(“Macbeth” – 1605 – 1608)
Traduzione di Nemi D’Agostino
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
Introduzione
Macbeth è da sempre considerato tra le maggiori tragedie di Shakespeare, e tra le meno «problematiche». Non ha mai sollevato conflitti d’interpretazione, ma solo qualche dubbio di genitura nei dettagli (la scena del portiere, quelle di Ecate). La critica maggiore, dandone per scontato il senso di «parabola morale», di «opera sulla dannazione» (Muir), di studio del Male che corrompe l’eroe ma provoca la riscossa e la vittoria finale del Bene, si è esercitata in questo secolo sul suo linguaggio particolarmente «attivo» e di «metafisica» intensità, e sul protagonista che per riassumere le potenzialità di bene e di male dell’uomo, incarnando il pervertirsi di un eroe eccellente: corruptio optimi pessima. Sembrerebbe insensato non seguire il simulacro tradizionale, ma io credo che questo capolavoro della maturità di Shakespeare sia un test capitale per chi avverta la necessità di sondare, dopo tanto uso, la consistenza dei capisaldi teorici (Aristotele, Hegel, Bradley) su cui è fondata l’ortodossia dominante.
C’è una qualche discordia, a mio avviso, tra la chiarezza, la perspicuità razionale, la «serenità» che l’opera acquista se la si vede come una storia umana e terrena dentro uno scenario sostanzialmente idealistico, o tanto più come un dramma morale cristiano, e la sua qualità awe-inspiring, cupa e suscitatrice di sgomento, che nella pratica scenica, si dice, spinge gli attori inglesi a evitare di pronunciarne il titolo come malaugurante, chiamandola «il dramma scozzese». Dopo tante letture aristotelico-hegeliane ci si sorprende a riscoprirvi, dice un critico inglese, «un senso costante delle potenze soprannaturali che operano dietro le azioni umane», a rendersi conto cioè che, fra le tragedie di Shakespeare, Macbeth è forse quella più pervasa dal soprannaturale: non solo le profezie, e le apparizioni, ma la tensione e lo stupore continui, il continuo interrogarsi dubbioso, il tremore e il terrore, la qualità portentosa degli eventi che coinvolgono la natura, quasi il dramma consistesse in un urto tra i due mondi. Queste sensazioni mi paiono cogliere il vero, perché il Macbeth nei suoi modi veementi mette in scena proprio quel rapporto imperscrutabile tra i due mondi che i tragici greci avevano rappresentato attraverso la «doppia motivazione» dei loro eroi (il termine viene dallo studio sull’esperienza sacrale di Rudolf Otto, Das Heilige del 1936), e che i Riformatori razionalizzavano nel concetto di predestinazione. In realtà nell’immaginario tragico, da Eschilo a Beckett, le azioni umane sono allo stesso tempo il risultato di libero e servo arbitrio: la trascendenza, realtà visibile o invisibile ma che il drammaturgo presenta, diciamo, nei suoi effetti vibratori sull’apparente, trancia come un raggio cosmico la dimensione della libertà senza annullarla, come non si annullano le due facce opposte d’un ossimoro. Macbeth si crea il proprio destino, e nello stesso tempo è coatto da un destino annunziato. Simbolo della condizione umana, egli è «foul and fair», áristos e kákistos, demoniaco e carismatico, inumano e troppo umano, tiranno e capro espiatorio, carnefice e vittima.
Hegel, per cui il male non era entità metafisica ma parte della coscienza, vedeva — mirabilmente a suo modo — emanare la tragedia dalla soggettività potente di Macbeth, dalla sua volontà selvaggia, dal suo essere totalmente e soltanto se stesso. Egli s’identifica — dopo la prima crisi e maturazione amorale — con lo scopo che il suo carattere porta alla luce, ne fa il proprio destino e con esso si distrugge senza possibilità di conciliazione oggettiva, perché la sola conciliazione possibile è nella sua stessa pietrosa, infinita costanza, che accetta la necessità e la rende propria: «così è avvenuto» e basta, senza che l’autore passi alcun giudizio su di lui: «In Shakespeare non troviamo né giustificazione né condanna, solo un’esposizione del destino che mette al loro inevitabile posto questi eroi che non si lamentano e non si pentono, ma vedono tutto, inclusi se stessi, dal proprio punto di vista» (Estetica, ediz. ital. Feltrinelli, I, p. 771).
Nel saggio Hegel on Tragedy (1909) A.C. Bradley riformula la definizione hegeliana della tragedia: «un conflitto spirituale — del bene col male ma più essenzialmente del bene col bene — che implica uno spreco spirituale». Le accezioni idealistiche tendono a diventare accezioni moralistiche, la tragedia diventa rappresentazione della frattura di un ordine o armonia universali, ma provvidenzialmente guidata sì da far prevalere alla fine l’ordine restituito, e in esso i valori spirituali degli individui che pur vengono sacrificati. Nel Macbeth il conflitto sarebbe non solo tra bene e male, ma anche tra bene e bene, perché l’eroe possiede qualità spirituali (coraggio, costanza, consapevolezza, rimorso) che riportano al modello hegeliano di urto tra due principi in sé positivi. E la coloritura moralistica s’accentua nelle maggiori letture postbradleiane (Macbeth come parabola sull’ambizione, sull’orgoglio, sulla tirannia, sul potere che corrompe, sul Buono e Malgoverno), che tutte mettono a fuoco, come farà anche Croce in alcune pagine del suo Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), il dissidio nella coscienza dell’eroe, posto come nelle «moralità» tra Dio e il Diavolo, e da quest’ultimo spinto dalla sfera dei valori (impersonati, seppure «superficialmente» come nota il Croce, da Duncan, Banquo, Macduff, Malcolm) a quella dei non-valori, ma senza perdere la forte componente di umanità che gli assicura statura eroica e tragica. Tutta la linea maggiore della critica novecentesca ha elaborato quest’interpretazione morale, psicologica, razionale, su uno scenario cristiano-provvidenziale che a volte è storicizzato e immesso in una prospettiva laica.
