Il supremo teatro, il Dio Canzoniere: i sonetti di Shakespeare

Di Davide Rondoni

Per quanto 500 anni di letture e di analisi inseguano i Sonnets, i segreti sulla loro composizione non si eliminano. E ogni lettore leggendo queste poesie ha una grande chance per chiarirsi alcune questioni riguardanti il proprio modo di vivere l’amore, ma avrà una possibilità altrettanto grande di diventare più segreto a se stesso accettando di entrare nel gran teatro dei Sonnets.

Pubblicato in I sonetti di Shakespeare, ed. Utet

da Rivista clanDestino

i sonetti di Shakespeare
Immagine da Shakespearemagazine.com

Cosa sta facendo Mr. Shakespeare?

Queste non sono solo poesie. Qui il grande teatrante ha creato la sua scena più azzardata.
Scrivere di questi Sonetti non è facile. Non lo è mai, perdipiù se poesie hai provato a scriverne. Se poi ti trovi a scrivere di Shakespeare in un hotel di Roma senza pretese, con due orientali vicino che di prima mattina succhiano una strana zuppa da due bidoncini di plastica, beh, l’impegno si complica. O forse no. In questo alberghetto popolato di ogni genere di creatura, insomma un posto che ti fa tornare in mente la famosa battuta di Marcello, un personaggio di Amleto: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che nella tua filosofia”, si schiude il fiore ingegnoso di questo canzoniere.
Perché non avete un libro tra le mani, ma qui si apre un luogo. Meraviglioso e tremendo. Sì insomma, questo non è un diario letterario trasfigurato in poesia, non è un libro come un altro, per quanto sepolto dalla mole degli studi che gli hanno dedicato, circondato da una aurea sacra per via del nome del suo autore. Quello che si apre tra le vostre mani è un luogo, un bosco, un castello, un oceano. Un teatro, forse un grande albergo. Di certo è una tigre dalla pupilla di diamante, il volo di un uccello notturno. Non lo puoi dimenticare. E come tutte le grandi opere di teatro non è fissato una volta per sempre nel passato, ma avviene continuamente.
E anche se i segugi della critica e della filologia possono con gusto (ma anche subendo continui smacchi della loro dottrina) ficcare le lunghe e sapienti dita nei segreti del libro e percorrere come ciechi il viso dei vari personaggi e delle varie identità coinvolte, come in una sala degli specchi dove l’autore e i destinatari passano troppo rapidi davanti alle grandi specchiere, questo corpo poetico ci continua ad arrivare come un dono inquietante e prodigioso. In quella sala di specchi d’hotel dove gli studiosi si affannano per afferrare volti e nomi sfuggenti, avanza la creatura misteriosa di questa voce poetica. Il suo dire dolorosissimo e artificiale. Che crea una scena nuova, e la crea sotto i nostri occhi.

Ha ragione chi ha scritto, come l’importante studioso Giorgio Melchiorri, che proprio questo testo, divenuto “la più promettente riserva di caccia della critica strutturale e semiologica di ogni tendenza”, deve essere preservato da una ossessione a verificare l’esistenza di strutture e costruzioni presupposte, tendenza che finisce per perdere di vista lo sviluppo della voce e della visione poetica. Il pasto che ne hanno fatto, provando a sezionarlo come un corpo morto, non ne ha fermato la vita e l’inquietudine di segreti.

Ci sono due tipi di segreti che ci arrivano dai Sonnets. Il primo tipo di segreti riguarda la genesi dell’opera. Il secondo tipo di segreti riguarda invece noi, che diventiamo suoi lettori e diventiamo più segreti a noi stessi. In entrambi i casi, si tratta di segreti destinati ad aumentare. Perché questo non è solo un libro, ma un mondo che continua a crearsi.
Per quanto 500 anni di letture e di analisi inseguano i Sonnets, i segreti sulla loro composizione non si eliminano. E ogni lettore leggendo queste poesie ha una grande chance per chiarirsi alcune questioni riguardanti il proprio modo di vivere l’amore, ma avrà una possibilità altrettanto grande di diventare più segreto a se stesso accettando di entrare nel gran teatro dei Sonnets. Qui il loro autore, William Shakespeare, non si è limitato a offrire un delizioso diario poetico. Ma ha cercato di rifare il mondo. Ha tentato di creare la scena più azzardata. Ha provato a fare Dio.

