Il rapporto problematico tra realtà e rappresentazione sta alla base del nocciolo drammatico de «Il racconto d’inverno». Lo si può affrontare da due diverse prospettive: in primo luogo, come rapporto gerarchico, per cui la realtà deriva dalla rappresentazione che se ne fa: in questo senso riguarda il teatro come mezzo, e rinvia allo sguardo che, convocando e ordinando ciò che mette in scena, “crea” al tempo stesso la realtà.
di Luca Peloso
Università degli Studi dell’Insubria, Varese – Como
“La realtà non è la somma delle impressioni che ci assediano,
ma ciò che è coerente con certe evidenze che ci abbacinano”
Nicolàs Gómez Davila,
In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano, 2009, p. 35.
Il rapporto problematico tra realtà e rappresentazione sta alla base del nocciolo drammatico de Il racconto d’inverno. Lo si può affrontare da due diverse prospettive: in primo luogo, come rapporto gerarchico, per cui la realtà deriva dalla rappresentazione che se ne fa: in questo senso riguarda il teatro come mezzo, e rinvia allo sguardo che, convocando e ordinando ciò che mette in scena, “crea” al tempo stesso la realtà. Seguendo questa traccia si cerca di definire la concezione della realtà nell’autore, e quindi la sua poetica, per così dire “dall’esterno”: è il livello della rappresentazione della realtà. In secondo luogo, tuttavia, essa può essere vista come articolazione, interna alla rappresentazione (quindi alla diegesi), tra ordine degli eventi e ordine della finzione. A questo livello si tratta di capire se gli eventi rappresentati sono accaduti oppure no: siamo al livello della realtà della rappresentazione. Su entrambi i fronti Il racconto d’inverno si offre come materia particolarmente sensibile all’analisi. La nostra ipotesi è che il testo shakespeariano sia concepibile, per questa via, come studio in forma di dramma sul potere dell’immaginazione. Nella prima scena del secondo atto Leonte pronuncia queste parole:
E così son confermato
Nella mia condanna! Il mio sospetto era verità!
Ah, se potessi ancora dubitare! Quanta maledizione
nella mia conferma! Un ragno può trovarsi
nella tazza, e uno può bere, e andarsene,
senza esserne avvelenato (perché il suo sapere
non è infetto); ma se si mostra
l’aborrito ingrediente all’occhio suo, se lo s’informa
di cosa ha bevuto, la gola gli sconquassa, e i fianchi,
il vomito violento. Io ho bevuto e ho visto il ragno.
[II, i, 37-45 ]
Si legga ora quanto scrive Montaigne nel saggio “Della forza dell’immaginazione”:
«Fortis imaginatio generat casum» (una forte immaginazione genera l’evento). Io sono di quelli che sentono moltissimo la forza dell’immaginazione. Tutti ne sono colpiti, ma alcuni ne sono sconvolti. Essa incide su di me tanto da trafiggermi. […] Ci vengono i sudori, tremiamo, impallidiamo e arrossiamo ai sussulti della nostra immaginazione e, riversi tra le coltri, sentiamo il nostro corpo agitarsi sotto la loro spinta, a volte fino a morirne. […] È verosimile che il principale credito che si dà ai miracoli, alle visioni, agli incantesimi e a simili fatti straordinari derivi dalla potenza dell’immaginazione che agisce principalmente sugli animi del popolo, più malleabili.
Si è colpita la loro credulità a tal punto che pensano di vedere quello che non vedono. […] Ma tutto questo può attribuirsi alla stretta congiunzione dello spirito e del corpo, che si comunicano reciprocamente le loro condizioni. Altra cosa è che l’immaginazione agisca talvolta non contro il proprio corpo soltanto, ma contro il corpo di altri. E come un corpo attacca il suo male al proprio vicino, come si vede nella peste, nel vaiolo e nel mal d’occhi, che si trasmettono l’uno all’altro: «Dum spectant oculi laesos, laeduntur et ipsi:/ Multaque corporibus transizione nocent» (mentre guardano degli occhi malati diventano malati anch’essi: e molti mali passano così da un corpo all’altro), allo stesso modo l’immaginazione, violentemente colpita, lancia dardi che possono offendere l’oggetto estraneo.
Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano, 2005, pp. 124-35 (cors. nostro).