Impostiamo brevemente il rapporto con la fonte: le Cronache di Scozia di Holinshed costellano la storia di «Makbeth» di apparizioni soprannaturali, di profezie di varia provenienza, che Shakespeare assegnerà tutte a una singola fonte. La prima profezia viene dalle «weird sisters» (sorelle del destino), e cioè, spiega il cronista, da «donne misteriose che erano (per opinione comune) o le dee del destino oppure ninfe o fate, dotate di sapere profetico grazie alla loro scienza necromantica, perché ogni cosa si avverava come avevano detto». Queste profezie hanno la natura enigmatica, equivocante e infallibile degli oracoli classici. Sembrano annunciare l’impossibile, come l’oracolo ricevuto da Eracle nelle Trachinie di Sofocle, che «egli doveva morire per mano di un morto», in realtà per il veleno dato a Deianira dal centauro ucciso dall’eroe. E si tratta, direbbe Hegel, di visioni divine di un tutto che l’uomo non può cogliere. Holinshed naturalmente considera le profezie «un’illusione del demonio», proprio come sospettano anche Macbeth e Banquo, e come fanno i critici. La storia riferita da Holinshed, che comunque fa regnare Makbeth pacificamente e da buon re per parecchi anni prima che si deteriori in un tiranno sospettoso e crudele, non ha nulla di problematico. È tutta spiegabile con criteri etico-politici precisi, l’ideologia assolutistica e cristiana del cronista tudoriano: è un esempio di punizione divina su chi attenta al Re unto dal Signore.
Shakespeare che usa il materiale delle fonti mutandolo in espressione della propria visione della vita, e i cui caratteri perciò non sono mai etichettabili, allontana dai baroni scozzesi ogni sospetto di complicità con l’usurpatore, in modo da far risaltare la solitudine, la coazione-responsabilità, l’orrore e il rimorso di Macbeth e della moglie, sulla quale proietta per Milton l’ombra di un archetipo biblico (Eva, Lilith). Ne fa due esseri posseduti da un demone, l’Ate dei greci, il Maligno cristiano. Per Hegel, il togliere all’eroe la sua parte di giustizia indicata dalla fonte, facendo risaltare l’aspetto ripulsivo del suo pathos, sarebbe segno del soggettivismo del dramma moderno, e sarebbe anche dovuto a ragioni esterne: autocensura e captatio benevolentiae nei confronti di Giacomo I, che è spiegazione ripresa da tanti critici. E allora Hegel non trova giustificazione al fatto che l’usurpatore non progetti subito, machiavellicamente, di uccidere insieme padre e figli. Ma ciò avviene, io credo, perché Macbeth è uomo d’azione ben poco «politico», machiavello assai imperfetto, e soprattutto perché così non è scritto nell’oracolo. La responsabilità dell’eroe si esprime in atti che coincidono perfettamente con le anticipazioni profetiche, le quali in Shakespeare innescano l’azione e la prefigurano e dirigono tutta. Il destino di Macbeth è prenarrato due volte, all’inizio e al turning-point del dramma. Non c’è volontà e forza umana che potrebbe cambiarlo. I personaggi non possono che attuare punto per punto ciò che è già scritto nella notte del senzatempo.
«Non ho a spingermi che la mia ambizione», pensa Macbeth: come ogni eroe tragico, egli non capisce se stesso e gli altri e non capisce cosa gli succede. La carenza di motivi a discarico non fa che accentuare l’arbitrio del destino. Si guardi l’articolarsi dell’azione: è come se fosse guidata dall’alto e incanalata a ogni bivio in quel ramo che porta alla fine annunziata. Tutte le possibili alternative sono cassate dalla regia di quella Fortuna (l’antica Moira-Tyche, Necessità e Caso) che per colmo d’ironia Macbeth disprezza (I, ii, 17). Se Macbeth esita, interviene la moglie — strumento del destino — e gli fa superare la sua amekanìa. Malgrado i loro forti sospetti, Banquo e Macduff non piantano subito l’usurpatore, perché è segnato che il primo ne venga ucciso (ma si salvi il figlio i cui discendenti avranno il trono), e che il secondo sia spinto dalla strage dei suoi a essere l’uomo che più odia il tiranno e gli darà la caccia mortale, perché è l’unico che possa farlo essendo «non nato da donna». Per attuare l’oracolo Malcolm scappa e si salva, e Macbeth resiste a Dunsinane, nei paraggi del bosco di Birnan. «Il cielo stesso», come dice Kott dell’Edipo re, «ordisce il delitto che grida vendetta al cielo».