Il segreto e i segreti

Il primo tipo di segreti riguarda la stesura e i periodi di composizione dei Sonetti.
Ad essi forse il già noto drammaturgo inglese si dedicò in periodi di stasi del lavoro forsennato e fertile della stesura di commedie e tragedie e in pause dal lavoro che lui stesso compiva di allestimenti e organizzazioni teatrali, essendo scrittore, attore, impresario. In quel periodo di fine ‘500 i teatri londinesi spesso rimasero chiusi per l’infuriare di pestilenze e dunque c’era tempo per dedicarsi anche ad altro. La stesura avviene in più periodi, sembra tra il 1591 e il 1604. Rocambolesca pure la storia della edizione dei testi. Un paio, il 138 e il 144, sembra apparvero in un libro edito nel 1599 The passionale pilgrim. Una edizione di poesie intitolata Amori di J.D. con alcune altre poesie di W.S. viene registrata negli schedari usciti nel gennaio del 1600. L’unica edizione ancora vivente a Shakespeare è la famosa edizione curata da Thomas Thorpe, che il 20 maggio del 1609, forse cercando di fare una specie di scoop, pubblica i Sonnets indicandoli come inediti. Probabilmente la fama dell’autore e il fatto che alcuni di questi testi già circolassero, nutrendo mistero e sussurri sui loro contenuti, spinsero Thorpe all’azzardo di pubblicarli senza che l’autore lo sapesse. Ma le nebbie sono fitte. Di certo l’edizione non suscitò reazioni da parte dell’autore, che allo stesso modo della sorte dei suoi testi teatrali non pareva molto interessato ai destini editoriali.
Ma le date non aiutano più di tanto a entrare, a svelare i molti segreti che costellano il testo, costruito secondo uno schema metrico fisso, in voga nel tempo, in pentametri giambici e in tre quartine a rima alternata e un distico finale con rima baciata.

Come se questo eloquentissimo e cospicuo canzoniere, segnato certo dalla lezione di Petrarca e dal suo mestissimo tentativo di fermare il tempo e l’amore con “lettere d’oro”, – mentre Dante con il suo canto sbranava il segreto del tempo, amando con cuore acceso il miracolo d’oro della donna sua e non sua – portasse comunque in sè un segno antico. Un avvertimento che viene dal poeta riarso di amore che omnes cosa conclama. Dico quel Jacopone da Todi che secondo Ungaretti – traduttore amante dei Sonetti – scrisse forse la più bella poesia mai scritta da uomo, cantando “l’amore muto”. L’amore che non si svela in chiacchiere, che tiene il suo segreto, e i sospiri “li fa partorire dentro”. L’amore che in Jacopone era chiamato da ogni cosa, e che in Dante muove il sole e le stelle, forza che tutto trascina e domina e il cui ultimo nome è Dio, diviene in Petrarca e in Shakespeare una forza che gli estensori di canzonieri provano a interpretare e a modellare come energia per creare, loro, il mondo.

Il mistero di questo libro non è innanzitutto legato alla convenienza o alla inopportunità della sua pubblicazione. Ma alla natura stessa d’amore e del mondo che la sua forza genera e rigenera attraverso le mani del poeta. Chiude un segreto, è in quello e su quello concentrato. Un segreto che, indagato, come è stato scritto, inseguendo tutte le “angolazioni del desiderio”, sovverte le regole del già saputo. Era tremare le fondamenta dell’essere. Con un colpo di genio, Giovanni Testori, il drammaturgo italiano che più s’è confrontato in riscrittura e corpo-a-corpo con le invenzioni del teatro shakespeariano, reinterpreta in Amleto il monologo celebre del principe di Danimarca sull’essere e non essere, come una vertiginosa e spietata risalita al momento del proprio concepimento. L’essere è sempre sovvertito, violato e incarnato dall’amore. E in amore siamo tutti principianti, verrebbe da dire con Raymond Carver alla fine della lettura di questo strano libro.

“Contro di me, per te farò guerra”