Alla luce di questo brano il discorso di Leonte si presta a molti spunti di riflessione. Nel momento in cui Leonte sta parlando la gelosia si è già impadronita delle sue cognizioni e si appresta a guidare i suoi propositi: il suo caso potrebbe figurare tra i tanti raccontati da Montaigne nel saggio di cui abbiamo fornito un estratto. Eppure – anche prescindendo per un attimo dal personaggio-Leonte – non abbiamo a che fare con la semplice trasposizione in forma drammatica di un’idea. Certo, alla base della vicenda c’è l’immaginazione così come la vede il pensatore francese: ma il genio di Shakespeare la trasfigura, la reinventa, ne amplia il raggio d’azione. Le affinità sono evidenti: in entrambi i passaggi si ha che l’immaginazione altera il corpo di chi ne è preda, con conseguenze che escono dalla finzione; entrambi riconoscono una dimensione reattiva e contagiosa dell’immaginazione; entrambi pongono l’accento sulla vicinanza tra immaginazione e malattia, tra l’immaginazione e il male. Ma non mancano le differenze. Se infatti Montaigne sottolinea che la forza dell’immaginazione si scaglia con particolare fervore sugli “animi del popolo”, considerati “più malleabili”, per Shakespeare nessuno ne è immune. E se l’immaginazione, debitamente sollecitata, agisce su chiunque, tanto più nefasto sarà il suo potere su uomini di potere (com’è appunto Leonte, re di Sicilia). Shakespeare si serve dell’intuizione di Montaigne da un lato per estenderne la portata, rendendola così una componente ineludibile della condizione umana, dall’altro per innestarla sulla sua concezione del tragico (i protagonisti delle sue tragedie sono sempre sovrani, principi, nobili o triumviri). Inoltre se in Montaigne gli effetti dell’immaginazione sembrano perlopiù circoscritti al corpo, in Shakespeare l’immaginazione mostra di sapersi scagliare con altrettanta virulenza sulle menti, provocando effetti non meno “visibili”. Insomma, Montaigne sembra propenso a vedere nell’immaginazione una forza che agisce prima di tutto contro il corpo (il mio come di altri), alla stregua di una malattia fisica, ma che come tale non intacca lo spirito nella sua essenza; Shakespeare al contrario dimostra come possa essere anche (ma non necessariamente in alternativa) l’origine della malattia mentale. Cioè della follia.
Se la nostra ipotesi è corretta – Il racconto d’inverno come sede privilegiata per lo studio dei rapporti tra realtà e rappresentazione a partire dalla facoltà immaginativa si tratta dunque di valutare la sua plausibilità esaminando il concreto dispiegarsi del dramma: dai primi atti, profondamente tragici, al quarto, in cui la personificazione del Tempo apre a una convivenza problematica – seppure non ai fini della fruizione – tra piano della realtà e piano dell’immaginazione, oltre che a un vero e proprio trionfo dell’immaginario e dei suoi simboli; fino al quinto atto, il più celebre ed enigmatico, dove il problema della distinzione tra i due piani diventa consustanziale alla lettura stessa. In questa chiave la riflessione sul tema dello statuto (reale o fittizio) della rappresentazione, e quindi della dimensione poietica dell’immaginazione s’intreccia con quella intorno al genere e allo stile: sia che si legga il testo – in chiave potremmo dire hegeliana – come una sorta di fenomenologia dell’immaginazione, per cui il Racconto d’inverno diventerebbe l’itinerario dell’immaginazione in una storia umana particolare, comprendente diverse figure mediante il quale essa, dopo aver insidiato una realtà psichica, infine soppianta l’intera realtà materiale diventando per ciò stesso assoluta (e allora l’ultima scena diventa pura finzione); sia che lo si legga come il romanzo psicologico di Leonte, e allora la scena finale costituisce l’ultima pagina “clinica” di un uomo che fino alla fine non vuol riconoscere ciò che la realtà gli mostra – in entrambi i casi il piano dell’immaginazione è strutturale nel dramma, e concorre alla sua catalogazione. Non è casuale che il passaggio dalla tragedia alla commedia si attui proprio quando cominciamo ad avvertire il sospetto di una netta predominanza della componente immaginativa rispetto a quella “reale”: ed è per questo che, pur essendo il Racconto ascrivibile ai drammi il cui significato nascosto è di natura epistemologica (si occupa non di questioni metafisiche o cosmologiche, ma della capacità umana di conoscere se stessi, gli altri, il mondo), non si può stabilire a priori una sola angolazione da cui guardarlo, una “giusta distanza” da cui guardare l’opera: essa richiede un’attenta e continua messa a fuoco in itinere, che sappia coniugare al tempo stesso il primo piano col campo lungo, in modo da non perdere di vista la varietà di forme, toni e registri nel loro insieme. Ora, in Shakespeare l’intreccio fa leva spesso su opposizioni semplici, come la distinzione tra realtà e sogno (Sogno di una notte di mezza estate), o tra realtà e apparenza (Otello); ne Il racconto d’inverno, anche in ragione della sua doppia natura, non si dà un’alternativa assoluta, per tutti i cinque atti, tra un livello e l’altro: si richiede piuttosto un continuo lavoro di contestualizzazione (in alcuni momenti addirittura scena per scena) e di interrogazione tanto riguardo lo statuto della realtà soggiacente la rappresentazione (che cos’è la realtà per Shakespeare? Cosa significa per lui rappresentarla?), quanto sullo statuto della realtà rappresentata (è realtà o illusione quella che sto vedendo?). Più ancora che in Amleto, nel Racconto d’inverno il rapporto tra realtà e rappresentazione è fondamentale, e rilancia simultaneamente un’indagine di stampo epistemologico (problema del rapporto tra realtà e sua rappresentazione attraverso il “discorso” del teatro), narrativo (realtà della rappresentazione all’interno del dramma), stilistico (problema del realismo). Rivelandosi un testo sorprendentemente denso.