Mi pare che la lettura tradizionale esorcizzi questo cupo mistero, e trasferisca nella tragedia il messaggio della fonte, cui Shakespeare avrebbe aggiunto di suo soltanto lo sviluppo psicologico e le bellezze poetiche. Macbeth viene così «spiegato», anzi «spiegato via» come dicono gli inglesi, come una «Anatomia del Male». Per il Bradley, in effetti, che l’azione fosse predeterminata sul piano soprannaturale voleva dire togliere all’eroe libertà e responsabilità, ridurlo a un automa, idea che giustamente egli respingeva come perversione deterministica. Ma Rudolf Otto ci ha poi rifatto notare che l’esperienza del Sacro può ben scavalcare il principio di non-contraddizione: «Vuoi quel che vuoi e come tu puoi proponiti, scegli: deve pur tutto accadere come deve e come è fissato» (Il Sacro, trad. E. Buonaiuti, p. 95). Per Bradley il Macbeth «non era stato scritto per gli studiosi di metafisica», e Shakespeare «non aveva mai trattato i temi del destino, della libertà e della predestinazione», quasi che quei temi avessero bisogno di essere dibattuti apertamente sulla scena, e non fossero invece presenti perché connaturati nella visione tragica. Le streghe naturalistiche di Bradley sono solo colore, parte dello «sfondo tenebroso» dell’opera, o come pensava anche Hegel del contesto storico e della coscienza superstiziosa dell’eroe. Anzi il critico inglese dava sulla voce a chi, come Schlegel, Coleridge e Lamb, aveva capito la funzione cardinale del trascendente nella tragedia di Macbeth. Con questi autorevoli abbrivi la critica ha poi continuato a negar peso alle orride sorelle, che per alcuni sarebbero una proiezione della psiche dell’eroe, «un riflesso poetico della sua aspra volontà» (Hegel), e per altri dei meri strumenti dell’Oscuro, come le pensano i personaggi e come intenderebbe l’autore. Tutta la critica tradizionale è segnata da questo trasferimento all’autore e al suo messaggio dei punti di vista dei personaggi. La spietata oggettività della tragedia è ricondotta alla soggettività del dramma a tesi.
L’opera di Shakespeare è una grande «fenomenologia» del mondo umano e del suo rapporto col cosmo. Forze soprannaturali operano nel suo universo, e gli uomini cercano di spiegarle immettendole nei loro scenari mentali. Ma l’ironico Amleto sa bene che il Numinoso non viene esaurito nelle umane filosofie. L’occhio del drammaturgo, il quale non mette in scena alcuna verità su ciò che esiste oltre i limiti della mente umana, spazia sulla storia dai campi di Troia ad Atene, da Roma all’Europa dell’era pagana e cristiana, in ciò ricollegandosi all’universalismo medievale con le sue «materie» di Grecia e di Roma, di Britannia o d’altre nazioni. E nel suo spaziare segue anche il divenire dello scenario divino, che si fa cristiano e riduce formalmente a diavoli gli dei scacciati. Ma la realtà delle cose rappresentate par indicare invece una profonda e segreta continuità e sopravvivenza di forze divine. Nei drammi di ambiente medievale, Shakespeare adopera un codice misto — che esso sia stato nell’uso e nell’uso teatrale è aspetto che qui non si può trattare — nel quale vigono forze di lunga durata come il Destino e la Fortuna, ed esse immettono nel dramma proprio quei motivi che Bradley non riusciva a trovarvi, ma solo perché non erano nella sua ideologia.
Aveva ragione Coleridge a vedere nell’incipit della tragedia la nota-chiave di tutta l’opera, che per lui s’appellava più all’immaginazione che all’intelletto. E voleva dire che in essa lo spazio del logos è minore di quello della aloghia.
I critici han sempre notato la risonanza degli ossimori che aprono la tragedia — al di là del loro significato letterale e naturalistico — e l’hanno spiegata col «rovesciamento diabolico dei valori» (Knights), col disordine maligno che infetta l’eroe. Ma quegli ossimori annunciano il leit-motiv centrale dell’opera, che va dal primo «brutto è bello» alla demoniaca menzogna-verità di V, v, 44. Il Mahood trovava nel dramma più di cento esempi di anfibologia, di discorso doppio, proprio quello inventato a uno scopo preciso dai tragici greci. Mi pare che sia uno sforzo vano — lo sostiene nel suo campo Federico Zeri — tentare di intendere nel profondo il linguaggio e lo stile quando non si hanno idee ben precise sul soggetto e il significato di un’opera. Il genio creativo non solo non costruisce come tutti sanno sul nulla, ma non distrugge le opere precedenti e non fa il vuoto attorno a sé. L’idea catastrofica dell’arte è idea romantica, perché l’arte non è mai fuori da un sistema tradizionale (Gombrich) ma cresce e si rinnova sull’arte. C’è continuità fra i tragici greci e Shakespeare che ne reinventa i modi e la visione, e in Shakespeare questa continuità non è che l’altra faccia della sua diversità e unicità. Nel Macbeth — che è opera così unica, così travolgente nella sua innovazione — c’è un cuore antico. Il gioco degli equivoci che segna il destino dell’eroe non è del diavolo né dei gesuiti e neanche della crisi del linguaggio, ma del paradosso della visione tragica che è storia antica, lenta, poco cosciente. Il fato ha deciso la rovina di Macbeth che tuttavia è sempre libero nelle sue decisioni. Ecco perché non convincono, e non hanno mai convinto sulla scena, le streghe interiorizzate o naturalizzate. Esse non sono che streghe nello scenario cristiano, ma conservano, con la loro realtà oggettiva, anche la terribile, ambigua, alogica forza numinosa di «donne del destino»: non sono banali figure del folklore ma reali Destinatrici, amorali e inspiegabili come le antiche divinità. Il loro coro stridulo e tempestoso, i loro riti abnormi e orripilanti annunciano il futuro come antefatto, mettono tra parentesi il mondo della distinzione e dell’etica, portano con sé un piano diverso dell’essere, senza logica né spazio né tempo. Esso s’inserisce nella realtà umana, sicché nel tremendo hurly-burly del dramma gli uomini non potranno che «mettere il collo nel collare della necessità», come dice il gran coro dell’Agamennone eschileo del suo eroe che vuole il proprio destino.
