpo e nello spirito,

con tutte le doti che in dote ha un gentiluomo.

DUCA

Diamine, signore! Se è all’altezza di quanto dite,

costui par degno dell’amore d’un’imperatrice,

e ad un imperator d’esser ministro.

Orbene, signore: cotesto gentiluomo è venuto da me

commendato da personaggi d’alto rango,

e qui egli intende restar per qualche tempo.

Penso che queste non sian per voi cattive nuove.

VALENTINO

Se mi restava un desiderio, era proprio questo.

DUCA

Dategli dunque il benvenuto che merita.

Silvia, parlo anche a voi, e a voi, Ser Turione:

Valentino non abbisogna d’altri inviti.

Ve lo manderò qui tra pochi istanti. [Esce]

VALENTINO

È lui il gentiluomo – come narrai a Vossignoria –

che sarebbe venuto con me se la sua bella

non ne avesse incatenato gli sguardi ai suoi occhi di cristallo.

SILVIA

Può darsi che ora li abbia liberati

contro un qualche altro pegno di fedeltà.

VALENTINO

No, son certo che tuttora lei li tiene in ostaggio.

SILVIA

Ma allora sarebbe cieco e, essendo cieco,

com’è riuscito a trovare la strada per venirvi a vedere?

VALENTINO

Andiamo, madonna! L’Amore ha cento occhi.

TURIONE

Però si dice che l’Amore è cieco!

VALENTINO

Ma con soggetti noiosi, oppure ottusi,

caro Turione, lui tiene gli occhi chiusi.

[Entra Proteo]

SILVIA

Su, fatela finita! Ecco il gentiluomo.

VALENTINO

Benvenuto, caro Proteo! Madonna, ve ne prego,

conferite a tal benvenuto un segno di speciale favore.

SILVIA

I suoi meriti sono il pegno del benvenuto che gli diamo,

se è lui la persona di cui sì spesso volevate notizia.

VALENTINO

È lui, madonna. Dolce signora, accogliete anche lui

con me, come vassallo di Vossignoria.

SILVIA

Troppo umile padrona per un sì nobile vassallo.

PROTEO

Al contrario, dolce signora: troppo umile vassallo

per meritare uno sguardo di sì nobile padrona.

VALENTINO

Lasciamo perdere le gare di modestia:

amabile signora, prendetelo a vostro servente.

PROTEO

Potrò vantare la mia devozione, e nient’altro.

SILVIA

A devozione non mancò mai guiderdone.

Servente, la vostra indegna padrona vi dà il benvenuto.

PROTEO

Mi batterò a morte con chiunque dica una cosa simile.

SILVIA

Che siete il benvenuto?

PROTEO

Che voi siete indegna.

[Entra un servo]

SERVO

Madonna, il Duca vostro padre desidera parlarvi.

SILVIA

Ai suoi comandi. Suvvia, Ser Turione,

venite con me. Di nuovo benvenuto, mio novello servente:

vi lascio a conversare delle vostre faccende

e, quando avrete finito, sarò lieta di darvi udienza.

PROTEO

Verremo entrambi a riverire Vossignoria.

[Escono Silvia, Turione, Svelto e il Servo]

VALENTINO

E ora dimmi, come stanno i nostri amici di laggiù?

PROTEO

I tuoi stan bene, e t’inviano i loro omaggi.

VALENTINO

E i tuoi?

PROTEO

Li ho lasciati tutti in buona salute.

VALENTINO

Come sta la tua bella, e come va il vostro amore?

PROTEO

Le mie storie d’amore un tempo le avevi a noia.

Lo so che i discorsi d’amore non ti vanno a genio.

VALENTINO

È vero, Proteo; ma ora la mia vita è cambiata:

ora pago lo scotto del mio dispregio per l’Amore,

i cui alti e imperiosi richiami mi hanno punito

con amari digiuni, gemiti di penitenza,

lacrime notturne e diuturni, strazianti sospiri.

Ché a far vendetta della mia indifferenza all’amore,

Amore ha scacciato il sonno dai miei occhi asserviti,

e li costringe a vegliare sulle pene di questo mio cuore.

Oh, gentil Proteo, Amore è un tiranno possente,

e m’ha così umiliato da farmi confessare

che non esiste dolore più grande d’un suo castigo,

né al mondo gioia più grande dello starlo a servire.

Ora, nessun discorso che d’amor non sia;

ora ci faccio colazione, pranzo e cena, e pur ci dormo,

col nome nudo e crudo dell’Amore.

PROTEO

Basta così: ti leggo la tua sorte negli occhi.

È costei l’idolo che così tu adori?

VALENTINO

Lei in persona: non è creatura celestiale?

PROTEO

No, ma un’impareggiabile visione terrena.