La tragedia della gelosia (atti I-III)
Insomma, che cos’è la gelosia? È uno dei momenti dell’amore,la base dell’amore, lo sfondo dell’amore, la tenebra originarianella quale risplende il raggio dell’amore”
Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, San Paolo, Milano, 2010, p. 478.
Nel tentativo compiuto dalla letteratura di ricreare la realtà, “la cosa più difficile – scrive Walter Siti (Il realismo è l’impossibile, nottetempo, Roma, 2013, p. 17) – è la sua densità: la vita non è la somma di elementi discreti, i livelli di significazione vi si affollano in un tutto continuo”Ecco perché “denso”: ma nel Racconto la ricchezza (numerica e qualitativa) di significati simbolici, dispositivi metalinguistici, registri e tonalità diverse è eccezionale, e dà vita a un oggetto stranamente compatto : crediamo dunque sia in ragione del suo grado di densità che Auden, nelle Lezioni su Shakespeare, possa parlarne come di una rielaborazione del Pericle “più simile alla vita” (W. H. Auden, Lezioni su Shakespeare, Adelphi, Milano, 2006, p. 378). Cominciamo allora ad avvicinarci al testo per cercare di rendere conto di quest’impressione, seguendo le tracce che ci consentono di non deviare dai nostri temi così come si dipanano nel testo.
Il “tradimento” della realtà è al cuore dello scoppio di gelosia di Leonte: egli interpreta male le parole di Ermione, ed è in virtù di questo fraintendimento che si dischiude l’immaginazione del re, nel senso proprio della liberazione di immagini. All’origine di tutto, dunque, le parole (solo dopo vengono i gesti), per giunta sollecitate dallo stesso malcapitato che se ne fa travolgere (a differenza di Otello, qui il protagonista fa tutto da solo): e Shakespeare ha buon gioco nel mettere in bocca a Ermione l’invito, proferito con leggerezza, a non trarre conclusioni da associazioni affrettate: parole che torneranno in mente più volte al lettore, nel corso dei primi tre atti. È solo Ermione, infatti, a ragionare correttamente (almeno prima che faccia il suo ingresso Paolina): sia Polissene che Leonte, con modalità e intensità diverse, tendono a equivocare parole e gesti (Leonte) o a incappare in fallacie di ragionamento (Polissene), mostrando di non sapersi muovere tra una realtà passata, “trasparente” da cui sono decaduti e una attuale, opaca, impastata di parole, che presenta loro insidie da cui non sanno districarsi.
Il tema del dubbio riguardo l’esistenza del mondo, che consegue al tema della corrispondenza tra parole e gesti da una parte, realtà che sottendono dall’altra, presenta notevoli punti di contatto con le istanze familiari all’intelletto scettico: da questo punto di vista il Racconto d’inverno è leggibile come uno svolgimento in chiave drammatica di una traccia che lo scetticismo ha affrontato in sede filosofica (Cfr. Stanley Cavell, Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nel teatro di Shakespeare, Einaudi, Torino, 2004, pp. 225). A noi interessa invece mettere in risalto la fenomenologia del potere che rende schiavo Leonte di una certezza tanto più salda quanto meno si sofferma sul dubbio; un potere che nasce dalla dismisura delle immagini, e conseguentemente dal tentativo di chi ne è soggiogato di renderne conto. Questa impossibilità è evidente sin dal primo monologo del re degno di nota:
Passione, la tua intensità pugnala il cuore.
