La commedia degli errori – Atto I

Anche “La commedia degli equivoci”
(“The Comedy of errors” 1590 – 1594)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

La commedia degli errori - Atto I

Personaggi

SOLINO, Duca di Efeso

EGEONE, mercante di Siracusa

ANTIFOLO DI EFESO, ANTIFOLO DI SIRACUSA: figli gemelli di Emilia ed Egeone

DROMIO DI EFESO, DROMIO DI SIRACUSA: servi gemelli dei due Antifoli

BALTHAZAR, mercante

ANGELO, gioielliere

DOTTOR PINCH, maestro di scuola ed esorcista

PRIMO MERCANTE

SECONDO MERCANTE

UNA GUARDIA

UN CARCERIERE

UN MESSO

EMILIA, moglie di Egeone e Priora dell’Abbazia di Efeso

ADRIANA, moglie di Antifolo di Efeso

LUCIANA, sua sorella

LUCE (o NELL), sguattera in casa di Adriana

UNA PROSTITUTA

Guardie, Carnefice, Alabardieri

ATTO PRIMO – SCENA PRIMA

Entrano [Solino,] Duca di Efeso, [Egeone,] mercante di Siracusa, un carceriere, e altre guardie

EGEONE

Fa’ presto a condannarmi, ora, Solino;

la morte porrà fine a ogni mio affanno.

DUCA

Niente suppliche più, Siracusano:

non son disposto a infrangere le leggi.

L’inimicizia e l’odio che fra noi

son derivati dal crudele oltraggio

del vostro duca ai nostri laboriosi

mercanti, che se privi di moneta

per il riscatto, pagano col sangue,

a sigillo dei suoi ferrei decreti,

dai nostri sguardi ogni pietà cancellano.

Così, dopo le lotte sanguinose

tra noi e i tuoi violenti confratelli,

si è decretato in sinodi solenni

a Siracusa e qui, che ogni commercio

fra le città nemiche sia proibito.

Dico di più: se un nativo di Efeso

viene scoperto in piazza o nel mercato

di Siracusa, o un tuo concittadino

approda a questa baia, viene ucciso,

e i suoi beni dal Duca confiscati,

se una somma di almeno mille scudi

non può pagare per il suo riscatto.

Tu disponi, per esser generosi,

sì e no di cento, forse ancora meno:

dunque la legge ti condanna a morte.

EGEONE

Pure, un conforto: quando il tuo discorso

sarà finito, tutti i miei affanni

svaniranno al calare della sera.

DUCA

Ma raccontaci un po’, Siracusano,

perché hai lasciato la casa e la patria

e per quale ragione sei a Efeso.

EGEONE

E un compito gravoso che m’imponi,

questo dolore mio non ha parole.

Ma perché il mondo sappia che è natura

che mi condanna, non offesa o colpa,

dirò quel poco che il dolore lascia

che vi racconti. Nacqui a Siracusa,

e a Siracusa avevo anche una moglie,

che viveva per me, con me felice,

finché il destino non ci è stato avverso.

La vita era serena; e le ricchezze

crescevano coi miei frequenti viaggi

verso Epidamno. Morto un nostro agente,

per prender cura delle tante merci

rimaste incustodite, dalla sposa

e dal suo affetto un giorno mi staccai,

ma prima che passassero sei mesi

ella stessa, che pure allor soffriva

le pene così dolci ad ogni donna,

aveva già deciso di seguirmi;

e sana e salva a me si ricongiunse.

Non passò molto tempo che divenne

madre felice di due figli maschi,

fra loro, strano a dirsi, così uguali

che il nome appena poteva distinguerli.

Lo stesso giorno, in quello stesso alloggio,

una povera donna partoriva

due gemelli, fra loro somiglianti.

Miseri entrambi, lei e suo marito

li cedettero a me, che li allevassi

perché fossero servi dei miei figli.

Non poco fiera dei suoi due gemelli,

ogni giorno mia moglie mi pregava

di tornare, ed infine, a malincuore

dissi di sì. Ma ahimè, troppo affrettata

fu la nostra partenza.

Solo a una lega appena da Epidamno,

quel mare che ubbidisce sempre ai venti

ci diede infausti segni di pericolo.

E non c’era speranza: i rari squarci

nel cielo oscuro, di una morte certa

parlavan minacciosi ai nostri cuori.

Io l’avrei accettata, quella morte,

ma il pianto disperato di mia moglie

alla vista di quel che ci aspettava,

i lamenti pietosi dei bambini,

che piangevan così, per imitarci,

senza sapere che cosa temessero,

mi spinsero a cercare in ogni modo

di rimandare il nostro triste fato.

E fu così: non c’era via d’uscita.

I marinai intanto si gettavano

sulla scialuppa in cerca di salvezza,

lasciando a noi la nave condannata.

Più premurosa dell’ultimo nato,

mia moglie lo legava a uno degli alberi

di scorta; e insieme a lui, ben stretto,

c’era uno degli altri due gemelli,

mentre io mi occupavo del secondo.