VALENTINO

Proclamala divina!

PROTEO

Non intendo adularla.

VALENTINO

Oh, adula me piuttosto: l’amore ama le lodi.

PROTEO

Quand’ero io il malato, mi davi pillole amare:

devo somministrartene di eguali.

VALENTINO

Allora di’ di lei la verità: se non la fai divina,

contala almeno fra gli angeli del cielo,

a ogni creatura terrena superiore.

PROTEO

Esclusa la mia donna.

VALENTINO

Bello mio, nessuna esclusa:

se non hai da ridir sulla mia amata.

PROTEO

Non ho ragione di preferir la mia?

VALENTINO

Beh, voglio aiutarti ad esaltare anch’ella:

la potremo innalzare all’alto onore

di reggere lo strascico alla mia, sì che alla vile terra

non capiti di carpire un bacio alla sua veste,

e insuperbita da sì gran favore

sdegni di dar ricetto al fiore estivo

e un aspro inverno prolunghi all’infinito.

PROTEO

Via, Valentino, che spacconata è questa!

VALENTINO

Scusami, Proteo: tutto quel che dico è nulla

rispetto a lei; il suo pregio annulla quello d’ogni altra.

Ella è unica e sola.

PROTEO

E tu lasciala sola!

VALENTINO

Per nulla al mondo! Amico mio, ella è mia;

ed io, nel posseder tale gioiello, son ricco

quanto venti mari che abbian perle per sabbia,

nettare per acqua e, per scogli, oro zecchino.

Perdonami se non mi son dato gran pensiero di te:

lo vedi che stravedo pel mio amore.

Il mio sciocco rivale, gradito al di lei padre

sol perché ha un patrimonio così vasto,

se n’è uscito con lei; devo andar loro appresso.

Sai bene che l’amore è geloso all’eccesso.

PROTEO

Ma lei ti ama?

VALENTINO

Certo: siamo promessi, ed anzi l’ora delle nozze

ed i dettagli della nostra fuga

son già decisi: come dovrò scalar la sua finestra

con una scala di corda, e come usare gli altri mezzi

pensati e concertati per farmi felice.

Buon Proteo, vieni con me in camera mia

per aiutarmi coi tuoi consigli nell’impresa.

PROTEO

Va’ avanti tu, che presto ti raggiungo.

Devo correre al molo, a scaricare

quel tanto di corredo che mi occorre,

per poi venire subito da te.

VALENTINO

Saprai sbrigarti?

PROTEO

Ma certo. Esce [Valentino].

Come la fiamma espelle un’altra fiamma

o un chiodo scaccia a forza un altro chiodo,

così del primo amor la rimembranza

da nuovo oggetto è affatto obliterata.

Son gli occhi miei o le lodi di Valentino,

la nobile perfezione di lei o la mia ignobile defezione,

che, sragionando, mi portano a ragionare così?

Costei è assai bella: altrettanto è la Giulia che amo –

o meglio, amavo. Ché ora l’amore mio si sta liquefacendo

e, come immagine di cera accanto al fuoco,

non reca più l’impronta ch’era sua.

Temo che la mia devozione a Valentino si stia freddando,

che più non mi sia caro come un tempo.

Ah, io l’amo, la sua bella, ed anche troppo:

per questo amo lui, ora, tanto poco.

Lei amerò follemente, e con ragione,

se ora senza ragione ho preso ad amarla!

Sinora non ne ho visto che un ritratto,

che di ragione il lume mi ha sottratto;

ma quando le sue grazie avrò adocchiato

non c’è ragion ch’io non ne sia accecato.

Se all’incostanza mi dovrò piegare

ogni mia arte a lei vo’ dedicare. Esce.

ATTO SECONDO – SCENA QUINTA

Entrano Svelto e Lanciotto.

SVELTO

Lanciotto! Sull’onor mio, benvenuto a Milano.

LANCIOTTO

Non spergiurare, bel giovane, ché benvenuto non sono. Son convinto da sempre che un uomo non può dirsi finito finché non lo impiccano, né mai benvenuto prima di aver saldato il conto: soltanto allora ha il benvenuto dell’ostessa.

SVELTO

Andiamo, zuzzurellone: difilato all’osteria. Là, per un conto di cinque soldi, di benvenuti ne avrai cinquemila. Ma di’, compare, com’è che il tuo padrone s’è separato da Madonna Giulia?

LANCIOTTO

Beh, le gran promesse le han scambiate sul serio, e gli addii per celia.

SVELTO

Ma lei lo sposerà?

LANCIOTTO

No.

SVELTO

E allora? Sarà lui a sposare lei?

LANCIOTTO

Nemmeno.

SVELTO

Perché? Si son guastati?

LANCIOTTO

Macché: son tutti e due sani come pesci.

