Anche “La commedia degli equivoci”
(“The Comedy of errors” 1590 – 1594)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
ATTO SECONDO – SCENA PRIMA
Entrano Adriana, moglie di Antifolo [di Efeso], con Luciana, sua sorella.
ADRIANA
Non torna mio marito, né lo schiavo
che ho mandato a chiamarlo in tanta fretta?
Pure, Luciana, sono già le due.
LUCIANA
Forse un mercante lo ha invitato a pranzo.
Su, mettiamoci a tavola anche noi,
sorella cara, e non ti preoccupare.
Della sua libertà l’uomo è signore;
ed il tempo a sua volta è il suo padrone.
Verrà quando potrà: porta pazienza!
ADRIANA
Vale di più la libertà degli uomini
di quella di noi donne?
LUCIANA
Certamente,
ché tocca loro andare a lavorare.
ADRIANA
Ma quando provo io a uscire di casa,
lui subito s’infuria.
LUCIANA
Naturale:
è la sua volontà quella che conta.
ADRIANA
Siamo bestie da soma, che la briglia
dobbiamo sopportare?
LUCIANA
Peggio ancora
sarebbe libertà senza alcun freno.
Nulla è privo di limiti nel cielo,
in mare, o in terra: ai maschi della specie
ubbidiscono fiere, pesci, uccelli,
e al loro dominio si assoggettano.
L’uomo, che è signore in questo mondo
e su tutti gli oceani sconfinati,
che è dotato di mente, d’intelletto,
di animo che lo rende a Dio vicino,
ben superiore ai pesci e ai volatili,
non può non comandare sulla donna:
tanto vale tu accetti di buon grado.
ADRIANA
Questo ti fa evitare il matrimonio.
LUCIANA
No, è quel che accade nel letto nuziale.
ADRIANA
Ma se fossi sposata, tu dovresti
sopportare un bel peso!
LUCIANA
Imparerei
l’ubbidienza ancor prima dell’amore.
ADRIANA
Se al tuo sposo piacesse un’altra donna?
LUCIANA
Attenderei paziente il suo ritorno.
ADRIANA
Sei un vero modello di virtù.
Per forza esita! Si sottomette
chi non ha un’altra scelta. Consigliamo
la pazienza a chi piange, ed a chi soffre
pene e tormenti, ma se mai toccasse
a noi subirli, ben altri lamenti
noi leveremmo al cielo. Così tu,
che non hai un marito che ti opprima,
mi spingi a sopportare: bel conforto!
Al mio posto, non so che ne faresti
della sciocca pazienza a cui mi esorti.
LUCIANA
E allora vorrà dire che un bel giomo
mi sposerò, solo per dimostrare
le mie ragioni. Ecco il tuo servo; penso
che anche tuo marito sia vicino.
Entra Dromio [di] Efeso.
ADRIANA
È a portata di mano, finalmente,
questo padrone tanto puntuale?
DROMIO E.
A portata di mani, oh sì, purtroppo c’ero io, e lo attesta la mia zucca.
ADRIANA
Gli hai parlato? Lo sai che cosa ha in mente?
DROMIO E.
Me l’ha fatto capire con le botte,
il diavolo si porti le sue mani;
e mica l’ho capito tanto bene.
LUCIANA
Parlava così oscuro che non hai colto il senso?
DROMIO E.
No, era chiaro, quei colpi li ho sentiti troppo bene, e così è diventato tutto scuro e il senso non l’ho proprio visto più.
ADRIANA
Ma insomma sta venendo a casa o no?
Vedi un po’ che riguardi ha per sua moglie!
DROMIO E.
Secondo me gli prudono le coma …
ADRIANA
Le coma? Ma sei pazzo? Cosa dici?
DROMIO E.
Ma non nel senso che pensate voi.
Dico che era furioso come un toro.
Quando gli ho chiesto se veniva a cena,
ha detto, bene, dammi i mille scudi.
“Ora di cena gli dico, e lui: “Il mio oro!”
“la carne brucia”, faccio io, e lui: “Il mio oro!”
