Di Goffredo Raponi.
Sulla rappresentabilità dei testi teatrali shakespeariani come di materiale letterario ancora suscettibile di “ricreare Shakespeare nella parola parlata e nel gesto” la critica non ha indagato abbastanza. Si continua a tradurre Shakespeare per il teatro, su testi che di teatrale hanno ben poco, perché non sono gli stessi messi in scena all’epoca della loro prima fattura; ne risulta che, per rendere teatrale sui nostri palcoscenici lo Shakespeare a noi pervenuto, registi come Ronconi devono vestire i pretoriani di “Antonio e Cleopatra” con casacche di cuoio nero delle SS naziste, e far tradurre in prigione re Lear e sua figlia Cordelia su di una jeep americana; che registi come Brook devono vestire Petruccio e Caterina della “Bisbetica addomesticata” nei panni di personaggi del ‘700, e così via. Sicché chi va a teatro convinto di andare a vedere e ascoltare Shakespeare, vede e ascolta un’altra cosa, credendo di vedere e ascoltare Shakespeare.
Gli è che lo Shakespeare giunto fino a noi, è il risultato di tante vicissitudini e di guasti incontrati nel tempo dai testi originali, che di questi è rimasto relativamente poco. Si sa che non esistono manoscritti dell’uomo Shakespeare. Tutto quello che si conosce della sua opera è il testo manipolato, riveduto e corretto dagli editori che l’hanno pubblicato non per la rappresentazione scenica, ma per la sola lettura. Si sa anche che Shakespeare, come tutti i drammaturghi elisabettiani, salvo rarissime eccezioni, non si curava di veder pubblicati i suoi lavori; e non rivide per la stampa nessuno dei suoi drammi: quei pochi che uscirono stampati lui vivente erano materiali che editori /librai londinesi di pochi scrupoli si erano procurati furtivamente (“surrepticiously and lamely” – dice Nicholas Rowe nella sua “Vita di W. Shakespeare“) e che stamparono nei famosi formati in-quarto da manoscritti ottenuti per le vie più traverse: o da copioni delle parti abborracciate insieme da attori infedeli, o da ricostruzioni mnemoniche di questi e messe giù dagli stessi o da amanuensi.” Del resto – nota Giorgio Melchiori nel suo saggio “Shakespeare” (Laterza, 1994, pag. 11) – anche quando era la compagnia stessa a fornire il testo all’editore, non si trattava quasi mai del prezioso copione in uso per la rappresentazione; il testo stampato era la riproduzione, con varianti più o meno arbitrarie, o di prime stesure manoscritte (foul papers) dall’autore, piene di correzioni e riscritture, scartate dalla compagnia dopo che da esse era stato ricavato il copione (prompt book); oppure di una bella copia ad opera di un amanuense professionista preparata per compiacere qualche intenditore di teatro”.
Si trattava in ogni caso, anche nelle intenzioni della compagnia, oltre che dell’editore, di edizioni intese alla lettura e non alla rappresentazione scenica. Che questa tendenza e questa pratica fossero già in uso all’epoca di Shakespeare si può rilevare da una nota apparsa sulla pagina di frontespizio di una pubblicazione contemporanea, il dramma storico di Barnaba Barnes “The Devil’s Charter” (“Il codice del diavolo”), un drammone senechiano sulle tecniche degli avvelenamenti alla corte di papa Alessandro Borgia. Il dramma era stato rappresentato a corte (Giacomo I regnante) nel febbraio 1607 dalla “Compagnia degli attori del re” (The King’s Men) di cui faceva parte Shakespeare. La pubblicazione a stampa che apparve nell’autunno successivo recava una nota di frontespizio che, dopo aver accennato alla avvenuta messa in scena del copione, dice: “Dopo di allora riveduto, corretto e ampliato dall’autore, per il maggior piacere e l’utilità dei lettori” (la sottolineatura è nostra).
Dunque già da allora si distingueva fra testo per la scena e testo per la lettura, fra teatro e libro. Il Barnes suffraga questa tesi affermando che la lettura di un’opera drammatica letterariamente valida richiede particolari accorgimenti e riguardi perché si rivolge ad un pubblico normalmente diverso dal pubblico teatrale: maggiori dettagli del contesto, per la migliore comprensione di frasi e costrutti che, detti dall’attore e còlti a volo dalla sua voce, possono sfuggire o perdere di significato e di gusto; ricchezza di indicazioni sceniche (stage instructions) per permettere al lettore di supplire con la fantasia alla immediatezza visiva della scena recitata; ripetizioni e ampliamenti per non far perdere il filo; oltre, naturalmente, a cultura storica e letteraria in chi legge. In breve: la frapposizione fra testo teatrale e pubblico fruitore di elementi estranei al teatro.