Tutto questo doveva restare segreto. E anche se accettassimo una delle ipotesi che identifica in qualcuno il giovane biondo destinatario della parte maggiore dei testi, e della dedica “più enigmatica di tutta le letteratura inglese” o la dark lady oggetto della seconda parte delle poesie, non avremmo aggiunto granché alla comprensione del vero significato del canzoniere. Che Mr. W.H. sia Il conte di Southampton, Henry Wriothesley, o il fondatore di Oxford e protettore del drammaturgo William Herbert o, ascoltando le congetture argute e quasi enigmistiche di Oscar Wilde, sia altrimenti un giovanissimo attore di nome Willie Hughes, ecco, non ci cambia molto. È un canzoniere d’amore dove la struggente tensione al superamento delle dualità tra “io” e “tu”, tra tempo e amore, tra bellezza e sterilità, e persino tra maschile e femminile, tra cielo e terra, tra felicità e infelicità, lascia alcune delle testimonianze più alte e preziose dell’arte di ogni tempo. Non sono certo lo svagato passatempo di un teatrante già baciato da gloria e fortuna. Si tratta di una raccolta dove molti temi vengono toccati, a volte in modo volutamente ondivago, altre in modo raffinato, sempre con grande perizia di scrittura. Per quanto, infatti, si possano vedere tutti gli artifici e i prodigi di chi si impone di mettere alla prova tutte le possibilità di composizione – sia a livello di lessico, che di metrica e di immaginazione – resta il fatto che in questi testi Mr William Shakespeare sta dicendo qualcosa che gli preme e lo turba e che anima le sue giornate e le sue notti. E non si tratta di una storia d’amore, ma della ri-creazione del mondo, la sua opera teatrale più imponente e fatale. T.S. Eliot invita a leggere questi testi come quel livello in cui sorge la poesia, la “prima poesia” della intera opera shakespeariana. Come dire che ci mettiamo qui vicino alle prime sorgenti di quel fiume impetuoso e vario che ci ha dato personaggi e storie memorabili nel teatro. Scene peraltro scritte in versi, va ricordato. Come se, appunto, l’ansia di Amleto per la violenza e la rottura di unità subita dal padre e da lui stesso, e il suo crescere fragile e sacrificale all’ombra del “Remember me” iniziale, o la grandezza di Lear di fronte alla sfida del tempo, la potenza imprendibile di Ariel, la ferocia di Macbeth, muovessero i primi movimenti, tremassero nei loro primi quasi impercettibili moti tra i filamenti dei delicatissimi sonetti. Come se tutti i personaggi del gran teatro si preparassero, si vestissero dietro le fragili vetrate delle metafore, delle invenzioni, e dei sospiri e pianti dei Sonetti, e lì traversassero quasi come loro camerini o sale prove. Perché è nei Sonnets che si tenta la prova impensabile, il teatro assoluto: il mondo viene definitivamente ricreato nel suo fondamento, l’amore.

Da secoli sembra che stiamo violando il cuore di quest’uomo. E l’anima. O forse lui si sottrae al nostro inseguimento. Sembra darci in pasto la sua anima, i suoi segreti, i nomi. Ed è così! Nel senso che di certo la materia del canzoniere non è frutto di invenzione, ma, come già detto, Shakespeare non si scompose tanto all’apparire dei sonetti a suo nome pubblicati. Come se il suo occhio attento a tutti i movimenti del gran teatro del mondo e del cuore umano sapesse che in realtà quella mossa di “svelamento” sarebbe stata in un certo senso fallimentare. Se, dunque, procediamo dopo oltre cinquecento anni in questa sistematica violazione, che però è al tempo stesso un grande sistematico fallimento, possiamo farlo solo a un patto: essere disposti che lui violi la nostra e essere disposti a entrare non in William Shakespeare ma nella sua ennesima scena, anzi nella scena più elaborata e presuntuosa. Mettere in discussione non tanto i nostri sentimenti, ma il nostro mondo con la sua scena. Solo così la lettura non sarà un piccolo disastro sentimentale. Solo se qui – come in ogni opera d’arte – accadrà che le parole di un uomo e della sua vita diventino il modo, il modus, la misura e la dismisura in cui noi non tanto guardiamo la sua (per questo esistono le biografie, i diari, o le trasmissioni di esibizionisti televisivi) ma mettiamo a fuoco la nostra. Si tratta insomma, d’essere disposti a che il suo sperdimento e la sua tensione alla unità siano anche i nostri.

Sarebbe povera cosa leggere questi testi per indagare uno dei più bei libri della letteratura di tutti i tempi. No, questo è un posto dove c’è uno strazio e una tentata ricomposizione, dove di sposta la trincea più in là. Un teatro dove accordare il nostro cuore, il nostro pianto e, se ne abbiamo, le nostre povere dolcezze. Quando apriamo il libro qualcosa in noi – che sappiamo cosa sono i segreti – trema nel leggere le poesie che forse Mr. William Shakespeare voleva far arrivare ai nostri occhi come composizione del più gran teatro, creato nel Canzoniere. Parole che dovevano essere solo per lui, solo per lei? O che forse rivolgendosi a un lui o a una lei stavano cercando la posta più grossa: non un canzoniere diario d’amore, ma come vuole ogni teatrante, la ricreazione del mondo.