Tu fai possibile l’impossibile,
sei della natura dei sogni – come può essere? –
Ti associ all’irreale
e consorti col nulla. Perciò è assai credibile
che tu possa associarti a qualsiasi cosa […]
[I, ii, 138-143]
Qui la passione (che altri traduttori rendono con “desiderio”, e che si riferisce alla gelosia sessuale) viene assimilata ai sogni e, significativamente, a ciò che è irreale (unreal); cosicché il corollario sui suoi infiniti esiti possibili – e quindi reali – , unito a quell’esplicito riferimento al “nulla”, diventa una sorta di tentativo linguistico di rendere ciò che la mente di Leonte ha già tentato di effettuare: l’uscita da una realtà materiale da cui non si può far altro che sporgersi – ed è per questo che la si ribalta. L’immaginazione insomma come ciò che sospinge al limite dell’essere, come ciò che può – in virtù della potenza dei demoni che la agitano – sfociare nel nichilismo, evocato dalla serie di “nulla” che Leonte inanella nel suo capo d’accusa, quasi che il riempirsene la bocca potesse scongiurare l’abisso del proprio nulla interiore (la tenebra originaria di cui parla Florenskij), ovvero la possibilità, a priori negata, che davvero di “nulla” si tratti (ma questo Leonte non può farlo, significherebbe negare lo statuto di realtà delle proprie immagini):
Non è niente bisbigliare?
Appoggiarsi guancia a guancia? Sfiorarsi naso a naso?
Baciarsi a labbra aperte? Interrompere
il riso con un sorriso (segno infallibile
di onestà spezzata)? Premersi i piedi?
Imboscarsi negli angoli? Desiderare orologi più rapidi?
Che le ore siano minuti? Che mezzogiorno sia mezzanotte?
E che tutti gli occhi abbian la cataratta, eccetto i loro.
Tranne i loro, così che il delitto non sia visto? È niente questo?
Be’, allora il mondo, e tutto in esso, è nulla,
il cielo che ci copre è nulla, Boemia nulla,
mia moglie è nulla e tutti questi sono nulla,
se questo è nulla.
[I, ii, 284-296]
Da dove nasce questo “nulla” che Leonte ha sostanziato? Cos’è che induce Leonte a scivolare dalla possibilità del dubbio all’incontrovertibilità della certezza nello spazio (tempo) di soli tre versi? Questi passaggi oratori, equivalenti imperfetti di repentini sconvolgimenti dell’interiorità, hanno un corrispettivo metaforico nel simbolo della riproduzione per eccellenza: lo specchio. Esso fa capolino quando per la prima volta Leonte ci palesa la sua gelosia, e nell’elenco dei gesti incriminati compare il “farsi sorrisini studiati come allo specchio” (I, ii, vv. 116-17): dove figura come oggetto quotidiano, banale, banco di prova della seduzione e dell’artificio. Ma è in bocca a Polissene che diventa veicolo di una modalità di concepire il mondo e le relazioni:
la vostra faccia alterata è per me uno specchio
che mi mostra la mia, pure, alterata;
perciò devo essere io la causa di questo cambiamento,
trovandomi così cambiato io stesso.
[I, ii, 381-84]
Polissene qui si rivolge a Camillo, incaricato di avvelenarlo, e si avvale di una logica cui Leonte è negato l’impiego (il processo deduttivo di Polissene parte dall’altro, mentre Leonte, totalmente ego riferito, non vede nell’altro che un congiurato): uno degli artifici con cui Shakespeare mette letteralmente in scena la sua interrogazione dell’identità umana. Che cos’è l’identità, se è l’altro a consegnarmela a partire dalle trasformazioni del suo corpo dinanzi al mio? Il mio volto, afferma
Polissene, non può essere estraneo al cambiamento riscontrato nel tuo, se è nel momento stesso in cui il tuo sguardo si posa su di me che osservo il tuo cambiamento. Qui lo specchio, ben lungi dall’essere uno strumento passivo di rappresentazione di una realtà fissa, diviene metafora plastica di una realtà cangiante, dove l’io è qualcosa di dato ma inafferrabile, essendo il risultato di una trasformazione a partire dal riconoscimento/disconoscimento di sé nell’altro. L’identità in questo senso è una chimera: chi può essere uguale a se stesso, se non può evitare di rappresentarsi nell’altro, a sua volta soggetto e oggetto di rappresentazioni? L’impossibilità di fissare la nostra immagine deriva a sua volta dalla rincorsa verso un’oggettivazione impossibile: eppure dobbiamo riconoscere una parte di noi nell’altro, altrimenti non riscontreremmo alcun cambiamento (affinché ci si accorga che qualcosa si trasforma, si deve aver chiaro che qualcosa permane in ciò che cambia). È per questo che quella di Leonte è una tragedia del riconoscimento: egli non riconosce nulla di se stesso nell’immagine che ne danno gli altri; più che un caso estremo di trasformazione, la sua è una vera e propria conversione: così intensa, così improvvisa da precludere, per l’appunto, ogni trasformazione possibile, e viceversa di garantirsi come unica possibilità di mutamento, un ritorno allo stato precedente (cioè alla realtà). L’io di Leonte prospera nell’irrealtà delle sue stesse creazioni: per questo la sua “riconversione” non può che essere traumatica: da questo punto di vista la morte del figlio Mamillio è necessaria sul piano psicologico prima che narrativo. Shakespeare ci mostra il volto bifronte dell’immaginazione: all’apice della sua onnipotenza, da un lato si abbatte dolosamente su chiunque si trovi sul suo cammino, dall’altro è la scaturigine di una vitalità che rivaleggia con quella dei giovani (di cui l’atto IV sarà la celebrazione). Quella di Leonte è la tragedia di un uomo che solo la morte di un figlio può ridestare: un uomo che si lascia annientare dalla forza delle immagini da lui stesso prodotte, molto deve perdere prima di riconoscere cosa ritrovare.