SVELTO

E allora, cos’è questo va e vieni?

LANCIOTTO

Cos’è? Quando lui viene, viene anche lei…

SVELTO

Razza di somaro! Non ti seguo.

LANCIOTTO

Hai la testa di legno e non mi segui! Ma se mi segue anche il mio bastone!

SVELTO

Come dici?

LANCIOTTO

Come faccio, vuoi dire. Guarda: io lo impugno, e lui viene.

SVELTO

È vero, lui viene.

LANCIOTTO

Ebbene, se lui viene, vengo anch’io con lui.

SVELTO

Ma dimmi la verità, si farà il matrimonio?

LANCIOTTO

Chiedilo al cane. Se dice “Sì” si farà, se dice “No” si farà, se scuote la coda e non dice nulla, si farà.

SVELTO

In conclusione, dunque, si farà.

LANCIOTTO

Non mi caverai fuori un tal segreto se non per parabole.

SVELTO

Tanto meglio così. Ma, Lanciotto, come fai a dire che il mio padrone, come corteggiatore, è da tutti stimato?

LANCIOTTO

Da che lo conosco è così.

SVELTO

Vale a dire?

LANCIOTTO

L’hai detto: è da tutti stimato un imbranato.

SVELTO

Ma va’! Gran figlio di puttana, non m’intendi.

LANCIOTTO

Scemo che sei, non te intendevo, ma il tuo padrone.

SVELTO

Ti dico che il mio padrone è innamorato cotto.

LANCIOTTO

E io ti dico che me ne infischio, se lui è cotto o stracotto. Se ti va, vieni con me all’osteria. Se no, sei un ebreo, e un giudeo, e non puoi dirti cristiano.

SVELTO

E perché?

LANCIOTTO

Perché non hai carità bastante a darla a bere a un cristiano. Allora, vieni?

SVELTO

Ai tuoi ordini. Escono.

ATTO SECONDO – SCENA SESTA

Entra Proteo solo.

PROTEO

Lasciare la mia Giulia è da spergiuro.

Amar la bella Silvia è da spergiuro.

Fare torto a un amico è ancor più da spergiuro.

E lo stesso potere che prima m’indusse a giurare

mi provoca a tale triplice spergiuro:

Amore mi fece giurare, Amore mi fa spergiurare.

O Amore, tentatore insinuante, se in questo hai peccato,

trovagli tu una scusa, al suddito tentato!

Dapprima adoravo una tremula stella,

ma ora mi prostro ad un astro solare.

Un uomo sensato fa bene a infrangere un voto insensato:

e peggio per chi non è abbastanza sveglio

da voler trasmutare il peggio in meglio.

Vergogna a te, lingua irriverente, a definire “il peggio”

colei che tanto spesso hai eletto a tua sovrana,

con ventimila giuramenti dal profondo dell’anima.

Non so cessare d’amare, eppure lo faccio,

ma cesso d’amare laddove amare dovrei.

Se perdo Giulia, perdo Valentino;

se li conservo, dovrò perder me stesso;

se poi li perdo, perdendoli ritrovo

non Valentino, ma me stesso, non Giulia, ma Silvia.

A me stesso io son più caro d’un amico:

l’amor di sé resta il valore più prezioso;

e Silvia – lo sa il cielo, che l’ha fatta bella e bionda –

mi oscura Giulia, mi fa di lei una nera Etiope.

Voglio dimenticar che Giulia è viva,

e ricordare che quell’amore è morto,

e Valentino me lo farò nemico

mirando a Silvia, ben più dolce amica.

Ora non posso restar fedele a me stesso

senza tradire in parte Valentino.

Stanotte intende, con una scala di corda,

dar la scalata al verone della sublime Silvia,

con me nel ruolo di complice e rivale.

Avvertirò senza indugio il padre di lei

della fuga che tramano in segreto;

e lui, furente, bandirà Valentino,

poiché a Turione vuol dar la figlia in sposa.

Partito Valentino, senza por tempo in mezzo,

con qualche abile mossa metterò fuori gioco l’ottuso Turione.

Amore, dammi le ali per dar corso al mio intento,

tu che mi hai messo in mente l’idea del tradimento. Esce.

ATTO SECONDO – SCENA SETTIMA

Entrano Giulia e Lucetta.

GIULIA

Consigliami, Lucetta; gentile ancella, assistimi

e, in nome d’un tenero amore, ti scongiuro –

tu che sei la tavoletta su cui tutti i miei pensieri

si posson leggere, incisi con nitida scrittura –

d’istruirmi e suggerirmi un buon mezzo

di farmi mettere in viaggio – fatto salvo l’onore –

per ritrovare il mio diletto Proteo.

LUCETTA

Ahimè, la via è ben lunga e faticosa!