Qui sta a mio avviso il punto di diamante duro dell’opera: la sua smisurata ambizione. Che stordisce e affascina per la perizia di cui è stata tessuta, decorata. Crediamo di avere un dolce straziato canzoniere d’amore – lo abbiamo, certo, sono poesie in molti casi meravigliose, e ci puoi scommettere che un sacco di innamorati le leggeranno se le scambieranno ancora a lungo. Ma ho il sospetto che l’autore, mentre i suoi editori si buttavano su queste parole e le pubblicavano sperando nel gossip e nel nome di successo, guardasse tutto questo con un certo distacco, come uno che sa bene d’aver fatto una cosa che non molti capiranno. Con la sua capacità di svanire, la “negative capability”. Come accadeva anche alle sue rappresentazioni: il pubblico rideva, se la spassava, si adorava. Ma alcuni capivano di più, e fremevano nell’ombra. Il segreto dei sonetti non è tanto nel fatto che non siano ben chiari i destinatari o altri problemi indistricabili o per certe capziose soluzioni di stile, a volte troppo artificiali.

Il segreto è che qui l’uomo di teatro compie il suo azzardo più alto e tremendo: prova a diventare Dio. O meglio, a far diventare Dio la poesia. A rifare il mondo. Era una tradizione, una consuetudine. I grandi canzonieri d’amore sono i luoghi dove si prova a ricostruire il mondo.
Credo che anche per questo ci arrivino con la forza irrefutabile che mantengono. Come se le custodisse intatte nella loro forza l’ombra di un grande segreto che dietro ai singoli segreti continua a sospingersi come una tempesta muta, una cosa violentata. Senza contare che quell’ombra da segreto d’amore violato s’è trasformato, appunto, quasi per vendetta, in una serie di rompicapi che stanno assillando gli studiosi da mezzo millennio! Lo annotava anche Ungaretti, gran traduttore di quaranta di questi Sonetti, il quale riconosceva che nel canzoniere vi è “un modo macchinoso di sentire, di immaginare, di pensare; ma ha permesso allo Shakespeare di dare carne e anima alle persone del suo teatro.”
Qui va in scena il teatro più oscuro e chiaro di Mr. William Shakespeare.
Il suo azzardo più grande di costruttore di scene.

L’inseguimento, la lettura, l’amore

Quando leggiamo versi come: “Ma in te l’eterna estate non si oscuri…”, oppure: “ma poi pensando a te questo mio stato/ come allodola quando spunta il giorno/ da cupa terra il canto porta al cielo…” non importa a chi siano dedicati da chi li ha scritti. Importa e ferisce e – diciamolo – cambia noi che leggendo li stiamo dedicando a qualcuno che resterà sconosciuto a ogni filologo.
E quando leggiamo versi come: “beltà sepolta in neve, e niente attorno” o vediamo che all’amato il poeta rimprovera a lungo di non fare figli, di tener per sè e di non seminare la sua bellezza, non importa se tale sonetto sia stato scritto in una prima o seconda fase della redazione del canzoniere, o da quali topoi letterari proviene, ma importa che ci arrivi in pancia e nel pensiero una fiammata chiara: la bellezza se non genera cosa è… forse è nulla? È destinata a raggelarsi nella “neve, e niente attorno”?

Come ogni autentica opera d’arte queste poesie del grande drammaturgo non sopportano definizioni solo interne al lessico della cultura. Non ce la caveremo – e io no, non voglio cavarmela di fronte a queste poesie – applicando le etichette del petrarchismo, o del platonismo. T.S. Eliot avvertiva: “So bene come è difficile far entrare Shakespeare in una teoria su Shakespeare”. Siano dunque quelle etichette soffiate via dalla forza struggente di questi versi. Forse non è un caso che i grandi capolavori della letteratura e i loro autori sfuggano all’inseguimento dei filologi, dei biografi… Chi era, se era, veramente Omero, e chi Shakespeare? Solo un tranquillo possidente di campagna, un abile manovratore di affari teatrali? E il manoscritto originale della Commedia dov’è finito? Le tre cantiche si chiamavano veramente così? Insomma, c’è, specialmente a proposito dei grandissimi autori, un segno di sperdutezza, di inafferranza. Come se il giocatore che dà le carte si fosse divertito a darle in modo da rendere infinito il gioco, l’inseguimento, il susseguirsi di azzardi e misura, e da mettere proprio sotto i pilastri della tradizione poetica una mina, una antimateria di mistero.

