I due nobili cugini – Atto V

(o “I due nobili congiunti”)

di William Shakespeare e John Fletcher
(“The two noble kinsmen” – 1613)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

I due nobili cugini - Atto V

ATTO QUINTO – SCENA PRIMA

Squilli di tromba. Entrano Teseo, Piritoo, Ippolita e seguito.

TESEO

Ch’entrino adesso, e davanti agli dei

offrano le loro pie preghiere; i templi

ardano splendidi di sacri fuochi, e gli altari

in nubi benedette affidino il rigonfiante incenso

a chi sta sopra noi. Che nulla si tralasci;

hanno una nobile impresa da compiere, che farà onore

alle potenze stesse che hli proteggeranno.

PIRITOO

Eccoli, Sire.

Squilli di cornetta. Entrano Palamone e Arcite e i loro cavalieri.

TESEO

Voi nemici valenti e forti di cuore,

voi nobili germani antagonisti, che oggi venite

ad estinguere quell’affinità che avvampa tra voi,

deponete la rabbia per un’ora e a guisa di colombe

davanti ai sacri altari dei vostri patroni,

gli onnitemuti dei, chinate i vostri corpi caparbi.

La vostra ira è più che mortale; così sia il vostro ausilio,

e poiché gli dei vi guarderanno, combattete lealmente.

Vi lascio alle vostre preghiere, e tra voi

divido equamente i miei auguri.

PIRITOO

La vittoria incoroni il più degno!

Escono Teseo, Piritoo, Ippolita e seguito.

PALAMONE

Già corre la clessidra che non può fermarsi

finché uno di noi sarà spirato. Solo su ciò pensate,

se ci fosse qualcosa in me che volesse rivelarmisi

avversa in questo affare, fosse un occhio

contro l’altro, braccio oppresso da braccio,

distruggerei chi offende, cugino; lo farei,

benché parte di me stesso. Perciò comprendete

come mi comporterò con voi.

ARCITE

Io sto lottando

per scacciare il vostro nome, l’antico affetto, la nostra parentela,

dalla mia coscienza, e al suo posto

installare qualcosa da distruggere. Perciò alziamo

le vele, che guideranno questi vascelli fino a dove

il celeste limitatore deciderà.

PALAMONE

Voi parlate bene.

Prima che mi volti, lascia che t’abbracci, cugino;

S’abbracciano.

È l’ultimo abbraccio.

ARCITE

L’ultimo addio.

PALAMONE

Già, sia così; addio, cugino.

ARCITE

Addio, signore.

Escono Palamone e i suoi cavalieri.

Cavalieri, congiunti, innamorati – e anche vittime mie!

Veri devoti di Marte, il cui spirito in voi

scaccia il seme della paura, e l’apprensione

che da essa è ancora più remota, venite con me

davanti al dio della nostra vocazione; a lui

chiedete di concedervi il cuore del leone e

il fiato della tigre, e la ferocia pure,

e poi la rapidità – per premere, voglio dire;

e non desiderare di essere lumache. Sapete che il mio premio

sarà strappato dal sangue; forza e grandi imprese

m’incoroneranno della ghirlanda in cui ella risiede

regina dei fiori. La nostra supplica, perciò,

va fatta a colui che farà del campo una cisterna

colma di sangue umano; datemi il vostro aiuto,

e chinate a lui il vostro spirito.

Si gettano a terra, quindi s’inginocchiano davanti all’altare di Marte.

Tu possente, che col tuo potere hai tinto di porpora

il verde Nettuno, il cui approssimarsi

è annunciato da comete, le cui stragi in vasto campo

son proclamate da teschi insepolti, il cui fiato distrugge

la fertile messe di Cerere, che abbatti

con mano possente da avanzanti nubi di battaglia

le torri squadrate, che insieme fai e distruggi

le cinte di pietra delle città; me tuo pupillo,

ultimo seguace del tuo tamburo, istruisci quest’oggi

nell’arte delle armi, sì che a tua lode

avanzi il mio stendardo e io da te riceva

il titolo di signore della giornata; dammi, grande Marte,

un segno del tuo favore.

Qui si prostrano con la faccia a terra come prima, e si ode un rumore di ferraglia, con un breve tuono come l’irrompere di una battaglia, quindi si alzano tutti e s’inchinano all’altare.

O grande correttore di tempi disordinati,

scuotitore di nazioni corrotte, grande giustiziere

di polverosi e vecchi titoli, che curi col sangue

la terra che s’ammala, e purifichi il mondo

dall’eccesso di gente; ricevo

i tuoi segnali come auspici, e nel tuo nome

verso il mio intento m’avvio rinfrancato. Andiamo.

Escono Arcite e i suoi cavalieri.

Entrano Palamone e i suoi cavalieri, con lo stesso cerimoniale.