Uno dei modi in cui l’autore tragico rappresenta l’Ananke è da sempre la convenzione dell’ironia tragica: quella che mette in bocca a Macbeth le stesse parole delle streghe (I, iii, 37), quella che inganna Duncan e Banquo quando, con «ironica» sicurezza, vedono nel castello della morte un luogo di delizie pregno di simboli fecondi e augurali. Macbeth è ben poco cosciente della Necessità in cui si versa il suo volere, anche se sembra capirlo in ultimo, come nella famosa metafora del povero attore che recita per poco sulla scena del mondo il pezzo per lui deciso da «el autor soberano» (Calderon). Schopenhauer sorrideva del concetto «filosofico» di volontà, e Wilson Knight fa notare giustamente (in La ruota di fuoco, 1930) che «la volontà non ha posto… nel mondo appassionato delle grandi tragedie», perché la tragedia «si occupa solo di quelle sorgenti più profonde dell’azione che il concetto di volontà tende a offuscare». Il pugnale fantasma che guida Macbeth per la strada da lui intrapresa (II, i, 42) esprime perfettamente la doppia motivazione, concorso di volizioni umana e divina, di libertà e servitù. Come il prodigio apparso all’armata greca nel cielo di Aulis, le «sollecitazioni soprannaturali» sono per Macbeth ambigue, insieme positive e negative. La sua impresa sarà come quella di Agamennone, «vinta e perduta».
Nelle parole degli altri, durante la parola guerresca della tragedia, Macbeth appare iperbolicamente audace e sanguinario. Ma sua moglie vede o travede in lui un eccesso di umana dolcezza. Egli esita a rompere il patto che lo lega al mondo in cui crede, ma lo trascina la hýbris che è l’obbligo del ghennáios, del nobile, a osare, la tensione incessante che è dell’esistenza eroica. Questa dismisura o tracotanza — la security di cui parla Ecate in III, v, 32-33 — lo consegnano a un destino che incomincia a porsi come conflitto e scissione interiore. In quella meditazione ben poco machiavellica sullo Schuldfrage, sui rapporti tra azione e morale, che è il secondo soliloquio, egli vuole ridurre la sua scelta al livello terreno. Ma il linguaggio che usa (i cherubini sui cavalli d’aria, il bimbo nudo che cavalca la tempesta) sfugge al filo della logicità, veicola per immagini i significati profondi, riafferma nell’inconscio l’aldilà respinto dalla coscienza. Macbeth non è un villainmachiavellico, anzi condivide la morale degli antagonisti. La sua scelta è tra il «gioiello dell’anima» e il gioiello della Corona, realizzazione somma e potere che supera la morte estendendo la vita del re alla sua dinastia. Ma fatta la scelta, persa l’anima e stabilito il suo anti-ordine, Macbeth resta fedele al proprio destino anche quando il possesso si rivela effimero e vuoto com’è per lui ora la vita. Ha gettato uno sguardo nell’abisso e vi ha visto il suo stesso orrore. Ciò che ha fatto ha dunque il marchio della genuinità, è stato una conoscenza che avvicina all’essenza delle cose. Questo crede Macbeth e in questa fede e fedeltà è la sua grandezza. «Muore come rappresentante di un sacro mistero, coperto di religioso orrore»: così Croce commentava la fine “austera” di questa tragedia «filosofica».
Nel suo teatro Shakespeare ci mostra eroi giovani, guidati da dei lungo la loro strada e perciò profondamente sicuri, nello splendore del successo come in quello della perdizione. Ma ci mostra anche eroi che invecchiano, nella fase in cui ogni aspetto dell’esistenza par adeguarsi man mano all’immobilità finale, e si confondono ciò che è stato e ciò che non è stato, ciò che è e non è. Esseri pieni della malinconia dell’età non più guidata da dei, e della delusione dell’uomo d’azione che raggiunge i suoi traguardi e ne vede il vuoto e il prezzo esoso, e coglie una delle tante facce del vero, la vita come assurdo. Nel tempo rapido che lo vede avviarsi per la oraziana «fallentis semita vitae», Macbeth si rivela in profondo a se stesso passando dall’illusorio «tema imperiale» al tema tragico dell’assurdo, che si può rifiutare ma non infirmare. È un grande tema occidentale, questo, che si nutre della sapienza silenica come del biblico «vanitas vanitatum», e dell’umano desiderio di morte come nostalgia della pace prenatale e unico porto e compenso fuori dalle tempeste della vita vuota. Delusione e derisione della vita sono parte della malinconia «amletica» di Macbeth, che però non dà luogo a rinuncia ma è costanza nel destino. Egli rifiuta lo «sciocco» suicidio dei romani (V, vi, 40-41), non vuole staccarsi dalla sua fatalità, e però si sente legato al palo come l’orso che deve far fronte all’assalto dei cani. Tlemosyne è il termine greco per questa capacità di resistere.