Anche nel caso di questi sonetti le indagini proliferano, i regesti, addirittura gli schemini, i calcoli si vanno facendo infiniti. Ma la creazione del mondo nel canzoniere sembra protetta da ogni definitiva interpretazione. Quasi a proteggere in una bolla opaca, in una onda troppo alta nel buio la materia incandescente che genera la poesia, il suo sempre precedente mistero. Il suo somigliare maledettamente alla parola che fa, che crea, poiein, e il contemporaneo essere disastro, naufragio e necessaria nuova tensione, perché se fa qualcosa la poesia, può solo incrementare l’esistente, aumentare l’intensità e la finezza con cui sperimentiamo il reale. Ma creare no. La poesia non riesce a slegarsi dal limite su cui corre tra essere e nulla. È una specie di linea di orizzonte dove due mondi – il reale e il nulla – si toccano, così come la filosofa Maria Zambrano immaginava essere l’uomo stesso, una linea di orizzonte tra cielo e terra. Ebbene, Dio Shakespeare in questo canzoniere mette tutte e due le cose dentro. La potenza e l’impotenza della poesia. Il poiein e il disastro. Come altri opposti, l’uomo e la donna amati entrambi, l’animo alto e quello vile, la rovina del tempo e il ringiovanimento. Tutto insieme, non più due ma uno. Nella illusione che il gran teatro della poesia compia quel che non riesce alla vita. Li mette in scena, insieme, inconciliabili ma presenti in una nuova creazione, la sua. Dio con l’amore move il sole e l’altre stelle della creazione. Il grande teatrante Shakespeare sulle orme di Petrarca prova a ricreare il mondo con la forza di una sua concezione di amore.

In questa epoca in cui pensiamo di dire qualcosa d’amore con pochi caratteri di un messaggio via web, immergersi nella materia densa e magmatica di questo amore esaltante e doloroso può essere salutare. Certo, parlare d’amore si può in ogni modo e ovunque – tranne nei luoghi dove lo si fa per esibizione come in certi show tv – ma per parlarne veramente occorre avere la forza dell’amore muto. Come sapeva Jacopone in quel testo, duro e affranto, e meraviglioso, dove invita a tener celato il proprio vero amore, ovvero, non esporlo in una lingua che non custodisce. Qui invece, pur nella presenza assidua di elementi di manierismo, di raffinatezze quasi maniacali, che fanno dannare ed entusiasmare gli esperti, vibra la stessa supplica: solo la poesia può parlare dell’amore che è da tacere. Un parlare custodendo, ponendo segreto nelle cose dette. Potenza e impotenza della poesia. E non solo per via della infinita serie di giochi metaforici che rendono questo libro una foresta preziosissima e un dedalo di specchi, ma per la natura del dire poetico, velamento e svelamento continuo. Come se la messa a fuoco della esperienza amorosa, e del suo nucleo bruciante di ricerca della unità, rendesse la metà amante, l’io sempre ferito, sempre desideroso, un infinito cercatore, un cacciatore, come sanno i mistici e gli innamorati. Uno che dice e non dice. Perché quel che ha visto è da dire ed è al tempo stesso indicibile.

Non è un caso che nei Sonnets siano state calcolate circa trecento occorrenze di termini che hanno a che fare con il vedere, lo sguardo. È un canzoniere dominato dagli sguardi. Da incontri e fughe di sguardi. Dalla tensione che caratterizza il grande fuoco del passaggio ambiguo tra Rinascimento e Barocco. Certo, le etichette appena dette si sfarinano. E va pure accolto il suggerimento di Ungaretti di tenere per il poeta inglese capace di “misura nella dismisura” una collocazione più interna a un Rinascimento inquieto, nutrito da slanci gotici e da tensioni pre-romantiche, essendo invece il Barocco frutto di quel che lui chiama “fermentazione” interna per troppa maturazione delle forme classiche, tipicamente nato nella patria di tale forme, ovvero l’Italia. Rimane certo che anche queste pagine, come certe pitture di Rembrandt o di Lotto o certe fughe di Bach sono animate da una tensione: vedere l’invisibile, dare forma a quel che forma pare perdere sempre, curvandosi, oscurandosi, perdendo memoria…