PALAMONE

Le nostre stelle dovranno brillare di nuova luce,

o estinguersi oggi; la contesa è amore,

e se la dea di esso lo concede, lei ci darà

anche la vittoria. Unite perciò il vostro animo al mio,

voi la cui generosa nobiltà vi fa sposare la mia causa

a rischio della vita; alla dea Venere

affidiamo la nostra impresa, e il suo soccorso

imploriamo per la nostra fazione.

Qui si buttano a terra, quindi s’inginocchiano come prima all’altare di Venere.

Salve, maestosa regina dei segreti, che hai il potere

di distogliere il più crudele tiranno dalla sua rabbia

e farlo piangere davanti a una fanciulla; che con la forza

d’una sola occhiata fai tacere il tamburo di Marte

e riduci gli allarmi in bisbigli; tu che puoi

far brandire la gruccia a un paralitico, e sanarlo

prima di Apollo; che puoi costringere un re

a farsi vassallo d’un suo suddito, e indurre

vecchi decrepiti a ballare; lo spelacchiato scapolo

che in gioventù, come i ragazzini saltanti sui falò,

ha evitato le tue scottature, tu l’acchiappi a settanta,

e, a dispetto della sua raucedine, gli fai

stonare giovanili canzoni d’amore. Quale divinità

non subisce il tuo potere? A Febo tu

aggiungi fiamme più calde delle sue; i fuochi del cielo

bruciarono il suo figlio mortale, e il tuo lui; la cacciatrice

tutta umida e fredda, si dice cominciasse a buttar via

il suo arco e sospirare. Concedi il tuo favore

a me, tuo devoto soldato, che porta il tuo giogo

come un serto di rose, anche se è più pesante

del piombo e punge più delle ortiche.

Non ho mai imprecato contro la tua legge;

né rivelato un segreto, perché non ne conosco; né lo farei

se conoscessi tutti quelli che esistono; mai approfittai

della moglie d’un altro, né lessi le calunnie

di spiriti libertini; mai alle grandi feste

cercai d’imbarazzare una bella donna, anzi arrossii

per quei signorini che ci provavano; son stato duro

con gli sbruffoni, e gli ho chiesto con furia

se avessero delle madri – io l’avevo, una donna,

e donne erano quelle che umiliavano. Conoscevo un uomo

di ottanta inverni – questo gli raccontai – che

sposò una ragazza di quattordici. Fu il tuo potere

a metter vita nella polvere; il crampo della vecchiaia

gli aveva messo un piede fuori posto,

la gotta gli aveva saldato le dita in nodi,

atroci spasmi dall’orbite sporgenti

avevan quasi spinto fuori i globi, sì che quanto di vita

era in lui sembrava tormento. Questo scheletro

ebbe dalla sua tenera bella un maschietto, ed io

fui sicuro ch’era suo, perché lei giurava che lo era,

e chi non dovrebbe crederle? Insomma io, con

quelli che parlano di ciò che han fatto, non m’accompagno;

quelli che si vantano e non han fatto nulla, il disprezzo;

quelli che vorrebbero ma non han fortuna, il conforto.

No, io non amo chi divulga segreti intrighi

in modo malizioso, né chi rivela cose da tacere

in linguaggio osceno; così io sono,

e giuro che innamorato mai sospirò

più sincero di me. Perciò, tenerissima, dolce dea,

concedi a me la vittoria di questa contesa, che

sarà giusta ricompensa all’amore schietto, e benedicimi

con un segno del tuo alto favore.

A questo punto si sente della musica e si vedono svolazzare colombe. Essi si buttano di nuovo bocconi, quindi s’inginocchiano.

O tu che dagli undici ai novanta regni nel cuore umano,

cui il mondo intero è un parco per la caccia

e noi a branchi la tua preda, ti ringrazio

di questo bel segnale, che, impresso

nel mio puro, fedele cuore, fa fiducioso

il mio corpo a questa impresa. Alziamoci

e inchiniamoci alla dea. S’inchinano.

L’ora s’avvicina.

Escono Palamone e i suoi cavalieri.

Musica dolce di flauti. Entra Emilia in bianco, i capelli sciolti sulle spalle e una corona di spighe; una in bianco le regge lo strascico, i capelli ornati di fiori, una le va davanti portando una cerbiatta d’argento piena d’incenso e essenze profumate, che, deposte sull altare di Diana, e le damigelle alquanto ritiratesi, Emilia accende. Quindi s’inchinano e s’inginocchiano.