Pastorale shakespeariana (atto IV)
“Ciò che si può dire manca di realtà.
Esiste e conta soltanto ciò che resta al di qua della parola”
E.M. Cioran, Squartamento, Adelphi, Milano, 2012, p. 157
La cesura è netta: dopo tre atti interamente ambientati in Sicilia, succedutisi secondo una sequenza temporale continua e compatta, ammorbata da un’atmosfera greve (per non dire plumbea, se escludiamo la fine del del terzo atto), il quarto rompe totalmente con le convenzioni precedentemente instaurate, e ci invita apertamente, tramite due operazioni, ad un trapasso. La prima operazione consiste nello squarciare il piano di realtà, facendo entrare in scena un personaggio fittizio, il Tempo, a incarnare personalmente quell’oscuro “mistero metafisico, naturale, precedente l’eternità” (J.L. Borges, Historia de la eternidad, Alianza Editorial, Madrid, 2010, p. 14) che anima e scandisce l’intero racconto, ma non ha volto né materia. È lui, pura creatura dell’immaginazione, l’unico soggetto extra-diegetico del dramma: è lui il solo a presentarsi, ad informare dei sedici anni passati – non senza appellarsi alla pazienza di chi ascolta: eppure anche il Tempo, la cui esistenza nessuno oserebbe negare, la sua realtà essendo tutt’uno coi segni del suo passaggio, non è onnipotente. Ad esempio, non può trasportare ciò che modifica da un luogo all’altro con le sue sole forze: per questo – siamo alla seconda manovra – si rivolge alla nostra immaginazione di spettatori:
lasciando Leonte,
così afflitto dai risultati di gelosie malate
che si rinchiude al mondo, immaginate,
gentili spettatori, ch’io sia adesso
nella bella Boemia, e ricordate
come menzionai un figliolo del re, che col nome
di Florizel ora vi presento; e subito
passo a parlare di Perdita, cresciuta in grazia
adesso, come in ammiratori. Quel che sarà di lei
non voglio profetare; la cronaca del Tempo
sia nota quando accade.
[IV, i, 17-27; cors. nostro]
Come si confà a un momento di transizione, i toni sono mutati: il Personaggio-Coro indulge a un lirismo maestoso e pacato, che stacca vistosamente dal regno umbratile, pieno di furia della prima parte, e apre alla gioiosità della seconda. Da qui in poi si è legittimati a sospendere l’incredulità: l’immaginazione ha smesso di abitare una mente sola, e dopo essere uscita allo scoperto, “esorcizzata” dal Tempo, può distribuirsi equamente e per ciò stesso attenuare la sua forza. Il suo compito ora è di soffiare come una brezza tanto sul palcoscenico quanto sul pubblico: chi non partecipa non ne afferrerà il senso. È il IV atto, dunque, e non il V, il vero complemento dei primi tre (il V ne rappresenterà una sorta di sintesi problematica, “aperta”, impossibile): se là l’immaginazione non era che la fonte di sconvolgimenti, per cui la rappresentazione s’incaricava di tener dietro ai suoi effetti sul piano di realtà, qui diventa principio attivo, senza il quale la rappresentazione stessa resta inerte, priva di luoghi e di forme (dunque di sostanza). Lo ribadisce la scena successiva, in cui Polissene accenna a un pastore (lo stesso che ha sottratto Perdita a una morte certa) arricchitosi “oltre l’immaginazione dei suoi vicini” (beyond the imagination of his neighbours, IV, ii, v. 38). Ma è ad Autolico che spetta la parola definitiva sulla natura del nuovo universo narrativo e la sua differenza rispetto a quello di Leonte: for the red blood reigns in the winter’s pale, canta il furfante, laddove il sovrano lamentava l’eccessiva “temperatura” di gesti e parole (Too hot, too hot!, esclama, colto dalla gelosia, nel primo atto – I, ii, v. 108). E davvero Autolico è l’anti-Leonte: irride la luna, il cui pallore si proietta su ogni azione del folle, mentre l’allegro briccone si proclama “nato sotto Mercurio” (IV, iii, v. 25), figura del movimento; inganna, anziché lasciarsi ingannare; è l’artefice della rappresentazione di cui sembra semplice comprimario, anziché esserne diretto da forze occulte; non si prende sul serio e si adatta alle situazioni, mentre Leonte rimane fermo su di sé (ed è proprio la sua stasi a generare disastri); sprizza contentezza, ed è forse l’unico personaggio del dramma a non darsi pena.