GIULIA

Un pellegrino devoto e sincero non sente la fatica

nel misurare interi reami con piede malfermo.

Molto meno la sente colei che s’invola sulle ali d’Amore,

tanto più se il suo volo la porta verso un essere amato

che ha la divina perfezione d’un Proteo.

LUCETTA

Meglio aspettare che lui faccia ritorno.

GIULIA

Oh, non sai che dei suoi sguardi si nutre l’anima mia?

Abbi pietà dell’astinenza in cui mi son macerata,

tanto a lungo anelando a tal nutrimento.

Se solo tu conoscessi gl’intimi moti dell’amore

preferiresti dar esca al fuoco con la neve

che estinguere a parole dell’amore la fiamma.

LUCETTA

Non tento di estinguere la fiamma ardente del vostro amore,

ma di mitigare gli eccessi del suo furore,

che non divampi da farvi uscir di senno.

GIULIA

Più barriere le opponi, più essa divampa.

La corrente che scivola via con lieve mormorio,

lo sai, se tu l’arresti, turbolenta ribolle;

ma se il suo giusto fluire non viene intralciato

essa trae dolce musica dai ciottoli smaltati,

sfiorando d’un lieve bacio canne e giunchi

ch’essa oltrepassa nel suo peregrinare;

e con molte sinuose anse si perde

come per gioco, nel mare in tumulto.

Perciò lasciami andare, non intralciare il mio corso.

Sarò paziente quanto un quieto ruscello,

e d’ogni stanco passo avrò diletto,

sino a che l’ultimo mi avrà reso al mio amore;

là troverò riposo, dopo tanto penare: come

le anime benedette nell’Eliso.

LUCETTA

Ma in che veste ci andrete?

GIULIA

Non vestita da donna, al fine di evitare

rischiosi approcci di uomini lascivi.

Gentil Lucetta, approntami degli abiti

di foggia adatta a un paggio di buon rango.

LUCETTA

In tal caso Vossignoria dovrà tagliarsi i capelli.

GIULIA

No, mia cara: li intreccerò con fili di seta

con tanti eccentrici nodi d’amore:

un che di stravagante ben si attaglia a un giovane

di età ancor meno acerba della mia.

LUCETTA

Di che modello vorreste poi le brache?

GIULIA

Che è come dire: “Dite, signor cortese,

di che circonferenza il guardinfante?”

Scegli, Lucetta, quel che più ti aggrada.

LUCETTA

Dovrete portarle con tanto di braghetta.

GIULIA

Ma sarà sconveniente, via, Lucetta!

LUCETTA

Le brache a sbuffo non valgono due spilli,

oggi, senza braghetta portaspilli.

GIULIA

Lucetta, se mi vuoi bene, fammi avere

ciò che ti sembra più adatto e decoroso.

Ma, bella mia, che penserà di me la gente

se ora intraprendo gl’incerti di un tal viaggio?

Temo di dare esca alle malelingue.

LUCETTA

Se la pensate così, restate a casa e non partite.

GIULIA

No, questo poi no.

LUCETTA

Allora andate, e non pensate alle malelingue.

Se Proteo approva l’impresa nel vedervi arrivare,

che importano i malumori di chi vi vede partire?

Temo però che lui non sarà proprio entusiasta.

GIULIA

Questo, Lucetta, è l’ultimo dei miei timori.

I mille giuramenti, quel suo mare di lacrime,

ed altre prove di amore sconfinato

son pegno certo del benvenuto di Proteo.

LUCETTA

Son proprio queste le armi dei seduttori.

GIULIA

Di uomini ignobili, se usate a fini ignobili.

Stelle ben più veraci han governato la nascita di Proteo.

La sua parola è impegno solenne, se poi giura è un oracolo,

il suo amore è sincero, i suoi pensieri immacolati,

le sue lacrime sono i messaggi di un cuore puro,

il suo cuore è lontano da inganni quanto la terra dal cielo.

LUCETTA

Pregate il cielo che sia proprio così, una volta da lui.

GIULIA

Ora, se mi vuoi bene, non fargli il torto

di pensar male della sua lealtà.

Meriterai il mio affetto solo se saprai amarlo.

E ora vieni subito con me nella mia stanza

a prender nota di ciò che mi abbisogna

per affrontare il mio pellegrinaggio d’amore.

Potrai disporre di ogni cosa mia –

i miei beni, le mie terre, la mia reputazione –

purché tu in cambio mi aiuti a ben partire.

Su, niente storie, all’opera, e di lena!

Son qui che mi trattengo a malapena. Escono.

I due gentiluomini di Verona
(“The two Gentlemen of Verona” 1590 – 1595)
Introduzione – Riassunto
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Atto II
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Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

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