“Volete venire a cena?” E quello:
“Dov’è tutto quell’oro che ti ho dato?”
“Il maiale brucia”, e lui: “Voglio il mio oro!”
“La mia padrona…” dico io. “All’inferno
la tua padrona, ma chi la conosce?”
LUCIANA
E questo chi lo dice?
DROMIO E.
Lui, signora.
“Non so niente di casa, né di moglie”,
dice, “né di padrona; e il mio messaggio,
invece di affidarlo alla mia lingua,
me lo sono portato sulle spalle;
ché a dirla in breve, li me le ha suonate.
ADRIANA
Torna indietro e riportalo qui a casa.
DROMIO E.
Per rifare la strada a suon di sberle?
Non ci sarebbe un altro messaggero?
ADRIANA
Su, corri, svelto, o ti spacco la testa!
DROMIO E.
Ma certo, così lui completa l’opera
e fra voi due divento santo e martire!
ADRIANA
Smetti di blaterare e va’ a chiamarlo! [Batte Dromio.]
DROMIO E.
Credete che io sappia rimbalzare
come un pallone da prendere a calci?
Voi mi calciate là, lui mi respinge …
Se volete che io duri qui in servizio,
dovrete rivestirmi tutto in cuoio. [Esce.]
LUCIANA
Come ti rende brutta l’impazienza!
ADRIANA
Lui perde tempo con qualche donnetta;
e io a casa mi struggo nell’attesa.
Se l’età ha cancellato ogni attrattiva
dal mio povero viso, è colpa sua.
Forse non so parlare? Non ho spirito?
Se son priva di grazia e di gaiezza,
è la sua scortesia che mi incupisce.
Altre sanno attirarlo con le armi
di ricche vesti e sete colorate,
ma del mio stato è lui il responsabile.
Quali mancanze mi puoi imputare
che da lui non derivino? Un sorriso,
un suo sguardo sarebbe sufficiente
a riparare i guasti sul mio volto.
Ma lui, insofferente di ogni limite,
va a pascolare altrove; io, poveretta,
sono sempre e soltanto il suo zimbello.
LUCIANA
Su, smetti questa folle gelosia
che fa male a te sola!
ADRIANA
Un torto simile
solo una sciocca senza sentimenti
potrebbe perdonare. È chiaro, ormai:
lui si sta interessando a un’altra donna.
Altrimenti perché non è con me?
Te l’ho detto, sorella, mi ha promesso
un bel monile, una catena d’oro;
ma io preferirei se ne scordasse
purché si ricordasse del suo letto.
Anche i gioielli più costosi e lustri
perdono prima o poi ogni attrattiva;
l’oro, che resta oro anche se passa
di mano in mano, con l’andar del tempo
può consumarsi a forza di contatti.
Lo stesso accade all’uomo, la cui fama
può durare o sparire tutt’a un tratto,
per colpa di calunnie o corruzione.
Non più gradita agli occhi del mio sposo,
la mia bellezza o quello che ne resta
annegherò nel pianto, e ne morrò.
LUCIANA
Quante vittime fa la gelosia! Escono.
ATTO SECONDO – SCENA SECONDA
Entra Antifolo [di Siracusa].
ANTIFOLO S.
L’oro che ho dato a Dromio è già al Centauro,
e lui gira qui intorno per cercarmi,
a caso o forse con le indicazioni
del taverniere. Non l’ho più veduto
dopo averlo cacciato dal mercato,
a dire il vero; ma eccolo che viene.
Entra Dromio di Siracusa.
Ti è passata la voglia di scherzare?
Se ci tieni alle botte, ricomincia.
Non conosci il Centauro, non hai visto
nessun denaro, a pranzo mi ha invitato
una certa signora, alla Fenice
io abito… Che ti era capitato?
Perché inventavi tutte quelle storie?
DROMIO S.
Quali storie, signore? Quando mai
io vi avrei raccontato cose simili?
ANTIFOLO S.
Ma adesso, meno di mezz’ora fa.
DROMIO S.
Non vi ho più visto dopo che al Centauro
mi avete inviato con tutto quell’oro.