Soprattutto nel potentissimo atto quinto, in cui arriva al suo culmine il momentum della tragedia per poi spezzarsi di colpo, le battute di Macbeth acquistano la loro massima intensità di pensieri-azioni. Del resto Shakespeare ha incentrato fin dall’inizio la struttura dinamica dell’opera sulle parole dell’eroe, pregnanti a volte ai limiti dell’inesprimibile. Il resto sfuma verso l’incompiuto. Retta da una prospettiva manieristica, la tragedia presenta caratteri a tutto tondo che portano il nucleo drammatico, mentre altri s’accampano, meno scultorei o quasi piatti, in primo piano come alla periferia. L’eroe è il solitario portatore dei temi profondi, di contro ad antagonisti senza rilievo.
Nel Macbeth come già nel Riccardo III l’antiaristotelico Shakespeare inventa un eroe «cattivo», che però smentendo Aristotele ha fascino e carisma tragico. Riccardo esercita sugli spettatori una gran parte di quella forza tremenda di persuasione intellettuale che affascina Lady Anne; e nel criminale Macbeth c’è la forza della dea greca Peithò o della latina Suada, quasi che il male a un certo grado, come avvertiranno Dostoevskij e Musil, travalicasse nella sfera del sacer. Jago è un demone meschino, mero strumento della sorte, non sa affascinare che le sue vittime. È una creatura del calcolo e dell’odio che, dice Lawlor, è privilegio umano sentire a prima vista come l’amore. Macbeth e Riccardo sono il destino stesso, veri creatori di male, e come i grandi criminali sono al di là dell’odio. Hanno il potere di lusinga, d’inganno, di sommovimento e di fascino della dea Persuasione, che i greci associavano da un lato alla madre sua Ate e alle Sirene, dall’altro alle Muse, a Eros e ad Afrodite.
Ma neanche l’antagonista Malcolm può etichettarsi come «eroe positivo». È semplicemente uno che aggiunge alle doti guerriere la cautela, il calcolo e l’abilità politica. Non c’è nulla di moralmente bello, se non nella ormai secolare idealizzazione di critici e teatranti, in quelle scene del dramma che passano per «positive», dove appaiono guerrieri catafratti dediti ai loro macelli — il buon Seyward sarebbe disposto a sacrificare cento e cento figli a una morte in battaglia —, re e vassalli che recitano fino al pathos e alle lacrime la recinta sontuosa della regalità, baroni in fuga che demonizzano l’usurpatore, ed eserciti vendicatori che si dicono protetti da ali d’angeli e dalla Grazia. Solo le vittime ci commuovono, e il dolore di Macduff. Le belle parole dei lealisti non coincidono coi loro atti feroci. Più astuto di quanto non lo credano i critici, Shakespeare conclude il dramma su un registro particolarmente freddo, crudele, mediocre e burocratico. La restaurazione di Malcolm si riduce a poco più che una distribuzione di ricompense e un programma di purghe. In quest’ultima brutale scena, che per la lettura tradizionale dovrebbe segnare la chiusura nell’armonia e nella riconciliazione della dinamica tragica e il suo superamento, la testa del «macellaio morto» è gettata ai piedi del nuovo re da un macellaio vivo, senza neanche la parola di rispetto per gli uccisi che raramente è negata pur nel «mondo da cannibali» (Brecht) dei drammi storici e delle tragedie. La distruzione dell’eroe demonizzato libera negli spettatori non effetti catartici, ma casomai sensazioni gratificanti di soddisfazione morale. Tanto vicini sono negli uomini grandezza e degradazione, che la ragione vuol tenerle accuratamente separate. Così non si coglie l’indicazione tragica sui significati profondi del male e della violenza, che è suggerita dal fascino di figure come Macbeth e Riccardo III, o di Medea e di Don Giovanni.
È solo in un’ottica moralistica che Shakespeare parteggia per la giustizia di Duncan e di Malcolm contro l’ingiustizia di Macbeth. Non bisognerebbe confondere col «messaggio» di Shakespeare — che casomai è nella sua stessa e globale visione tragica della vita — ciò che dicono di Macbeth i suoi avversari, né ciò che dice di sé o degli altri alcuno dei personaggi, e neanche la repulsione che sentiamo per le azioni dell’eroe tiranno. Shakespeare, che pure ha un’ampiezza di visione e un linguaggio che possono dirsi danteschi, non è un poeta portatore di affermatività come Dante. Nella sua «impassibilità filosofica» (Coleridge) egli non si compiace né si sdegna per i delitti e la fine dell’eroe, come non si compiace né si sdegna per le colpe e la fine di Lady Macbeth, che svolto il compito assegnatole nei disegni del fato viene come scartata e abbandonata all’autodistruzione: e anzi l’ultima sua apparizione la mostra come una vittima anche lei, una creatura che suscita pietà e non ha più nulla di diabolico. Shakespeare mostra «ciò che avviene». Che abbia una tesi morale è pregiudizio critico, come quello che fa di Eschilo e Sofocle gli esaltatori della religione olimpica.