EMILIA

O sacra, sfuggente, fredda, e costante regina,

schiva dei bagordi, silente contemplativa,

dolce, solitaria, bianca quanto casta, e pura

come neve mossa dal vento, che alle ninfe del seguito

concedi appena il sangue del rossore,

che è la tunica del loro ordine; io, tua sacerdotessa,

qui mi prostro al tuo altare. Oh, degnati

col tuo leggiadro occhio verde, che mai finora

contemplò oggetto impuro, di guardare la tua vergine;

e, sacra argentea signora, presta il tuo orecchio –

che mai udì termini scurrili, e la cui soglia

mai oltrepassò suono volgare – alla mia supplica

pregna di sacro timore. Qui si conclude

il mio ufficio vestale; son vestita da sposa,

ma il cuore è verginale; ho un marito assegnato,

ma non lo conosco. Di due dovrei

sceglierne uno, e pregare per la sua vittoria, ma io

sono senza colpa di scelta. Se dei miei occhi

dovessi perderne uno, a me son cari entrambi,

non potrei condannarne uno; quello che morisse

non subirebbe sentenza. Perciò, regina modestissima,

quello dei due pretendenti che mi ama di più

e ne ha il diritto più vero, fa che lui

mi tolga la bionda ghirlanda; concedi altrimenti

che nel grado e dignità da me tenute sinora

fra le devote tue, io possa continuare.

Qui la cerbiatta svanisce sotto l’altare, e al suo posto s’innalza un arbusto con sopra una rosa.

Vedete cosa la nostra reggitrice di riflussi e flussi

dalle viscere del suo sacro altare

con miracolo espone: una rosa soltanto!

Se son bene ispirata, questo scontro distrurrà

entrambi i prodi cavalieri, ed io dovrò crescere

sola, non colta, un fiore verginale.

Qui si sente un improvviso stridere di strumenti, e la rosa cade dall’arbusto.

Il fiore è caduto, l’arbusto discende! O signora,

tu qui mi congedi; io sarò colta;

così interpreto, ma non conosco la tua volontà;

schiudi il tuo mistero. – Spero che sia contenta;

i segni erano di favore. S’inchinano ed escono.

ATTO QUINTO – SCENA SECONDA

Entrano il Dottore, il Carceriere, e il Corteggiatore travestito da Palamone.

DOTTORE

Il consiglio che vi ho dato le ha giovato in qualche modo?

CORTEGGIATORE

Moltissimo. Le ragazze che le fecero visita

l’han quasi convinta che io sia Palamone;

una mezz’ora fa venne da me sorridendo,

e mi chiese cosa desideravo mangiare, e quando volevo baciarla.

Le dissi, subito, e la baciai due volte.

DOTTORE

Ben fatto; venti volte sarebbe stato molto meglio,

poiché la cura sta intieramente in questo.

CORTEGGIATORE

Quindi mi disse

che veglierà con me stanotte, perché sapeva bene

a che ora mi prenderà la crisi.

DOTTORE

Che lo faccia,

e quando vi prenderà la crisi, datele quel che serve, e subito.

CORTEGGIATORE

Voleva che cantassi.

DOTTORE

Lo faceste?

CORTEGGIATORE

No.

DOTTORE

Molto male, allora;

Dovreste assecondarla in ogni cosa.

CORTEGGIATORE

Ahimè,

che io non ho voce, signore, per accontentarla in quello.

DOTTORE

Non ha importanza, basta che facciate rumore.

Se ve lo chiede ancora, fate qualsiasi cosa;

giacete con lei se ve lo chiede.

CARCERIERE

Ma dottore!

DOTTORE

Sì, viene come cura.

CARCERIERE

Ma prima, col vostro permesso,

viene l’onore.

DOTTORE

Questo è solo un cavillo.

Mai rovinare una figliola per onore;

prima curatela così, poi se vorrà essere onorata,

la strada sarà aperta avanti a lei.

CARCERIERE

Grazie, dottore.

DOTTORE

Prego portatela dentro e vediamo come sta.

CARCERIERE

Sì, e le dirò che il suo Palamone l’aspetta.

Però, dottore, la vostra idea non mi convince ancora. Esce.

DOTTORE

Andate, andate.

Voi padri siete dei begli illusi! Il suo onore?

Se dovessimo curarla fino a trovare quello…

CORTEGGIATORE

Sicché, voi pensate che non sia onorata, signore?

DOTTORE

Quanti anni ha?

CORTEGGIATORE

Diciotto.

DOTTORE

Potrebbe esserlo…

Ma non ha importanza, non serve al nostro scopo.

Checché ne dica il padre, se v’accorgerete

che il suo umore inclina al modo che dicevo,

videlicet, carnalmente… mi seguite?

CORTEGGIATORE

Fin qui perfettamente, signore.

DOTTORE

Soddisfate il suo appetito,

senza esitazioni; la curerà ipso facto

dell’umor malinconico che l’affligge.

CORTEGGIATORE

La penso come voi, dottore.

Entrano il Carceriere, la Figlia del Carceriere e la sua inserviente.

DOTTORE

Vedrete che è così. Eccola; prego assecondatela.

CARCERIERE

Venite, il vostro amore Palamone vi aspetta, figliola,

è qui da più di un’ora, per farvi visita.

FIGLIA

Lo ringrazio per la sua gentile pazienza;

è un gentiluomo compìto, e gli sono molto obbligata.

Vedeste mai il cavallo che mi donò?

CARCERIERE

Sì.

FIGLIA

Vi piace?

CARCERIERE

È bellissimo.

FIGLIA

Lo vedeste mai ballare?

CARCERIERE

No.