Lo sguardo fisso a quello fra i due bimbi

che si era stabilito di proteggere,

mia moglie e io ci tenevamo stretti

all’albero maestro, che seguendo

le correnti, via via fino a Corinto,

o così credevamo, ci sospinse.

Riapparso, il sole infine disperdeva

quegli orridi vapori, e col conforto

dei suoi raggi ci apparvero placati

i marosi. Lontano, all’orizzonte,

ecco allora due navi, che veloci

verso di noi venivano: la prima

di Corinto, quell’altra di Epidamno.

Ma prima che giungessero… oh ti prego,

fammi tacere. Il resto della storia

non lo indovini da quel che è successo?

DUCA

Continua invece, vecchio; non fermarti.

Io non potrò concederti il perdono;

ma senza dubbio avrai la mia pietà.

EGEONE

Gli dei, purtroppo, non ne hanno avuta;

e ho ben ragione a chiamarli crudeli.

Prima che a dieci leghe di distanza

giungessero le navi, ci trovammo

davanti a un grosso scoglio; la violenza

dello scontro spezzava in due la nave

proprio nel mezzo, e l’ingiusta condanna

di quel divorzio da noi non voluto,

lasciava all’uno e all’altra di noi due

causa di pianto e causa di conforto.

Meno pesante, ma non meno carica

di dolori e d’affanno, quella parte

dov’era la mia sposa, fu sospinta

più rapida dai venti; e li vedemmo

coi nostri occhi tutti e tre soccorsi

da gente, si pensava, di Corinto.

Un’altra nave infine ci raccolse,

e sapendo chi avevano salvato,

ci accolsero ospitali e generosi,

volevano donarci il cibo stesso

che avevano pescato i loro uomini,

ma alle vele era lenta la risposta

del loro scafo, e questo li decise

al ritorno. Ora sai come ogni gioia

mi sia negata, come la sventura

prolunghi la mia vita al solo scopo

di raccontare questa triste storia.

DUCA

E per amore dei tuoi cari, quelli

la cui scomparsa tanto ti addolora,

narra quel che è accaduto, a loro e a te.

EGEONE

Il mio figlio minore, non minore

per la cura e l’affetto che gli porto,

decise a diciott’anni di cercare

il fratello perduto, e mi chiedeva

che col suo servo, egualmente privato

del suo gemello, ma non del suo nome,

lo lasciassi partire alla ventura.

Io da un lato ero ansioso di riavere

un figlio, ma dall’altro paventavo

di perdere anche il solo a me rimasto.

Per cinque estati ho percorso le terre

più remote di Grecia, ho superato

i confini dell’Asia; nel ritorno,

lungo le coste, sono giunto a Efeso,

senza alcuna speranza, ma deciso

a non lasciare nulla d’intentato,

in nessun luogo abitato dall’uomo.

Finisce qui, lo vedi, la vicenda

della mia vita; e ne sarei felice

se nella morte avessi la certezza

che sono ancora vivi i miei due figli.

DUCA

O misero Egeone, com’è dura

la sorte che i tuoi fati ti hanno imposto.

Credimi, se non fosse violazione

delle leggi, del mio potere stesso,

della mia dignità, del giuramento

che nessuno potrebbe mai tradire,

l’animo mio ti sarebbe vicino

e sosterrebbe la tua causa. A morte

sei stato condannato, e la sentenza

non si può revocare senza danno

del nostro onore; eppure voglio ancora

favorirti per quanto è in mio potere.

Ecco, mercante, hai un giorno di tempo.

Cerca aiuto fra tutti i tuoi amici,

se ne hai qualcuno a Efeso; implora

che ti diano denaro, in dono o in prestito;

se raggiungi la somma, potrai vivere.

Se non riesci, è la morte. Carceriere,

lo affido a te.

CARCERIERE

Signore.

EGEONE

Disperato

s’incammina Egeone, al solo scopo

di rimandare un poco questa fine

di una vita che ormai non è più vita. Escono.


ATTO PRIMO – SCENA SECONDA

Entrano Antifolo [di Siracusa, il primo] mercante, e Dromio [di Siracusa].

PRIMO MERCANTE

Dite allora che siete di Epidamno,

se non volete che anche i vostri beni

vengano confiscati. Oggi un mercante

di Siracusa è stato catturato

e non avendo di che riscattare

la propria vita, prima del tramonto

morrà come prescrivono le leggi.

Questo è il denaro che avevo in custodia.

ANTIFOLO S.

Prendilo, Dromio, e portalo al Centauro

dove alloggiamo, e resta lì ad attendermi;

fra un’ora sarà tempo di pranzare

e intanto esplorerò questa città,

gli edifici, i costumi, i commercianti.

Poi tornerò al mio albergo: il lungo viaggio

mi ha stancato, ho bisogno di riposo.

Vai, presto.

DROMIO S.

Molti vi prenderebbero in parola,

e non se lo farebbero ripetere,

avendo un’occasione così buona. Esce.

ANTIFOLO S.

È un buffone, vedete, ma è fidato,

e spesso, quando sono malinconico,

cerca di rallegrarmi coi suoi scherzi.