L’ambigua astuzia o invidia delle potenze soprannaturali ha intrappolato Macbeth, uomo di egoismo, di passione, di vanità, di desiderio, sull’apice della ruota della sua fortuna, che è anche la soglia del suo declino. Facendo leva sulla sua hýbris lo ha sollevato sul palco tragico dei re, ma solo per trarlo in inganno, per dargli la vittoria e poi togliergli subito tutto. Solidale al patto umano che viola, egli ritiene di essersi votato al demonio cristiano. Ma è un Fato pagano a decidere la sua caduta. Egli si vorrebbe indifferente al sopramondo, come un gran capitano di ventura intento solo alla perfezione della Corona, che lo radica sul piedestallo della massima attuazione terrena, «solido come il marmo, stabile come la roccia» (III, iv, 21). Ma tale fiducia è contraddetta sin dall’inizio dall’ironia del linguaggio. Egli deve lottare non solo contro i nemici ma contro il suo stesso destino. Lo sforzo non può riuscire perché il braccio e la mente sono guidati dal potere che orienta ogni pensiero e ogni colpo di spada. Il nocciolo tragico, subito annunciato come leit-motiv, che nel Macbeth ci mostra il genio crudele di Shakespeare, è il fatto che l’eroe, con tanto dolore, si rende e crede responsabile di colpe che sono sue scelte ma che non poteva non commettere. Egli è libero, e insieme preda della Moira come una mosca in mano a ragazzi crudeli (Re Lear), come una palla da tennis delle stelle (Webster, La duchessa d’Amalfi). Piano umano e piano cosmico, destino e libertà sono i poli del mondo tragico di Shakespeare. Come conciliarli è quesito senza risposta. Macbeth è una tragedia senza morale, un dramma aporetico e inconclusivo che non finisce di sbalordire. Potrebbe chiudersi con l’ultimo verso delle Trachinie: «Nulla è successo che Zeus non volesse», o come traduce E.F. Watling: «Tutto ciò che avete visto è Dio». Un verso che non indica l’onnipotenza di un Dio giusto, ma l’inspiegabilità della giustizia cosmica, ermetica, inumana e indifferente
Articoli di Antonio Gramsci
da L”avanti!” – 1916
Antonio Gramsci fu critico teatrale dell’Avanti! per quattro anni, dal 1916 al 1920. Ripubblichiamo di seguito una sua recensione teatrale del Macbeth di Shakespeare intepretato dal “mostro sacro” dell’epoca Ruggero Ruggeri. Possiamo constatare qui solamente il nitido italiano di Gramsci. Non abbiamo i mezzi per “rivedere” Ruggeri.
1.
In un saggio recentissimo su Shakespeare, Romain Rolland ha incidentalmente espresso un giudizio che è il riconoscimento critico migliore della tragicità dell’autore inglese: «Shakespeare nel creare i suoi personaggi procede senza sforzi; si cala nel cuore di ciascuno e di esso riveste il suo pensiero, la sua forma, il suo piccolo universo; ma, egli muove dal di fuori ». Cadono così tutte le interpretazioni che del Macbeth la critica giornalistica ha recentemente cucinato per il grande pubblico. Non tragedia dell’orrore, né della paura, né dell’ambizione, come è stata volta a volta chiamata; ma tragedia solo di Macbeth, di un uomo, di un carattere, ben definito nello spazio e nel tempo. Egli solo riempie tutto il dramma, e ne è l’eroe. È una volontà, così senz’altro; volontà che riceve stimoli all’azione dal mondo esterno, ma che questi fonde nella sua personalità e fa propri, senza perdere un atomo della libertà spirituale che è caratteristica di tutti gli nomini, e senza la quale non può esservi tragedia. Shakespeare lo ha posto in un ambiente storico, in un tempo e in luogo nei quali anche il soprannaturale era elemento della realtà, era parte viva delle coscienze, e appunto perciò questo soprannaturale non è meccanico, non è astrazione fredda, non e ripiego comodo per trarre dai fatti elementi di successo; è certo esigenza, integrazione necessaria dei dramma.
Vediamo svolgersi questo dramma con una logica interiore inflessibile. La predizione delle streghe del primo atto è l’inizio di esso. Macbeth è incerto in principio, titubante; la grandezza del destino che lo attende lo scrolla fin nell’intimo della sua umanità, fa traballare, ma non distrugge d’un tratto nella sua coscienza le leggi morali che ne sono la base granitica.
Quando
mi voglia re la sorte coronarmi,
essa pure dovrà senza il mio sprone.
Ma la realtà lo attanaglia; sua moglie è lo sprone della sua volontà incerta e vacillante. Lady Macbeth, creatura meno complessa, più elementare, che appunto perciò il destino stronca così, semplicemente, senza trovare resistenza, è di quelle che tra il pensiero e l’azione non pongono intermezzo. Solo nel quarto atto, dopo che la causa scagliata da lui nel mondo ha prodotto effetti che egli non poteva prevedere, anche Macbeth si riduce a questa semplicità di concezione:
D’ora in avanti
i primi impulsi del mio cuor saranno
gl’impulsi di mia mano.