Contro quel che, vivo, sta separato e s’incurva

Tanti fuochi e pensieri e belve di perfezionismo percorrono i Sonetti, e prendon vigore da una fiorentissima tradizione di sonettistica che negli ultimi decenni del ‘500 trova esplosione e parossismo in una gara spesso giocata con le armi della ricerca della originalità a tutti costi, a scapito dell’arte.
Evidentemente il Canzoniere non è un diario segreto di Mr. Shakespeare. Non è il racconto in versi di una anzi due passioni amorose. O meglio è forse anche questo, ma è soprattutto altro. Ed è a questo “altro” forse non leggibile nel primo senso immediato dei testi che il gran teatrante dava importanza. Non si spiegherebbe altrimenti l’aplomb tenuto anche in questo caso nel momento della pubblicazione esito di sotterfugio. Vero è che Shakespeare non si curava delle edizioni dei suoi drammi, che infatti emergono a fatica da una serie di edizioni spesso caotiche, ma se si fosse trattato di un enorme scoop, di una intrusione nella sua vita intima almeno un cenno di sdegno. Nulla? E non si spiega – se questo fosse una specie di diario intimo – la assenza di riferimenti a tante vicende personali che lo toccavano in quegli anni. Dalla morte del piccolo e unico maschio Hamnet (nome che adombra quello di Hamlet) fino alla peste o a certi passaggi di vita e di carriera. No, nessun cenno, nessun riferimento, tranne qualche uso traslato di metafore che riguardano il commercio immobiliare in cui s’era messo, e forse qualche velato accenno alla vita del conte di Southampton.

Tale assenza tuttavia non significa che si tratti di un’opera fredda, o senza palpito. Noi modernissimi e post modernissimi siamo abituati a pensare che la trasmissione di qualcosa di personale avvenga solo attraverso una esibizione del biografico. E spesso restiamo irretiti in tale biografismo perdendo le questioni generali e rilevanti. Non importa che l’io che parla in questi Sonetti sia Mr. William Shakespeare. Importa che le questioni che lo agitano – sia che egli le traduca da una serie di topoi precedenti, sia che le rinvenga nella sua personale esperienza – siano le medesime che possono agitare noi e il nostro mondo vitale.
Non mancano anche in questi testi, oggetto di diverse edizioni e ordinamenti, prove di abilità fredda, di esibizione di artisticità che oggi ci suonano lontane. Ma ci sono alcuni temi ricorrenti che ci toccano – e Il primo coincide, diciamo così, con la ragione stessa della esistenza di questa raccolta segreta e violata. Vale a dire la potenza e l’impotenza della poesia intesa come opera di ingegno e di dedizione umani a combattere la dura gara contro il tempo e l’oblio. E l’altro tema o ossessione e sfida è quella della misteriosa unione e diversità – dei caratteri, degli estremi, dei sessi.

Il primo è tema antico e sempre nuovo poiché la poesia è fatta di tempo, nel senso che la sua materia è il ritmo, e il suo scopo sembra appunto di comporre la lingua in modo che nel tempo essa dica cose che si fissano nella memoria. Non si tratta, si badi, di ridurre la poesia a sentenza, a detto proverbiale. Il rapporto tra poesia e memoria e oblio inizia innanzitutto nella concezione stessa, nel concepimento del gesto poetico. Si scrive fissando qualcosa nella memoria. E si vede bene molte volte qui, quando il volto amato, o lo sguardo o la intera presenza tornano in mente al poeta da luoghi diversi della memoria. La poesia, prima ancora di puntare a far rimanere nella memoria, fissa qualcosa nella memoria e con i suoi versi ne trae materia. Fissa la memoria nel senso che la indaga e vi si profonda. E fa in un certo senso rivivere, o meglio accresce l’esistenza del particolare di realtà percepito.
Così che l’oggetto della memoria emerga, ancor più vivo, e presente. Ne dava un importante verifica Dante quando nel Paradiso a riprova di aver visto i cieli e le anime di cui parla, dice che la certezza gli viene dal fatto che ora, parlando di quelle cose viste, ne gode ancor più largamente. (“più di largo ne godo”). La poesia (“parlando”) aumenta il godimento per quel frammento di realtà sperimentata. Ne aumenta la esperienza. Nel caso di Dante la memoria è uno degli attori della visione, e una sua verifica, nel caso di Shakespeare diventa il campo della salvezza: la bellezza rimarrà viva nella memoria grazie alla poesia.

Le differenze tra Dante e Shakespeare sono infinite. Tre centinaia di anni hanno portato grandi cambiamenti nella vita, nella poesia, nello sguardo di questi grandissimi. Paradossalmente, una storia di amore che ha al centro una perdita (Dante e Beatrice) diviene occasione di un grande acquisto. Invece una storia che ha al centro una presenza e una corrispondenza, tra lo scrittore dei Sonnets e i suoi amanti, genera una grande ansia. Appunto l’ansia del tempo. Del suo dominio in quanto oblio e rovina. A tale ansia la poesia dei Sonnets dà voce e al tempo stesso, in un movimento duplice e pieno di contraddizioni generatrici di metafore e incanti, ad essa cerca di opporsi. In due sonetti vediamo tale movimento doppio.