ANTIFOLO S.
Furfante, tu giuravi e spergiuravi
che non ti avevo dato niente, e mi parlavi
di una signora e di un invito a pranzo:
uno scherzo che, spero, avrai capito,
non mi andava per niente.
DROMIO S.
Son contento
che abbiate voglia di giocare, ma non credo
di capire lo scherzo. Che significa?
ANTIFOLO S.
Vieni a prendermi in giro, e poi racconti
che sono io a scherzare? Prendi questo
e questo, e questo pure! Batte Dromio.
DROMIO S.
No, un momento!
Questo scherzo diventa troppo serio.
Ditemi, a cosa debbo questo onore?
ANTIFOLO S.
Perché ti tratto spesso in confidenza,
rido ai tuoi lazzi, e chiacchiero con te,
tu ti approfitti della mia bontà,
e trasformi in sciocchezze cose serie.
Col sole alto nel cielo, anche le mosche
svolazzano qua e là, ma poi si posano
dopo il tramonto. Cerca di capire
dal mio aspetto qual è il momento giusto
per ridere; altrimenti con le botte
te lo dovrò insegnare sulla zucca.
DROMIO S.
Quella che chiamate zucca, e che vi chiederei rispettosamente di non battere più, si dà il caso che sia una testa. E se continuate di questo passo, dovrò proteggerla con un elmo e non tirarla più fuori, se non voglio che il cervello mi finisca fra le scapole. Posso sapere perché me le suonate?
ANTIFOLO S.
Non lo sai?
DROMIO S.
Io so solo che le prendo.
ANTIFOLO S.
Devo dirti il perché?
DROMIO S.
Vi sarei grato: dicono che per ogni perché c’è il suo percome.
ANTIFOLO S.
Perché mi hai preso in giro; e poi, per come
hai avuto il coraggio di rifarlo.
DROMIO S.
Mah, non credo che nessuno sia mai stato picchiato fuori stagione come me; nei vostri perché e percome non ci trovo né un senso né una buona versificazione. In ogni caso, vi ringrazio.
ANTIFOLO S.
Perché?
DROMIO S.
Perché mi avete dato qualche cosa in cambio di un bel niente.
ANTIFOLO S.
Stai tranquillo, ché la prossima volta, te lo giuro, ti darò niente in cambio di qualcosa. Ma dimmi, è ora di pranzo?
DROMIO S.
Non direi; la carne, signore, non è stata trattata come sono stato trattato io.
ANTIFOLO S.
Sarebbe a dire, tanto per saperlo?
DROMIO S.
Non è stata battuta, mio signore.
ANTIFOLO S.
Sarà ancora un po’ dura, in questo caso.
DROMIO S.
Vi prego appunto di non mangiarne, signore.
ANTIFOLO S.
E per quale motivo?
DROMIO S.
Perché potreste montare in collera, e così io sarei battuto un’altra volta.
ANTIFOLO S.
Comunque, devi imparare a scherzare al momento giusto. Ogni cosa a suo tempo.
DROMIO S.
Mi permetterei di contraddirvi se non foste in collera.
ANTIFOLO S.
E con quale argomento?
DROMIO S.
Ma signore, con un argomento chiaro e nitido come la zucca pelata del Tempo in persona.
ANTIFOLO S.
Sentiamolo.
DROMIO S.
Che non c’è il tempo, per chi resta pelato, di riavere naturalmente la sua capigliatura.
ANTIFOLO S.
Ma ci dev’essere il tempo e il modo di recuperarla per procura.
DROMIO S.
Oh sì, procurandosi una parrucca a pagamento, e recuperando il pelo perduto da qualcun altro.
ANTIFOLO S.
Ma perché il tempo è così avaro di peluria, mentre ne cresce tanto in abbondanza?
DROMIO S.
Perché ne fornisce tanto agli animali, e in compenso all’uomo regala il cervello.
ANTIFOLO S.
Ma è anche vero che certi uomini hanno più pelo che cervello.
DROMIO S.
Molti però hanno così poco cervello da perdere il pelo.