Ed è proprio la pena che manca nella splendida scena IV, il cuore del IV atto, un quadro di abbagliante vitalità e inventività (impossibile non pensare al biblico Cantico dei cantici, cui è accostabile per la gamma dei sentimenti toccati e la varietà delle sue espressioni concrete, agli antipodi della monotonia ossessiva di Leonte). È a questa altezza che viene ripreso il tema della riproduzione della realtà e della metamorfosi del desiderio: ricompare infatti lo specchio (“potrei svenire, penso, se mi vedessi in uno specchio” dice Perdita – IV, iv, vv. 13-14). Il dialogo tra Florizel e Perdita lo sviluppa su un altro piano; e quello che è dapprima una celebrazione del desiderio amoroso, non più delirante come nei primi atti, si tramuta in uno scambio sui rapporti tra arte e natura, scrittura e vita … rappresentazione e realtà. Esso avviene tra Polissene, appena arrivato alla festa in cerca del figlio, e Perdita:
POLISSENE
Pastora –
bella pastora – la canizie nostra bene s’adatta
ai vostri fiori d’inverno.
PERDITA
Signore, quando l’anno declina,
e non è morta ancora l’estate, né è nato
il tremolante inverno, i fiori più belli della stagione
sono i garofani e le violaciocche screziate,
che alcuni chiamano bastarde di natura: ma questo genere
non cresce nel nostro rustico giardino, né io mi curo
di cercarne i virgulti.
POLISSENE
Perché mai, gentile fanciulla,
li trascurate?
PERDITA
Perché ho sentito dire
che, nella loro screziatura, c’è un’arte che rivaleggia
con la grande natura creatrice.
POLISSENE
E sia;
ma non c’è mezzo per migliorare la natura
che da natura non venga: così, sopra quell’arte
che, come voi dite, aggiunge qualcosa alla natura, c’è un’arte
che la natura fa. Vedete, dolce fanciulla, noi sposiamo
un nobile virgulto al più rozzo tronco,
e facciamo concepire una vile corteccia
accoppiandola a un seme più nobile. Questa è un’arte
che corregge la natura – anzi la cambia –
ma quell’arte stessa è natura.
PERDITA
È così.
[IV, iv, 76-98]
Siamo al cuore di un dialogo insieme lirico e filosofico sull’arte, interrotto appena prima che la commedia torni a rubare la scena rimettendo in moto l’azione. Qui è Polissene ad avere l’ultima parola: non si dà arte che sia in grado di sfidare la natura, perché anche laddove l’arte “aggiunga alla natura”, lo fa in virtù di ciò che la natura ha già disposto – i mezzi dell’arte essendo parte della natura stessa. È una concezione che soggiace all’intera produzione shakespeariana: nessun proposito nobilitante, nessun’intenzione di “elevare”, bensì di rappresentare l’umano (e la natura che lo contiene) in tutte le sue manifestazioni, di scendere in profondità senza per questo costruire un cronotopo verticale (di insistere cioè sulla profondità di campo); quello di Shakespeare non è un impulso a svincolarsi da un ordine per entrare in un altro secondo una gerarchia assiale, ma al contrario di lavorare sull’estensione, l’ampliamento, la molteplicità di direzioni in luogo della discesa agli inferi o dell’anabasi. Il cosiddetto naturalismo shakespeariano non è altro che l’applicazione concreta della posizione di Polissene, di fronte alla quale Perdita capitola: una concezione per cui il primato della natura non è una scelta ma una necessità estetica: è in questa categoria che rientra l’uomo, parte della natura e della varietà delle sue manifestazioni. L’uomo infatti, lungi dal dominarla, ne subisce gli influssi in profondità (“certo questo mio abito mi cambia di carattere”, dice una Perdita coperta di fiori). È proprio su questi mutamenti dell’intimità, che la natura concerta col tempo, dando luogo a metamorfosi dell’animo come del corpo, che farà leva il V atto.