XV

Quando penso che tutto ciò che cresce
rimane solo un attimo perfetto
e che il nostro è un gran teatro d’apparenze
soggette all’influenza delle stelle

e, sotto un cielo amico e che lo avversa
osservo come pianta crescer l’uomo
che vanta linfa giovane e alla cima,
del suo splendore immemore, s’incurva,

allora, in questa idea dell’incostanza,
di gioventù ti vedo ancor più ricco,
mentre Tempo si accorda con Rovina

a fare del tuo bel giorno opaca notte.
In guerra contro il Tempo, per tuo amore
io ti innesto di quanto lui ti toglie.

La poesia si oppone all’oblio creando un’opera, una forma, un cristallo. Il Canzoniere è un altro mondo, dove a quel che “s’incurva” ( bellissimo verbo, riferibile alla forza della gioventù e a tante espressioni di presunta sanità degli uomini che però “s’incurvano”) il poeta offre la sua tessitura dove cerca di superare la condanna del teatro delle apparenze, aprendo il sipario di un altro teatro, dove è possibile “l’innesto”. Il ragno è al centro del suo ordito e sta tessendo qualcosa di ben più significativo che un diario. Secondo il modello che in Petrarca trova il suo primario e più autorevole artifex, il poeta al centro del suo canzoniere va costruendo un mondo in cui sia possibile, grazie alla forza dell’intelletto poetico ricreare quella unità (di amore e tempo come di amante e amato, di uomo e donna ecc.) la cui perdita ci fa sanguinare. È quella posizione che – diversa da Dante viaggiatore in un universo non da lui creato né governato – uno dei maggiori poeti del Novecento, Mario Luzi, riconosce come predominante nella letteratura proprio a partire dal “mite dispotismo” della idea petrarchesca sulla letteratura. Come se, per usare le sue parole, si attuasse attraverso la poesia la creazione di uno spazio diverso dalla esperienza, un limbo, in cui le tensioni si acquietino, trovando nella trasformazione in poesia la loro “giustezza”. Ma ciò avviene appunto grazie a una sorta di difetto di esperienza, grazie a una diminuzione di credito al farsi del mondo. E di separatezza. Di chiusura al reale. La poesia in un certo senso si ritira dai reami ombrosi della esperienza, degli eventi, del teatro del mondo come avvenimento. Ne registra le ferite, i traumi, le amputazioni, ma, per così dire, lo fa da una stanza accanto, da uno spazio in cui essa si realizza come preservata e dotata di una integrità che è proiezione dell’io assoluto del poeta.

È come se, coerente alla filosofia della letteratura vigente e ad antiche tripartizioni dei generi, Shakespeare adottasse per la scena viva del mondo la poesia teatrale, la poesia che insegue gli eventi, che partecipa con finezza impressionante al farsi del mondo e al suo riverbero negli uomini. In quella scena del teatro recitato, va in scena il dramma dell’animo umano, spesso lacerato tra gli eventi che non domina. Il suo teatro, è stato detto, ha bisogno di duchi, principi e re come personaggi, ma in fondo sono sempre le questioni fondamentali di tutti gli uomini che vengono portate alla ribalta. Il dramma della libertà colto in mille modi. Non a caso uno dei temi portanti nel teatro di Shakespeare è la giustizia, quella cercata da Amleto o da Lear. Una giustizia spesso impossibile. E qui, nei Sonnets invece, Shakespeare svolge il compito che spetta al poeta legislatore, amministratore dell’unica giustizia possibile, come prevista dall’epoca del dominio petrarchesco. Compiendo qui, lo ripeto, il suo atto di teatro più alto e tremendo. In effetti, anche nei Sonnets il poeta sembra preoccupato di cercare la giustizia, come nelle scene di Otello o di altri drammi, ed è intento quasi a sistemare i pezzi contraddittori della sua – e nostra – esperienza (quella amorosa) in modo da essere artefice di un “mondo giusto”.
Quasi impossibile da trovarsi nelle scene vive del mondo (e del teatro solito) la giustizia della vita risiede nell’amore. Innanzitutto nella forma d’amore del perdono – sulla cui presenza in Shakespeare il grande lettore e teologo Hans U. Von Balthasar ha scritto un importante saggio. Il perdono infatti non nega la contraddizione e il dramma, ma ne annulla il veleno. L’altra forma di giustizia finalmente starebbe dunque nell’amore erotico, nel quale però occorre riunire “giustamente” le esperienze e gli elementi dell’amor platonico e carnale: dunque tocca al teatro speciale del canzoniere di modo petrarchesco d’essere il luogo, prodigioso di incanti, dove possano convivere riuniti.