FIGLIA

Io sì, spesso.

Balla molto bene, molto graziosamente,

e la giga, poi, sia coda mozza o intera che lo sfidi,

lui ve la gira lì, come una trottola.

CARCERIERE

Davvero straordinario.

FIGLIA

La moresca la danza a venti miglia all’ora,

roba da azzoppare anche il miglior cavai di legno,

se ci capisco qualcosa, di tutta la parrocchia;

e galoppa anche sull’aria di “Amor leggero”.

Che ne pensate di questo cavallo?

CARCERIERE

Con queste qualità,

penso si potrebbe farlo giocare a tennis.

FIGLIA

Uh, roba da niente.

CARCERIERE

Sa anche scrivere e leggere?

FIGLIA

Bellissima calligrafia, e tiene da sé i conti

del suo fieno e foraggio; lo stalliere

dovrà alzarsi presto per imbrogliarlo. Avete presente

la cavalla saura del Duca?

CARCERIERE

Certamente.

FIGLIA

È perdutamente innamorata di lui, povera bestia,

ma lui è come il padrone, scontroso e sdegnoso.

CARCERIERE

Che dote ha lei?

FIGLIA

Un duecento covoni,

più venti staia d’avena; ma lui non la vuole.

Fischia quando nitrisce, capace di allettare

la cavalla di un mugnaio. Sarà per lei la morte.

DOTTORE

Che roba tira fuori!

CARCERIERE

Fate la riverenza, ecco il vostro innamorato.

CORTEGGIATORE [si fa avanti]

Tesoro,

come state? Che brava; che riverenza!

FIGLIA

Vostra da comandare onestamente.

Quanto dista la fine della terra, miei signori?

DOTTORE

Bah, una giornata di viaggio, ragazza.

FIGLIA [al Corteggiatore]

Ci venite con me?

CORTEGGIATORE

Per farci che, ragazza?

FIGLIA

Andiamo, per giocare a palla-sgabello.

Che altro c’è da fare?

CORTEGGIATORE

Son ben disposto,

se lì celebriamo il nostro matrimonio.

FIGLIA

Giusto;

perché lì vi assicuro, troveremo

un prete cieco per lo scopo, che s’arrischierà

a sposarci, perché qui son cavillosi e rompono.

E poi, mio padre sarà impiccato domani,

e questo guasterebbe l’affare.

Non siete Palamone voi?

CORTEGGIATORE

Non mi riconoscete?

FIGLIA

Sì, ma a voi non importa di me; io non ho nulla

oltre a questa povera gonnella e due sottane grosse.

CORTEGGIATORE

Non fa niente; io vi prendo lo stesso.

FIGLIA

Lo farete davvero?

CORTEGGIATORE

Sì, per questa bella mano lo farò.

FIGLIA

Andremo a letto allora.

CORTEGGIATORE

Appena lo vorrete. [La bacia]

FIGLIA

O signore, voi ci vorreste restare appeso.

CORTEGGIATORE

Perché strofinate via il mio bacio?

FIGLIA

È fragrante,

e mi profumerà come si deve per il matrimonio.

Non è questo vostro cugino Arcite?

DOTTORE

Sì, dolcezza,

e son contento che mio cugino Palamone

ha fatto una così bella scelta.

FIGLIA

Pensate che mi prenderà?

DOTTORE

Sì, senza dubbio.

FIGLIA

Lo pensate anche voi?

CARCERIERE

Sì.

FIGLIA

Avremo molti bambini. – Buon Dio, come siete cresciuto!

Il mio Palamone spero cresca pure, bene,

ora ch’è in libertà. Ahimè, povero polletto,

l’hanno tenuto giù con cattivo mangiare e scomodo alloggio;

ma io lo bacerò finché crescerà di nuovo.

Entra un Messaggero.

MESSAGGERO

Che fate voi qui? Perderete il più nobile spettacolo

che si vide mai.

CARCERIERE

Sono in campo?

MESSAGGERO

Sì.

E a voi spetta anche un compito là.

CARCERIERE

Ci vado subito.

Devo proprio lasciarvi ora.

DOTTORE

Ma no, veniamo con voi.

Non voglio perdermi lo scontro.

CARCERIERE

Come l’avete trovata?

DOTTORE

V’assicuro che entro tre o quattro giorni

l’avrò ristabilita. [Al Corteggiatore] Non allontanatevi da lei,

ma continuate a trattarla a questo modo.

CORTEGGIATORE

Così farò.

DOTTORE

Portiamola dentro.

CORTEGGIATORE

Venite, tesoro, andiamo a cena,

e poi giocheremo a carte.

FIGLIA

E ci baceremo anche?

CORTEGGIATORE

Cento volte.

FIGLIA

– E poi ancora venti.

CORTEGGIATORE

Sì, e venti ancora.

FIGLIA

E poi dormiremo insieme.

DOTTORE

Accettate l’offerta.

CORTEGGIATORE

Sì, perbacco, lo faremo.