Realtà o immaginazione? (Atto V, Scena III)
“L’ambiguità è la via della vita”
Carl Gustav Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, p. 57.
Il ricongiungimento ha avuto luogo: Leonte ha scoperto l’identità di Perdita, Florizel ha avuto il consenso del padre a sposarla, Polissene ha ritrovato nel re di Sicilia l’amico e fratello. Ma non è ancora tempo di riconciliazione, c’è ancora una visita da compiere: a casa di Paolina si nasconde la statua che ritrae Ermione, una scultura tanto perfetta da farla sembrare viva. Così Leonte, Polissene, Perdita e Camillo vi si recano, con tanto di personale di corte al seguito: è l’ultima scena del dramma. Paolina tira una tenda e scopre Ermione “in piedi come una statua”. Non appena la vede, Leonte, pur abbagliato dalla sua bellezza, è colpito dalle rughe sul volto, come se lo scultore avesse saputo unire la sua perizia al lavoro del tempo. Paolina gli ingiunge di non toccare la pietra, il colore è ancora fresco, allora Leonte chiede di poterla ammirare ancora a lungo, per altri vent’anni … Paolina dichiara che è in suo potere far muovere la statua, ma è necessario “risvegliare la fede”: ed ecco che al suono della musica, non prima dell’invocazione di Paolina, Ermione scende dal piedistallo, abbraccia Leonte, chiede alla figlia di raccontarle le peripezie passate. Paolina le esorta a lasciar perdere, invitando tutti a posticipare la rievocazione delle disavventure passate per vivere con gioia il momento: lei se ne andrà lontano, a piangere il suo compagno morto e perduto per sempre. Ma Leonte la rimprovera: è tempo della riconciliazione, che prenda Camillo per marito. Poi si rivolge a Ermione e a Polissene, chiedendo perdono delle sue azioni, celebra l’unione di Florizel e Perdita, infine invita Paolina a guidarli fuori dalla casa.
Realtà o immaginazione? Dove sta la verità, dove l’illusione? È davvero una statua quella che prende vita, o si tratta di Ermione che, scampata alla morte, si è nascosta per sedici anni dalla fidata Paolina? Inganno magistralmente orchestrato o rinascita miracolosa? O ancora, piuttosto, la rappresentazione di una rinascita? Un trucco di Paolina per guarire un Leonte ormai pentito, o un “reale” risveglio dopo un lungo sonno?
Nel caso si propenda per la messa in scena di un inganno, l’unico personaggio per cui non si può parlare di rappresentazione è Leonte: per lui viverla – non assistervi! – è la condizione necessaria a guarire, a ritornare in se stesso (il fatto che Paolina ed Ermione abbiano atteso sedici anni può significare sia che i tempi non erano maturi, sia che la metamorfosi di Leonte richiede un perdono che non è gratuito, ma che va “guadagnato”: richiede una penitenza da scontare, che inerisce cioè alla conta degli anni). Nel secondo caso Shakespeare effettuerebbe un salto (narrativo, ontologico) rompendo la lunga catena di inganni: farebbe assistere ai personaggi e al pubblico, per opera di Paolina, a un evento letteralmente incredibile quanto l’irruzione del Tempo-Coro all’inizio del quarto atto.