Macbeth ha a questo punto ritrovato se stesso: ma attraverso quali sanguinose esperienze! L’assassinio del re e dei suoi custodi ha fatto cadere il primo involucro della sua umanità. L’abisso ha chiamato l’abisso secondo la sua tragica necessità. La pazzia sembra afferrarlo per un istante con la tortura dell’ombra di Banco. Ma egli, nella sua forte volontà, vince questi richiami morbosi della coscienza. La moglie è ormai un’ombra, preda di allucinazioni sanguinose; il guerriero scozzese non tenta più, non esita più. Tutto gli diventa avverso, ma egli è sicuro della sua fortuna. La seconda predizione delle streghe ha prodotto in lui questa sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire isuoi delitti. E Macbeth taglia tutti i fili che legano la vita di ogni uomo a quella degli altri suoi simili. Nulla lo fa trasalire. La morte di Lady Macbeth, della tanto amata, non trae un lamento dalle sue labbra; il suo cuore è impietrito; non vive che la volontà atroce. Lady Macbeth soccombe alla visione dei fantasmi che essa stessa ha suscitato. È una debole, in fondo, che solo l’esasperazione fa diventare furia perveRsa. Come nel suo romanzo grottesco Chamisso impersona nell’ombra che è fuggita, la coscienza di Pietro Schlemil, Shakespeare, rappresenta plasticamente nella morte del sonno il rimorso della donna. E il sonno uccide quel giù vibrante fascio di nervi, nei quali la lampada della vita non dà che qualche incerto guizzo.
Il sangue cola a ruscelli in questa tragedia: si ha l’incubo del rosso nel riviverla integralmente. Re Duncano, le due sue guardie del corpo, Banco, lady Macduff, e tutta la sua famiglia muoiono e tutte queste morti sono necessarie nell’azione, fatali, date le premesse. Una orribile gorgona ha abbacinato Macbeth; Banco lo aveva subito capito, fin dalla prima previsione delle streghe:
Spesso a render certo
Il nostro danno gli stromenti delle
tenebre il vero dicono e con lievi
cose ci attraggono per gettarci poi
nei più oscuri raggiri.
Ma bisogna che Macbeth veda tutto il baratro, nel quale egli è precipitato per persuadersi di ciò. Bisogna che veda muoversi la selva, e che un uomo nato pei ferri del chirurgo lo turbi dimostrandogli vana la sua sicurezza. Solo allora il tiranno del male sente che tutto è crollato intorno a sé e ritorna debole, pauroso, uomo insomma. E la giustizia lo colpisce. Ruggeri darà stasera il gigantesco lavoro di Shakespeare. È un avvenimento artistico, al quale non possono essere estranei anche i nostri lettori, i quali anzi, perché meno intellettualmente corrotti, sono i più degni d’avvicinare e di risentire i brividi di passione del tragico inglese. Potranno Ruggeri e i suoi collaboratori ridare integralmente questi brividi, questa vita intensa, anelante alla distruzione, alla strage infeconda? Vedremo.
(23 maggio 1916).
2.
Vedere proiettata sulla scena, incarnata in persone operanti e parlanti, rinchiusa in un determinato orizzonte, un’opera che per noi è solo vissuta della vita delle parole, delle immagini che la fantasia ricrea, dei segni materiali della carta stampata, produce sempre un urto che non si riesce subito a superare. Qualche cosa si interpone tra voi e l’opera, una personalità estranea che diventa invadente, ingombrante talvolta, e alla quale bisogna abituarsi. Come tutte le opere di poesia, la tragedia di Shakespeare vive autonoma nella cechia delle parole. La suggestione di vita non ha bisogno della concretizzazione scenica per trarci nel suo cerchio fatale. Anzi. Ogni urto brutale con tutto ciò che è convenzione, mezzo, costrizione violenta, adattamento alle esigenze dell’ora e delle possibilità interpretative, produce squarci dolorosi, mortificazioni umilianti. L’arbitrio direttoriale che toglie e riduce non può non essere sacrilego. L’opera deve rimanere tal quale è sgorgata, vibrante e palpitante di vita, dalla fantasia dell’autore. Ogni parola ha una ragione, ogni atteggiamento fisico e spirituale deriva necessariamente da una personalità che è stata concepita in quel dato modo e in nessun altro. Tutto il corpo diventa lingua che esprime un mondo interiore ben definito e tagliato fra gli infiniti possibili che la libertà crea. Bisogna abituarsi a pensare al Macbeth, di Ruggeri e dimenticare alquanto quello di Shakespeare. E l’uno è infinitamente inferiore all’altro e l’adattamento non può avvenire con facilità, senza mortificazioni.