ANTIFOLO S.
Sarebbe a dire che gli uomini molto pelosi non combinano gran che e hanno poco sale in zucca.
DROMIO S.
Più cercano di combinare, e più restano pelati, ma almeno perdono il pelo in modo piacevole.
ANTIFOLO S.
Per quale ragione?
DROMIO S.
Le ragioni sono due, e sono entrambe sensate.
ANTIFOLO S.
Non troppo sensate, direi.
DROMIO S.
Diciamo allora: sicure.
ANTIFOLO S.
Come può essere sicura una cosa falsa?
DROMIO S.
E allora dirò: evidenti.
ANTIFOLO S.
Sentiamole.
DROMIO S.
La prima è che risparmiano i soldi del barbiere; la seconda che non gli cadono capelli nella minestra.
ANTIFOLO S.
E tutta questa tiritera doveva dimostrare che non è vero che ci sia il tempo per ogni cosa?
DROMIO S.
Infatti, signore: ho dimostrato che non c’è tempo di recuperare i capelli perduti per cause naturali.
ANTIFOLO S.
Con argomenti così fiacchi, il tempo lo si perde e basta.
DROMIO S.
Cercherò di correggerli così: il Tempo stesso non ha peli sulla zucca, e lo stesso accadrà alla fine del mondo ai suoi seguaci.
ANTIFOLO S.
E tu nella zucca non hai sale, come del resto sospettavo prima che tu arrivassi a questa conclusione. Ma aspetta, chi è che ci fa dei cenni di laggiù?
Entrano Adriana e Luciana.
ADRIANA
Oh, Antifolo, mi guardi corrucciato,
non mi conosci, pensi a un’altra donna;
io non sono Adriana, né tua moglie.
Lontano il tempo in cui, senza bisogno
che lo chiedessi, spesso mi giuravi
che mai parole musica agli orecchi,
mai figura piacevole ai tuoi occhi,
mai tocco era gradito alla tua mano,
se non parlavo, se non ti guardavo,
non ti sfioravo, non porgevo il piatto
con la mia mano! Oh, cos’è accaduto,
cos’è accaduto, sposo mio, che cosa
ti ha spinto ad estraniarti da te stesso?
Te stesso, dico: tu non riconosci
una parte di te che sempre unita
e indivisa al tuo corpo e alla tua anima
più d’ogni altra ti deve essere cara.
Ah, non allontanarti, resta unito
alla tua sposa; se tu getti in mare
una singola goccia, puoi sperare
di ritrovare poi la stessa goccia
intatta, non mischiata ad altri liquidi?
Lo stesso per noi due: non puoi dividere
da me te stesso senza che io ti segua.
Pensa al furore che ti coglierebbe
se venissi a sapere che ti inganno,
che questo corpo, già a te consacrato,
viene contaminato da lussuria!
Tu mi disprezzeresti, avresti orrore,
mi grideresti “io sono tuo marito” ,
strappando via la pelle dal mio viso
e l’anello nuziale dal mio dito,
per calpestarlo in segno di ripudio!
Così faresti, e così devi fare
fin d’ora: il tuo peccato è nel mio sangue,
perché se mi tradisci, e se noi siamo
una sola persona, il tuo veleno
mi contagia, di me fa una sgualdrina.
Resta fedele al talamo nuziale:
tu sarai onorato, io senza macchia.
ANTIFOLO S.
Parlate a me? Ma io, bella signora,
non vi conosco, e solo da due ore
sono in questa città, straniero a tutti
e alle vostre parole: io cerco invano,
aguzzando il mio ingegno, di capirle.
LUCIANA
Che vergogna, cognato, sembra proprio
che tu venga da un altro mondo! Quando
tua moglie hai mai trattato in questo modo?
Lei ti aspettava, ed ha mandato Dromio
per le strade a cercarti.
ANTIFOLO S.
Dromio?
DROMIO S.
Io?
ADRIANA
Certo, mentre tu, invece, al tuo ritorno,
hai raccontato che ti ha preso a botte,
negando di conoscermi…
ANTIFOLO S.