Sul frontespizio degli in-folio shakesperiani – che sono in parte rifacimenti dei testi apparsi nei primi in-quarto -, non si trova una simile nota; vi si legge però che il testo pubblicato a stampa è stato riveduto ed ampliato e non corrisponde al testo originariamente recitato. Se la critica shakespeariana avesse studiato più seriamente questa tendenza che Barnes formulava già da allora con tanta chiarezza, sarebbe giunta forse alla conclusione cui è giunto questo traduttore: e cioè che i testi teatrali shakespeariani che ci sono giunti pubblicati non sono altro che la trasposizione, da parte dei primi editori e di successivi, di testi scenici rappresentati in testi riveduti, corretti e ampliati, intesi a non essere più rappresentati, ma solo letti. E che solo la lettura, specie nel testo tradotto, può offrire al pubblico la fruizione dell’opera del poeta, sceverando dalla pula l’autentico grano shakespearieno: che si riconosce da quello di qualsiasi altro suo contemporaneo. A un inglese è ancora possibile “ricreare” Shakespeare attraverso l’audizione, e cioè attraverso il legame linguistico; anche se questo non sia parso ancora sufficiente agli inglesi, se non sia integrato dall’atmosfera e dall’ambiente; e a tal fine hanno voluto ricostruire dalla fondamenta lo stesso teatro – il “Globe” – dove alla fine del 1500/principio 1600 si esibiva la suddetta compagnia dei “King’s Men“; ma a un non inglese, che dispone solo della traduzione, per quanto autentica, questo non è possibile se non con la lettura, accompagnata, sostenuta e integrata da opportune note.
La smania dei moderni teatranti di seguitare a includere Shakespeare nei loro repertori, salvo a travisarlo e tradurlo – e tradirlo – nelle vesti più arlecchinesche, quasi quale “status symbol” di una compagnia o di un singolo attore, è dunque solo un fanatismo di moda, che non ha nulla a che vedere con il vero Shakespeare, e che assume addirittura, agli occhi dei più avveduti, un sapore antishakespeariano. C’è da chiedersi, infatti, perchè della enorme produzione drammatica del periodo elisabettiano (“Possediamo ben quattrocento testi di drammi composti fra il 1576 e il 1613, l’anno del ritiro di Shakespeare”- testimonia Masolino d’Amico nel suo fondamentale saggio “Dieci secoli di teatro inglese, 970-1980“, Oscar Mondadori, 1981, pag. 57) si rappresenti solo Shakespeare.
La contezza di questa realtà ha ispirato queste traduzioni.
Una testimonianza recente a conforto di questa tesi è venuta dalla illustre attrice Vanessa Redgrave la quale, mentre redigiamo queste note, sta recitando a Londra, al ricostruito teatro “Globe“, appunto, la parte di Prospero nella “Tempesta“. “Vedere una commedia qui – afferma la Readgrave – è tutt’altra cosa; nel senso che s’instaura una forte comunicazione fra attori e pubblico per via dello spazio circolare. E la gente, soprattutto quella in piedi al centro, può quasi toccare gli attori, può anche bere una birra durante lo spettacolo. E può parlare; tant’è vero che in certi casi al “Globe” vengono fuori battute estemporanee fra palcoscenico e pubblico. (Intervista al quotidiano “La Repubblica”, 20 maggio 2000).
Quale fosse l’irriproducibile atmosfera di quei teatri è così descritta da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo saggio “Shakespeare” (Oscar Mondadori, 1995):
“Queste locande/teatri erano situate sulla riva destra del Tamigi (fuori dei limiti della City e della giurisdizione delle sue autorità, n.d.t.), allora del tutto campagnola, a due passi dal porto. E il pubblico era in gran parte composto da marinai e da facchini, da tavernieri e donne di malaffare: magnifici tipi di avventurieri, pronti a tirar di coltello alla minima provocazione. Nel 1597, anno del “Giulio Cesare“, avvennero nei teatri di Londra nove omicidi in rissa… Lo sfrenamento sessuale non vi aveva limiti e gli accoppiamenti avvenivano in piena platea. Quando un artista o un dramma non piaceva, non ci si contentava di disapprovare con la voce, ma si lanciavano sulla scena carogna di cani e gatti, topi morti (quei bei grossi toponi di Londra) o, per benevolenza, uova e frutta marce”.