Volete unirvi a me, in questo cammino

per la città, e più tardi al mio alloggio

per il pranzo?

PRIMO MERCANTE

Non posso, altri mercanti

dai quali spero trarre beneficio

mi hanno invitato già; vi chiedo scusa.

Potrei vedervi alle cinque, in piazza,

e restare con voi fino a stasera;

gli affari ora mi impongono il congedo.

ANTIFOLO S.

Dunque a più tardi. Io ora per le strade

della città voglio perdermi un poco,

e vagare così, senza una meta.

PRIMO MERCANTE

Mio signore, io vi auguro ogni bene. Esce.

ANTIFOLO S.

Chi mi augura il bene, raccomanda

quello che a me sarà sempre negato.

Che cosa faccio io al mondo? Cosa sono?

Sono una goccia d’acqua nell’oceano

che invano cerca un’altra goccia, e poi,

non riuscendo a trovar chi le somigli,

angosciata, non vista, si disperde.

Così anche io, nella vana illusione

di trovare una madre ed un fratello,

riuscirò solo a perdere me stesso.

Entra Dromio di Efeso.

Ma ecco un almanacco, che registra

la mia data di nascita. Che cosa

succede? Perché hai fatto così presto?

DROMIO E.

Presto? Direi piuttosto troppo tardi.

E cappone si brucia, la porchetta

cade giù dallo spiedo, l’orologio

ha battuto dodici colpi, e un tredicesimo

me l’ha affibbiato in faccia la padrona;

lei si è scaldata perché il pranzo è freddo,

la carne è fredda ché non siete a casa,

non siete a casa non avendo fame,

se non l’avete è perché avete rotto

il digiuno: così noi, che ben sappiamo

quand’è ora di digiunare e di pregare,

per colpa vostra siamo in penitenza.

ANTIFOLO S.

Ma basta, smetti questa filastrocca.

Dove hai messo il denaro che ti ho dato?

DROMIO E.

Ah, voi volete dire i sei centesimi

dell’altro venerdì, per il sellaio

che li doveva aver per la groppiera

della padrona? Certo, glieli ho dati,

non li ho tenuti io.

ANTIFOLO S.

Basta scherzare.

Non sono in vena. I soldi dove sono?

Siamo stranieri qui: come hai osato

lasciare in giro una somma del genere?

DROMIO E.

Signore, questi scherzi riservateli

per la tavola. Senza por tempo in mezzo

mi ha mandato a chiamarvi la padrona;

se torno senza di voi ci sarò io

in mezzo ai guai, e sarà la mia zucca

a pagare per voi. Ma su, fidatevi

dell’orologio che è nel vostro stomaco!

Fosse simile al mio, sareste corso

subito a casa e senza messaggeri.

ANTIFOLO S.

Su, Dromio, ora lo scherzo è fuori luogo.

Riservalo a un momento più appropriato.

Voglio sapere dove hai messo l’oro.

DROMIO E.

A me, signore? Non ne avete dato.

ANTIFOLO S.

Basta, furfante, con queste sciocchezze.

Di’ piuttosto che hai fatto dei miei ordini.

DROMIO E.

Era uno il mio ordine: andarvi a prendere

al mercato e portarvi a casa vostra,

alla Fenice, signore, per il pranzo,

li vi aspettano la padrona e sua sorella.

ANTIFOLO S.

Com’è vero che sono uomo di fede

dimmi ora dove hai messo quel denaro.

Se non rispondi, ti rompo quel muso

che insiste negli scherzi oltre ogni limite.

T’ho dato mille piotte: dove sono?

DROMIO E.

Oh, di piotte da voi ne ho avute tante

sulla testa, e le altre la padrona

me le ha suonate sulla schiena; ma fra tutte

a mille non si arriva. E se dovessi

restituirle a vostra signoria,

non ne sareste tanto soddisfatto.

ANTIFOLO S.

La padrona? sei pazzo? e chi sarebbe?

DROMIO E.

Vostra moglie, signore, la padrona

che è alla Fenice, e non si siede a tavola

finché voi non rientrate, e vi scongiura

di fare presto, e di tornare a casa.

ANTIFOLO S.

Continui nonostante i miei divieti

con queste ciance? Prendi, mi hai stancato.

[Batte Dromio.]

DROMIO E.

Che volete, padrone? Per amore

del cielo, su, frenate quelle mani,

o io dovrò affidarmi alle mie gambe. Esce.

ANTIFOLO S.

Ci scommetto la testa, quello sciocco

è stato derubato dei miei soldi,

in un modo o nell’altro. La città

dicono, è piena di diavolerie,

giocolieri che ingannano la vista,

demoni occulti che ti cambian l’anima,

stregoni che deformano il tuo corpo,

erranti ciarlatani, che ti frodano

protetti dalle maschere e al peccato

in mille forme inducono. Per questo

sarà bene ch’io fugga appena posso.

Ora al Centauro seguo quell’infame,

mi tormenta il pensiero di quell’oro. Esce.

La commedia degli errori
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