FIGLIA

Però non mi farete male.

CORTEGGIATORE

No, tesoro.

FIGLIA

Se lo farete, amore, io piangerò. Escono.

ATTO QUINTO – SCENA TERZA

Squilli di tromba. Entrano Teseo, Ippolita, Emilia, Piritoo, e alcuni al seguito.

EMILIA

Non avanzerò oltre.

PIRITOO

Vi perderete lo spettacolo?

EMILIA

Uno scricciolo che insegue una mosca sarebbe per me

migliore vista di questa ordalia. Ogni colpo che cade

mette a rischio una nobile vita; ogni stoccata lamenta

il luogo su cui s’abbatte, e suona più come

un rintocco che una lama. Resterò qui.

Mi basta che l’orecchio sia punito

per ciò che accade, contro il quale non c’è rimedio

per non ascoltare; senza che l’occhio sia offeso

da spettacoli orrendi che può evitare.

PIRITOO

Sire, mio buon signore,

vostra cognata non vuol venire oltre.

TESEO

Invece deve;

perché vedrà quelle azioni eroiche dal vero

che talvolta si mostrano dipinte. La natura adesso

sarà autrice e attrice della fiaba, la prova

sigillata da occhio e orecchio. [A Emilia] Dovete esser presente;

siete la ricompensa al vincitore, il premio e la ghirlanda

che incorona il titolo disputato.

EMILIA

Perdonatemi;

se fossi là, non potrei guardare.

TESEO

Ma dovete esser là;

questa ordalia è come si tenesse nella notte, e voi

la sola stella a brillare.

EMILIA

Sono una stella spenta.

C’è solo infamia nella luce che li mostrerà

l’uno all’altro; l’oscurità, che sempre fu

la madre del terrore, che è maledetta

da molti milioni di mortali, potrebbe ancora adesso,

gettando il suo mantello nero sopra entrambi,

impedendo loro di trovarsi, riguadagnare

in parte il suo buon nome, e tanti omicidi

compensare di cui s’è macchiata.

IPPOLITA

Dovete andare.

EMILIA

In verità, non posso.

TESEO

Ma i cavalieri s’accenderanno

di valore vedendovi; ben sapete che di questa guerra

voi siete il bottino, e dovete esser presente

per compensare lo sforzo.

EMILIA

Signore, scusatemi;

il titolo ad un regno può esser disputato

fuori di esso.

TESEO

D’accordo, d’accordo, allora, come volete.

Chi resta con voi potrà augurare questo servizio

al suo nemico.

IPPOLITA

Addio, sorella;

avviene che io conoscerò vostro marito prima di voi stessa

per un piccolo vantaggio di tempo. Chi dei due gli dei

sanno essere il migliore, io li pregherò

che vi venga dato in sorte.

Escono tutti eccetto Emilia e il suo seguito.

EMILIA

Arcite ha il viso dolce, ma il suo occhio

è come una catapulta piegata o una lama tagliente

in un fodero soffice; pietà e coraggio virile

son compagni di letto sul suo volto. Palamone

ha un’espressione molto minacciosa; la fronte

è corrugata, e sembra il cimitero dei suoi crucci.

Ma non sempre è così, a volte muta in accordo

con l’umore dei suoi pensieri; a lungo l’occhio

gli rimane sull’oggetto. La malinconia

gli si confà nobilmente; come ad Arcite l’allegria,

ma la tristezza di Palamone è una forma d’allegria,

confusa in modo come se l’allegria lo facesse triste,

e la tristezza allegro. Quei mesti umori

che ad altri stanno così male, in lui

sono a casa loro.

Cornette. Suonano le trombe come per un assalto.

Senti come quegli speroni del coraggio incitano

i principi alla prova! Arcite potrebbe vincermi,

ma Palamone potrebbe anche ferire Arcite tanto

da sfigurarne l’aspetto. Oh, dove trovare lacrime

abbastanza se tale fosse l’esito? S’io fossi presente,

potrei far danno, perché lancerebbero sguardi

verso il mio posto, e in quell’attimo potrebbero

mancare una parata o perdere un attacco

che aspettava giusto quell’istante. È molto meglio

ch’io non sia là – Oh, meglio non essere mai nata,

che essere la causa di tanta sventura!

Trombe. Clamori e trambusto all’interno con grida “Urrah Palamone!”. Entra un servitore.

Chi ha la meglio?

SERVITORE

Il grido è “Urrah Palamone!”.

EMILIA

Allora è lui in vantaggio. Era da aspettarselo;

aveva l’aria elegante del successo, ed è

senza dubbio il migliore degli uomini. Ti prego corri

e riportami cosa succede.

Grida e trombe, urla “Urrah Palamone!”.

SERVITORE

Sempre Palamone.

EMILIA

Corri a informarti. Esce il Servitore.

Povero innamorato, tu hai perduto!

Alla mia destra sempre portavo il tuo ritratto,

quello di Palamone alla sinistra – perché, non so,

non ne avevo motivo; solo il caso così volle.