Ma allora
tu hai parlato con questa gentildonna?
Potrei sapere che è questo complotto?
DROMIO S.
Giuro, signore, che non l’ho mai vista.
ANTIFOLO S.
Menti, furfante, tu mi hai riportato
le sue parole in piazza del mercato.
DROMIO S.
Giuro, signore, non le ho mai parlato.
ANTIFOLO S.
Allora come spieghi che ci chiama
per nome? grazie a quale ispirazione?
ADRIANA
Credi, è indegna di te questa commedia,
recitata d’accordo col tuo schiavo
che istruisci perché mi contraddica.
Forse è per colpa mia che non mi ami,
ma perché aggiungi a questo il tuo disprezzo?
Vieni, voglio aggrapparmi alla tua veste:
tu, sposo, sei il tronco, e io la vite,
fragile sì, ma unita alla tua forza
con un saldo legame che riscatta
ogni mia debolezza. Se qualcosa
prende di te possesso e ti divide
da me, si tratta certo di un’erbaccia
parassitaria, o un rovo, o un muschio inutile,
da recidere subito, altrimenti
corrompendo e infettando la tua linfa
vivrà della tua stessa distruzione.
ANTIFOLO S. [a parte]
È a me che parla, è di me che vaneggia.
Ma allora forse l’ho sposata in sogno,
o forse sogno adesso, e credo solo
di ascoltare parole inesistenti.
Quale errore confonde le mie orecchie,
i miei occhi? Finché non si fa luce
sarà meglio prestarsi a questo gioco.
LUCIANA
Dromio? Va’ a dire ai servi che preparino.
DROMIO S. [a parte]
Dov’è un rosario? Per i miei peccati
io voglio farmi il segno della Croce.
Questo è il paese delle fate. Che spavento.
Si parla con gli spiriti, i folletti,
con gli uccelli notturni, e se per caso
non ubbidiamo, quelli poi si vendicano,
e ci succhiano il fiato, oppur ci pungono,
riempiendoci di lividi bluastri.
LUCIANA
Perché parli da solo, e non rispondi?
Dromio, avanti, parlo con te, lumaca!
DROMIO S.
In un altro mi sono trasformato,
non è vero, Signore?
ANTIFOLO S.
Sì, lo credo,
almeno nello spirito; e io pure.
DROMIO S.
No, signore, nell’anima e nel corpo.
ANTIFOLO S.
Eppure tu hai l’aspetto consueto.
DROMIO S.
No. Io sono una scimmia.
LUCIANA
No, un somaro.
Ecco quello che sei, se proprio credi
di esserti trasformato in qualche cosa.
DROMIO S.
È proprio vero, perché lei mi sferza,
e io cerco solo un po’ d’erbetta fresca.
Sono un asino, sì, perché altrimenti
non si spiega che io non la conosca
mentre lei mi conosce così bene.
ADRIANA
Basta, non voglio fare più la sciocca
piagnucolando mentre ad una voce
servo e padrone ridono di me.
A tavola, signore. Tu, al portone.
Quest’oggi, sposo, pranzeremo insieme
e a me confesserai le tue mancanze.
Tu, Dromio, a chi ti chiede del padrone,
dirai che pranza fuori, e bada bene
che non entri nessuno. Su, sorella,
vieni con me. Mi raccomando, Dromio,
cerca di fare bene il tuo dovere.
ANTIFOLO S. [a parte]
Sono in cielo, in terra, o già all’inferno?
È sonno o veglia, ragione o non-senso?
A questi familiare, a me straniero?
Farò quel che mi dicono, e andrò avanti
fino alla fine, a rischio di smarrirmi
in questa nebbia. Sono pronto a tutto.
DROMIO S.
Signore, allora io resto qui al portone?
ADRIANA
Sì, te l’ho detto; e devi stare attento:
che non entri nessuno, o te le suono.
LUCIANA
Su, Antifolo: è davvero troppo tardi. [Escono.]
La commedia degli errori
Anche “La commedia degli equivoci”
(“The Comedy of errors” 1590 – 1594)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V