Ecco, il secondo tema, legato al primo, portato dalla stessa onda di pena e di fatica. Gli studiosi hanno mostrato come le varie tensioni presenti nel Canzoniere (comprese quelle generate dal triangolo amoroso, la compresenza di un ente maschile e di uno femminile sede dei diversi sensi e caratteri, o il famoso sonetto 20 alla figura androgina) sono connesse con la tentata armonizzazione del due nell’uno, alla grande e tremenda aspirazione, alla fame della sapienza antica e moderna. Quella che percorre l’arte, “ardente singhiozzo”, come dice Baudelaire. Si tratta della ricerca di una esperienza di unità e corrispondenza che ci strappi dal nero, penoso e violentissimo sentirsi incompleti, mancanti, affranti. In una parola creature sperdutamente innamorate.
Giovanni Testori, autore di un meraviglioso canzoniere d’amore, scrivendo a proposito dei sonetti di Michelangelo una bruciante sofferta introduzione, spinse, “violando”, l’interpretazione del tema androgino anche là presente, nella direzione estrema. Il poeta e artista cerca l’uno in una donna e in un uomo, e questo uno è Dio. Vale a dire che in Shakespeare la presenza dei due amanti contemporaneamente (tra l’altro attratti tra loro) sembra a un livello più superficiale rimandare a un triangolo, a un ménage complicato. Ma questo unirsi del femminile e del maschile, confluisce in una sorta di unica figura in cui due poli apparentemente si confrontano e scontrano ma in realtà sono complementari. E che diviene il miracolo dell’unità possibile solo a Dio, e di Dio. Dell’Uno.

Anche la fusione tra bellezza e tempo, individuata nella fertilità all’inizio, e poi nella generazione di memoria, o meglio la loro compresenza è uno dei temi di alcuni sonetti. In altri, invece, sembra che tale ricerca sia fallimentare, che la poesia sia destinata a fallire nel suo compito di salvare nella memoria la bellezza in unità con il tempo. Anche la poesia intesa come arte ha il suo dualismo. Sia perché da un lato sembra vincere il tempo ma dall’altro sembra soccombere ed esser meno, infinitamente meno del proprio oggetto e a non assicuragli durata, sia perché d’altro lato appare anche un antagonista poeta, a cui l’amato, purtroppo presta orecchio, nonostante sia inferiore. Sempre dualismo, dilemma. Il canzoniere, dunque è, per così dire, più della poesia stessa, contiene e mette in scena i drammi dell’arte stessa. Se da una parte abbiamo diversi sonetti che celebrano la forza della poesia, la capacità di strappare all’oblio la bellezza, di celebrarla contro il tempo, come il n. 55 ad esempio, dall’altra parte dunque troviamo testi dove invece si documenta il disastro di tale tentativo, come nel 103:

Povere cose, ahimè, fa la mia musa
cui soggetto non manca l’eccellenza,
avendo per se stesso più valore
di quanto pur gli aggiunga la mia lode.
Non criticarmi allora se non scrivo!
Guarda dentro il tuo specchio e là vedrai
faccia più bella di ogni mia invenzione,
e allora addio miei versi, addio mia reputazione.
[…]

L’esperienza d’amore – lo sappiamo –  è attraversata da tutti i dilemmi e gli scandali di dualismo (compreso quello di avere verso l’amato un atteggiamento a volte come verso un figlio, o di avere attrazione verso una dark lady di cui pur si conosce la bassezza d’animo contrapposta al giovane biondo nobile, però legati tra loro), ma il canzoniere d’amore, la scena creata dal poeta contiene tutto in una unità. L’unione è il Canzoniere stesso. Lo stesso vale anche per la poesia, per l’arte. È anch’essa attraversata da dualismi e contraddizioni ma il canzoniere, teatro-mondo tessuto dal poeta è luogo che contiene tutte queste tensioni. I grandi canzonieri vogliono essere un altro mondo nel mondo. Supremo azzardo, oggetto misterioso e marchingegno delicatissimo. E come questo, altissimo meraviglioso fallimento.

Davide Rondoni

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