Sul lato sinistro il cuore resta; a Palamone

toccò in sorte l’augurio migliore.

Altro clamore, e grida all’interno, e trombe.

Questo clamore di grida

è sicuramente la fine dello scontro.

Entra il Servitore.

SERVITORE

Dicono che Palamone avesse spinto Arcite

a meno d’un pollice dall’obelisco, sicché il grido

fu generale “Urrah Palamone!” Ma poi

i compagni fecero una riscossa coraggiosa, e

i due sfidanti in quest’istante sono

a pari vantaggio.

EMILIA

Oh se si fondessero

entrambi in uno solo! Oh, no, non ci sarebbe donna

degna d’un uomo così composto; le qualità d’ognuno,

la nobiltà particolare di costoro, danno da sole

il senso di svantaggio, il valore minore,

ad ogni donna vivente…

Trombe. Grida all’interno “Arcite, Arcite!”.

Ancora esultanza?

È sempre “Palamone”?

SERVITORE

No, ora il grido è “Arcite”.

EMILIA

Ti prego fa’ attenzione a che si grida;

usa entrambe le orecchie a questo scopo.

Trombe. Un grande clamore e grida “Arcite, vittoria!”.

SERVITORE

Il grido è

“Arcite” e “Vittoria!” Ascoltate, “Arcite, Vittoria!”.

Si proclama la fine del combattimento

dagli strumenti a fiato.

EMILIA

Anche i guerci vedevano

che Arcite non era un bambinello – bontà di Dio, la ricchezza

e sontuosità di spirito irradiava da lui; non poteva

star più nascosta del fuoco nella stoppa,

o di quanto bassi argini possano contenere acque

che venti tempestosi costringono ad alzarsi. Intuivo

che il buon Palamone avrebbe fallito, ma non sapevo

perché così pensassi; la ragione in noi non è profeta

mentre spesso lo è la fantasia.

Trombe.

Stanno uscendo.

Ahimè, povero Palamone!

Entrano Teseo, Ippolita, Piritoo, Arcite vincitore, e seguito.

TESEO

Ecco, dove nostra sorella sta in attesa,

ancora tremante e in ansia! – Bellissima Emilia,

gli dei per divino arbitraggio

vi han dato questo cavaliere; è un valoroso

quant’altri mai menassero un fendente. Datemi le mani.

Voi ricevete lei, voi lui; siate promessi

di un amore che cresce mentre voi invecchiate.

ARCITE

Emilia,

per acquistare voi ho perso ciò che a me è più caro

tranne l’acquisto, eppure compro a buon prezzo,

rispetto a quanto vi stimo.

TESEO

O amata sorella,

egli parla ora di un cavaliere valoroso

quant’altri mai spronasse un nobile destriero; gli dei

vollero certo che morisse scapolo perché i suoi figli

non apparissero troppo simili a loro! La sua condotta

m’incantò talmente che avrei detto l’Alcide

rispetto a lui un pezzo di piombo. Se potessi lodarne

ogni parte come l’insieme che ho descritto, il vostro Arcite

non ci perderebbe; poiché chi era valente a questo modo

trovò tuttavia chi lo superasse. Ho sentito

due emule filoméle percuotere l’orecchio della notte

con rivali gorgheggi, ora più in alto l’una,

ora quell’altra, poi la prima di nuovo,

e quindi superata, sì che l’udito

non poteva decidere tra loro; così durò

per molto tempo tra questi cugini, finché gli dei

decretarono a fatica un vincitore. – Cingete con gioia

la corona che avete conquistato. – Agli sconfitti,

dategli la nostra giustizia prontamente, poiché so

che la vita li tormenta e basta; si faccia qui.

Non è scena per noi; andiamocene via,

gioiosi giustamente, e un po’ afflitti. [Ad Arcite] Offrite il braccio al vostro trofeo;

so bene che non ve la lascerete sfuggire.

Arcite prende Emilia sotto braccio. Fanfara.

Ippolita,

vedo uno dei vostri occhi concepire una lacrima

che ora partorirà.

EMILIA

Questa è vittoria?

O tutte voi potestà celesti, dov’è la vostra misericordia?

Se non aveste decretato che così dev’essere,

e ordinato a me di vivere per confortare quest’orbo,

questo principe diseredato, che taglia alla sua pianta

una vita che vale più di tutte le donne,

ora dovrei, e vorrei, morire anch’io.

IPPOLITA

Infinita pena

che quattro tali occhi si fissino su d’una

sì che due per essa debban esser cecati.

TESEO

Così è purtroppo.

Escono.

ATTO QUINTO – SCENA QUARTA

Entrano Palamone e i suoi cavalieri legati, con il Carceriere, un boia, e un picchetto di soldati.