Ruggeri ha cercato per quanto, gli è stato possibile, di ridurre la tragedia alla sua persona. L’ha modernizzata, in un certo senso, poiché le opere che egli è solito dare con più successo, si conchiudono in un solo eroe, che come il tenore dei melodrammi diventa centro dell’universo. E Shakespeare invece è polifono: le azioni dell’eroe trovano risonanze in tutto l’ambiente in cui egli opera, non rimangono affermazioni di fatti, ma diventano atti, plasticamente rappresentati. Il taglio di molti particolari nuoce, cosi, enormemente, alla rappresentazione dell’eroe stesso, lo rende meno vivo. Vedere davanti a noi la prova di volontà di re Duncano vale più che il sentirla ricordare dall’assassino Vedere come Banco sia. fraudolentemente sgozzato, accresce l’orrore della rievocazione dello spettro. Vedere come fossero vivi lady Macduff, e i suoi figlioli, e come i sicari tronchino nelle loro gole la parola ingenua, il rimbrotto femminile, è necessario per l’effetto d’insieme sinfonico di questa ridda fantasmagorica di sangue e d’orrore. Il tiranno è tale per i soprusi inumani che compie, non per le parole che escono dalle sue labbra. L’opera così scarnificata diventa un moncherino, grottesco talvolta. L’espressione di Macduff che rassomiglia la moglie e i figli a una chioccia ghermita coi pulcini da un avvoltoio, non avrebbe fatto ridere la platea se questa avesse avuto dinanzi agli occhi il quadro della strage compiuta freddamente.
Piccole osservazioni che si potrebbero moltiplicare se ciò non fosse inutile, e se noi non sentissimo per Ruggeri una grande gratitudine anche per il poco che ci ha dato, e che serve da stimolo per accostarci con più amore all’opera. Come non servirà a nulla osservare che Ruggeri è così infetto di lebbra dannunziana vacua e declamatoria, che troppo spesso la sua declamazione critica ne viene sorpassata e annegata in una sentimentalità melodrammatica che stona terribilmente colla creatura di Shakespeare, né decadente, né ammalata di modernità floreale e liberty.
E il pubblico, anch’esso compenetrato dello sforzo che il Ruggeri, la Vergani, e gli altri hanno fatto, ha applaudito, e talvolta con vera convinzione.
(25 maggio 1916)
Riassunto
Macbeth e Banquo, generali dell’esercito scozzese, ascoltano stupiti le predizioni delle streghe: Macbeth sarà presto nominato signore di Cawdor dal re di Scozia Duncan, e poi ascenderà al trono; Banquo, pur senza mai regnare, avrà una discendenza regale. E, infatti, i messaggeri del re comunicano a Macbeth che Duncan lo ha eletto signore di Cawdor. L’avverarsi della prima profezia colpisce l’animo di Macbeth.
Informata dal marito delle predizioni delle streghe, Lady Macbeth ha concepito di assassinare Duncan, che sarà ospite nel loro castello, per consentire al suo sposo di cingere la corona di Scozia. Ma Macbeth indugia: soltanto la determinatezza della consorte riesce a spingerlo a compiere il delitto. Scoperto l’omicidio di Duncan, il nobile Macduff ne informa atterrito i cortigiani. Anche la seconda profezia si è avverata: Malcolm, figlio di Duncan, è fuggito nella vicina Inghilterra, suscitando il sospetto di avere ucciso il padre. Macbeth è divenuto re di Scozia. Ma le streghe hanno predetto il trono al figlio di Banquo: entrambi devono quindi essere eliminati. In un agguato notturno, Banquo è trucidato dai sicari di Macbeth. Suo figlio Fleance riesce a fuggire.
Durante un banchetto, Macbeth è informato della morte di Banquo e della fuga di suo figlio. Nel frattempo, la regina intrattiene gli ospiti che affollano le sale del castello, intonando un brindisi. Ma i festeggiamenti sono presto interrotti dall’apparizione dello spettro di Banquo che, invisibile a tutti, si mostra minaccioso a Macbeth. Invano Lady Macbeth cerca di riportare la serenità fra i presenti: sconvolto dall’apparizione di Banco, il re decide di interrogare le streghe per conoscere il suo futuro.
I responsi ricevuti hanno rassicurato Macbeth: pur ammonendolo a guardarsi da Macduff, le streghe gli hanno infatti garantito che nessun uomo nato da una donna potrà sconfiggerlo e che la sua potenza durerà finché la foresta di Birnam si muoverà contro di lui. Il re ha tuttavia, avuto conferma che la discendenza di Banquo regnerà sulla Scozia. Lady Macbeth istiga lo sposo a uccidere Macduff e a sterminarne la famiglia.
Confidando nell’aiuto dell’Inghilterra, Malcolm ha radunato un esercito pronto a invadere la Scozia. Anche Macduff, dopo lo sterminio della sua famiglia, si è unito ai combattenti. Dichiarata la guerra l’esercito di Malcolm, per celarsi al nemico, avanza nascosto dai rami strappati dagli alberi della vicina foresta di Birnam. Malcolm e Macduff si avviano a liberare la Scozia. In preda agli incubi della pazzia, Lady Macbeth rivive nel sonno l’omicidio del re Duncan, confessando i crimini compiuti. Informato della morte della consorte, Macbeth si appresta a fronteggiare l’esercito nemico. All’annuncio che la foresta di Birnam sta avanzando, il re comprende che le profezie delle streghe si stanno avverando.
Nascosti dai rami della foresta di Birnam, i soldati di Malcolm attaccano i guerrieri di Macbeth, costringendoli alla fuga. Il re è fronteggiato da Macduff che, prima di colpirlo, gli rivela di non essere nato da una donna ma di essere stato estratto a forza dal corpo materno. Le predizioni si sono avverate. Macbeth cade sotto i colpi di Macduff. L’esercito vittorioso acclama Malcolm re di Scozia.
Macbeth
(“Macbeth” – 1605-1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V