Che si scelga l’una o l’altra via, in entrambi i casi la rappresentazione finale risulta premeditata da Paolina sin dalla prima scena del quinto atto. Questa ci mostra Leonte in preda al rimorso, e Paolina intenta a magnificare le virtù della padrona scomparsa, per poi strappare al re il solenne giuramento di non risposarsi se non col suo (di lei) consenso: ma subito aggiunge “a meno che un’altra, simile a Ermione come il suo ritratto, non gli compaia innanzi” (V, i, v. 74), il che lascerebbe pensare – col pensiero alla scena III – si riferisca a una vera statua di pietra, a una copia “reale”; ma quando Leonte ribadisce che non si sposerà finché non sarà lei a dirglielo, Paolina dice che “sarà quando la prima regina respirerà di nuovo: fino ad allora, mai” (V, i, vv. 83-4). Una battuta sufficientemente ambigua da poter alludere sia all’uno che all’altro scenario (la rinascita di Leonte, o la metamorfosi di Ermione. In tutti e due i casi Ermione “torna a respirare di nuovo”). Anche le parole dei gentiluomini che hanno assistito al ricongiungimento non favoriscono un’interpretazione piuttosto che l’altra, semmai preparano il terreno a una massima apertura del senso, accentuandone l’eccedenza, la polisemia, l’irriducibilità a ogni verbalizzazione (“avete perduto uno spettacolo che bisognava vedere – si afferma nella scena II – non si può descriverlo a parole”, V, ii, vv. 41-2, cors. nostro; e ancora: “non ho mai sentito di un incontro come questo che storpia il racconto che se ne vuole fare e distrugge la descrizione che si cerca di darne”, V, ii, vv. 54-56). Tutta la scena III è caratterizzata dalla massima valorizzazione di questo spessore irriducibile del linguaggio: dove le scarne indicazioni di regia di Shakespeare (Paolina tira una tenda e scopre Ermione in piedi come una statua, V, iii, vv. 20-1; Ermione scende dal piedistallo – ancora più secco nell’originale inglese: Hermione comes down – , V, iii, vv. 103-4) hanno la sola funzione di rendere indubitabili le azioni cui si riferiscono: il disvelamento (l’immobilità) della statua e la discesa (il movimento) di Ermione, le uniche a non poter essere desunte dai dialoghi, le uniche a dover essere “fissate”. Insomma, Shakespeare dissemina sufficienti indizi per suffragare l’una o l’altra “soluzione”. Quale scegliere, come scegliere? Ma soprattutto, siamo obbligati a scegliere? Alla fine del primo episodio del Decalogo di Krzysztof Kieslowski, il padre-scienziato, distrutto dalla morte del figlioletto, entra in una chiesa, si avvicina all’altarino su cui è appoggiato un ritratto della Madonna e, in un impeto di rabbia, lo spinge, facendo cadere alcune gocce di cera delle candele sull’effige, proprio sotto gli occhi della Vergine. Si tratta di cera che cola, o è la Madonna che piange? Questa domanda apparentemente fuori luogo non è estranea al nostro percorso, anzi la sequenza potrebbe essere utilizzata come didascalia alla scena shakespeariana. L’alternativa che vi soggiace – il caso o la volontà divina? Le cause efficienti o un disegno imperscrutabile? – è analoga, nella forma, a quella che si pone il lettore-spettatore del Racconto d’inverno; ciò che viene chiamato in causa è l’apparente ineluttabilità del prender parte, l’inestirpabile tendenza a scegliere una pista interpretativa, la decisione come prodromo della comprensione. Finché non ci si rende conto che le soluzioni sono equipollenti: il problema con cui lo spettatore del film si confronta in sede interpretativa è già stato svolto in sede drammatica attraverso le parabole dei personaggi del padre e della zia, o meglio attraverso i loro contrapposti atteggiamenti esteriori: due forme di fede, una nella scienza e l’altra nella religiosità dei sentimenti: per cui lo spettatore si trova spontaneamente di fronte alla tentazione di fare suo uno dei due principi-guida per orientarsi nell’abisso che gli è stato spalancato davanti (nel testo di Shakespeare come nel film di Kieslowski la morte ha un importanza primaria, è una sorta di limite della parola: nel primo richiama Leonte alla realtà, ponendo fine al suo profluvio verbale; nel secondo vanifica ogni possibilità di “spiegazione”, scientifica o religiosa che sia). Kieslowski riunisce ciò che prima ha dissociato, mostrando come dietro ogni (inevitabile?) presa di posizione sullo statuto della realtà e del mondo si celi una precisa volontà di avere un accesso privilegiato ad essa. Ma i fatti sono muti (da qui i numerosi passi shakespeariani, alcuni dei quali sopra riportati, sull’impossibilità di descrivere una scena, sull’indicibilità, sull’inadeguatezza delle parole). Non è un caso che Shakespeare (e Kieslowski con lui) si serva di un’immagine per metterci di fronte l’intrinseca ambivalenza del reale, la sua resistenza ad ogni prensione umana, alla hybris insita in una conoscenza che sempre si esaurisce nell’inconfessato impulso di fornire prove a ciò che istintivamente abbiamo già scelto. È nel segno dell’impermeabilità, dunque, che si consuma, per chi sia disposto a riconoscerla, l’epifania della realtà come pura, impenetrabile presenza. Il finale del Racconto d’inverno acquisisce così il sapore della vita stessa, invitandoci a prendere atto della parzialità univoca e paradossalmente totalizzante dello sguardo (di ogni sguardo) sulla realtà, conseguentemente dell’equivocità connaturata ad ogni autentica riflessione artistica su di esso. L’ultima scena dell’atto quinto ci invita ad abbandonare uno sguardo rapace sul mondo, a lasciarci interrogare dalla realtà anziché interrogarla: caso raro di enigma che sconfina nel mistero.
Luca Peloso