PALAMONE

C’è più d’un uomo a questo mondo che è sopravvissuto

all’amore degli altri; già, e nello stesso stato

v’è più d’un padre rispetto al figlio; qualche conforto

abbiamo considerando ciò. Noi spiriamo,

ma non senza la pietà altrui; di continuare la vita

il loro augurio ci accompagna. Ed evitiamo

la detestabile miseria della vecchiaia, aggiriamo

la gotta e il catarro, che in ore tarde tendono

agguati ai grigi viandanti; veniamo al cospetto degli dei

giovani e non sfioriti, non curvi sotto cumuli

di colpe non espiate; che certo si compiaceranno gli dei

piuttosto che a cotali, dividere il loro nettare con noi,

poiché noi siamo spiriti più chiari. Cari congiunti miei,

che deponete la vita davanti a questo povero conforto,

per troppo, troppo poco l’avete perduta.

PRIMO CAVALIERE

Quale fine sarebbe

di maggiore conforto? Su di noi i vincitori hanno

solo la fortuna, il cui favore è temporaneo

quanto per noi la morte è sicura; d’un granello d’onore

non ci superano in peso.

SECONDO CAVALIERE

Diciamoci addio,

e con la rassegnazione irritiamo la vacillante fortuna,

che pure quand’è più salda, ondeggia.

TERZO CAVALIERE

Orsù, chi va per primo?

PALAMONE

Sia quello che vi condusse a questo banchetto

a dar l’assaggio per tutti voi. [Al Carceriere] Aha, amico mio, amico mio,

la vostra gentil figliola mi dette la libertà una volta;

a voi adesso di darmela per sempre. Prego, come sta?

Sentii che non stava bene; il tipo di malanno

mi dette dispiacere.

CARCERIERE

Signore, s’è ben ripresa,

e andrà a nozze presto.

PALAMONE

Per la mia breve vita,

ne sono assai felice; è la cosa ultimissima

a rendermi felice. Ti prego diglielo;

raccomandami a lei, e a completarne la dote

consegnale questo. Dà al Carceriere la borsa.

PRIMO CAVALIERE

Su, facciamoci tutti donatori.

SECONDO CAVALIERE

È una fanciulla intatta?

PALAMONE

In verità lo credo;

un’ottima creatura, per me più meritevole

di quanto possa compensarla o lodarla.

TUTTI E TRE I CAVALIERI

Raccomandateci a lei.

Offrono le borse.

CARCERIERE

Gli dei vi ricompensino tutti, e rendano lei grata.

PALAMONE

Addio; e fa’ che la mia vita sia ora breve

quanto il mio commiato.

PRIMO CAVALIERE

Precedici, coraggioso cugino.

SECONDO CAVALIERE

Noi ti seguiremo di buon animo.

Palamone si aggiusta sul ceppo. Grande trambusto all’interno con grida “Correte! Salvateli! Fermate!” Entra di corsa un Messaggero.

MESSAGGERO

Ferma, ferma, oh ferma, ferma, ferma!

Entra Piritoo in furia.

PIRITOO

Fermo, là! Maledetta la furia che ci avete messo

se avete fatto così presto. Nobile Palamone,

gli dei mostreranno la loro gloria in una vita

che avete ancora da vivere.

PALAMONE

Come può essere, dopo che

ho detto che Venere è falsa? Che succede?

PIRITOO

Alzatevi, buon signore, e prestate orecchio a notizie

che sono al primo udirle dolci e amare.

PALAMONE

Cosa

ci ha risvegliati dal nostro sogno?

PIRITOO

Ascoltate dunque.

Vostro cugino, montando un destriero che Emilia

gli aveva donato, un nero, senza neppure

un pelo che sia bianco, cosa che secondo alcuni

ne svilisce il prezzo, e molti non comprerebbero,

malgrado la razza, per via del colore – superstizione che

qui trova fondamento – su questo cavallo dunque, Arcite

trotta sui lastrici di Atene, che i rampini

contavano, più che – calpestare, perché il cavallo

farebbe un miglio al balzo se il cavaliere volesse

dargli sprone. Mentre così andava contando

la strada di silice, danzando, come fosse, alla musica

che facevano i suoi zoccoli – poiché, si dice, dal ferro

ebbe origine la musica – ecco che da una pietra maligna,

fredda come il vecchio Saturno e come lui pregna

di malevolo fuoco, dardeggiò una scintilla,

o altro zolfo ardente, se a questo scopo preparato,

non saprei dire; il focoso cavallo, focoso come il fuoco,

prese spavento a ciò, e cadde in quella confusione

che la forza può dare all’istinto – balza, s’impenna,

dimentica le regole, ricevute ed esercitate

nel paziente maneggio; come il maiale uggiola

al pungente sperone che lo irrita invece

d’ammansirlo neppure un tratto; prova ogni trucco sleale

dei cavallacci ribelli e rozzi per disarcionare

il suo signore, che resta forte in sella. Quando nulla servì,

ché il morso non s’incrinava, la cinghia spezzava, né gli svariati salti

smuovevano il cavaliere da dove era piantato, e lo

teneva saldo tra le gambe, ecco che sugli zoccoli di dietro

dritto s’impenna,

sì che le gambe d’Arcite, stando al di sopra del capo,

sembrarono sospese per arte magica; la sua corona di vittoria

proprio allora gli cadde dalla testa; e subito

la bestiaccia si rovescia, e tutto il suo bruto peso

diventa il carico del cavaliere. È vivo ancora;

ma è la barchetta che galleggia appena, aspettando

l’ultimo cavallone che la schianti. Desidera molto

di parlarvi. Guardate, arriva.

Entrano Teseo, Ippolita, Emilia, e Arcite trasportato su di una sedia.

PALAMONE

O fine miserabile della nostra parentela!

Gli dei sono potenti. Arcite, se il tuo cuore,

il tuo nobile, coraggioso cuore, non è ancora spezzato,

dammi le tue ultime parole. Io sono Palamone,

che pur ti ama mentre muori.

ARCITE

Prendi Emilia,

e con lei tutta la felicità del mondo; dammi la mano.

Addio; ho contato il mio ultimo rintocco. Non fui fedele,

ma mai cedetti al tradimento; perdonami, cugino.

Un bacio dalla bella Emilia… Ella lo bacia.

È finita.

Prendila; io muoio. Muore.

PALAMONE

La tua anima generosa trovi l’Elisio!

EMILIA

Chiudo io i tuoi occhi, principe; anime elette siano con te!

Tu sei davvero un grande uomo, e finché vivrò

questo giorno dedicherò alle lacrime.

PALAMONE

Ed io all’onore.

TESEO

In questo luogo combatteste la prima volta; proprio qui

io vi divisi. Rimettete agli dei

i vostri ringraziamenti poiché siete vivo.

La sua parte è finita, e benché troppo breve

la recitò egregiamente; la vostra giornata s’allunga,

e la felice rugiada del cielo v’arrosa.

La possente Venere ha bene adornato il suo altare,

e concesso a voi il vostro amore; Marte, nostro padrone,

non ha smentito il suo oracolo, ché ad Arcite concesse

il favore della vittoria; così le divinità

han mostrato equa giustizia. Portate via il corpo.

PALAMONE

O cugino,

perché dovemmo desiderare cose che ci costano

la perdita del nostro desiderio! Perché nulla poté comprare

un amore prezioso se non la perdita di un amore prezioso!

TESEO

Mai la fortuna

giocò partita più astuta: il vinto trionfa,

il vincitore subisce il danno; eppure nella prova

gli dei sono stati al massimo imparziali. Palamone,

vostro cugino ha ammesso che il diritto alla signora

spettava a voi, poiché voi la vedeste per primo, e

subito proclamaste la vostra inclinazione; egli la restituì

come un gioiello a voi rubato, e volle che il vostro animo

lo congedasse perdonato. Gli dei la mia giustizia

mi tolgono di mano, ed essi stessi se ne fanno

gli esecutori. Conducete via la vostra signora;

e fate scendere i vostri compagni dal patibolo,

che io adotto come amici miei. Un giorno o due

mostriamoci tristi e facciamo onore

al funerale di Arcite, alla fine del quale

del viso di sposi ci vestiremo

per sorridere con Palamone; per il quale un’ora,

già, solo un’ora fa, ero tanto afflitto

com’ero felice per Arcite, e sono ora felice

come per l’altro afflitto. O voi celesti incantatori,

quali trastulli siamo noi per voi! Per quello che ci manca

noi ridiamo; per quello che abbiamo siamo tristi; siamo

sempre fanciulli in qualche modo. Siamo riconoscenti

per quello che è, e smettiamo di disputare con voi

che siete al di sopra del nostro scrutinio. Andiamocene

e diamoci un contegno appropriato al momento.

Squilli di tromba. Escono.

EPILOGO

Vorrei ora chiedervi se vi è piaciuto lo spettacolo,

ma, come succede a noi scolari, mi blocco;

ho la fifarella cruenta. Di grazia, restate ancora un poco,

e lasciate che vi guardi. Nessuno sorride?

Siamo tra i fiaschi, vedo. Allora, chi ha mai

amato una ragazzotta fresca e prosperosa, si faccia vedere…

È strano davvero se non c’è nessuno… e se gli va,

contro coscienza, che fischi, e ci guasti

il mercato. Vedo che non serve a farvi star buoni.

Forza, allora, sfogatevi! Dunque, che dite?

Non mi capite male, però. Io non vi sto provocando.

Non ne abbiamo l’intenzione. Se la fiaba che abbiamo raccontato –

perché fiaba è – vi ha in un certo senso contentato,

perché solo a questo onesto fine ve l’abbiamo proposta,

siamo soddisfatti; e ne avrete senza tardare,

lasciatemi dire, anche di meglio, sì da prolungare

l’antico affetto che ci portate. Noi, attori e suonatori,

restiamo servi vostri attentissimi; e buona notte, miei signori.

Fanfara. Esce.

I due nobili cugini
(“The two noble kinsmen” – 1613)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

PirandelloWeb