Di Davide Rondoni.
E’ una cosa strana questo grandioso drammaturgo e poeta. Tutti d’accordo a dire che la sua forza sia nella capacità di rappresentazione dei caratteri umani. Ci sono zone d’ombra che solo noi – e confusamente – conosciamo di noi stessi, ed ecco che lui ce le ripropone.
L’imprendibile William
Il primo avvertimento ce lo sbatte sul muso, con la consueta caustica ironia, Thomas Stearn Eliot. Scrive: “So bene com’è difficile far entrare Shakespeare in una teoria, specialmente in una teoria su Shakespeare”. Il secondo ci viene da quella che J.Keats chiamava “negative capability”, la capacità di sottrarsi da ogni definizione, in cui Shakespeare risulta maestro. Il terzo avvertimento viene dalla natura teatrale di queste opere. Esse furono concepite per il teatro, per il suo evento. Per il teatro e nel teatro esse trovano vita e attualità. E il teatro, luogo della parola in tensione poetica e della presentata incarnazione del dramma umano, è irriducibile ad astrazione alcuna. E tanto basterebbe perché queste poche paginette introduttive a tre delle sue grandi opere, legate insieme da un titolo in questa speciale collana, si guardino bene dall’essere dunque l’esposizione di qualsivoglia teoria su Mr. Shakespeare. Piuttosto la dimostrazione di un affratellamento, una scoperta di consanguineità. E, soprattutto, la testimonianza di uno sgomento. Poiché Shakespeare ha un segreto. Un segreto terribile. E noi gli siamo fratelli in questo. Non si tratta, diciamolo subito, di uno dei tanti segreti della sua biografia. Né di un segreto che riguarda la storia tortuosa delle edizioni delle sue opere. No, questo segreto è come un abisso, che sta sotto la moltitudine di storie con cui ha tessuto la sua tela. Un abisso che attrae e respinge. E che distintamente avvertiamo, come lo avvertì lui. Lui che trovò milioni di parole e mille storie per dirlo e per non dirlo. Che si confuse con le sue storie, che appare imprendibile. Lui che, come l’artista di cui parla Joyce, sembra stare sopra o sotto l’opera, e in ogni sua parte e in nessuna, quasi che, mentre tutto si svolge e si intreccia, in fondo se ne stia in un angolo a tagliarsi le unghie. Eugenio Montale dice che Shakespeare sembra non aprire mai veramente il suo cuore. O forse è che nel cuore di quel signore descritto dalle cronache come “gentile, arguto, cordiale ma riservato” si agitava proprio un’indefinibile movimento di trovate e di contraddizioni, di marchingegni teatrali e di figure.
Queste tre opere sono una delle possibili vie per accostarsi a quel segreto. Vie godibilissime, piene di scorci di poesia e di pathos, di sorriso e di divertimento. E pur vie che conducono ad una specie di abisso. A quello che anche noi avvertiamo, e per cui a distanza di quattro secoli sentiamo Mr. Shakespeare vicino. Lo abbiamo chiamato “il dramma della libertà”.
Un segreto che ci cattura
Anche se su molte cose non siamo d’accordo con il critico Harold Bloom, verrebbe da sottoscrivere quel che lui dice: l’arte verbale di Shakespeare è “a tal punto suasiva da sembrare che non sia affatto un’arte ma qualcosa che c’è sempre stato”. E’ vero, riusciremmo oggi a pensare un panorama ove non ci fossero le sue creature e le loro parole ? Può l’uomo di oggi pensare a se stesso facendo a meno di Amleto, di Macbeth, di Giulietta, di Lear, di Otello, di Falstaff ?
Oggi il mite e discreto “ordinary poet” della compagnia dei King’s man, il buon imprenditore teatrale, l’agiato uomo di campagna William Shakespeare è al centro di un travolgente successo mondiale. E’ lo scrittore indiscusso. Complici i teatri di tutto il mondo e il gran teatro di Hollywood e del cinema mondiale (con le tante “riduzioni”, nel segno di Lawrence Olivier, di Wells, di Zeffirelli, di Kurosawa, di Greeneway, di Polansky, di Al Pacino, fino al film-fotoromanzo sulla sua vita del ‘99 ) il nome di Shakespeare è ovunque richiesto e onorato. Naturalmente, non è sempre stato così. Ai suoi contemporanei egli dapprima apparve come uno tra i tanti, particolarmente abile ad usare le forme prestabilite del dramma elisabettiano, e di buon successo. Alcuni lo invidiarono e lo accusavano per la sua facilità nel ispirarsi o, peggio, copiare da opere altrui. E gli studi hanno da tempo messo in luce i debiti che ha con Seneca, con la novellistica italiana e con autori a lui di poco precedenti o coevi, come Kid o Marlowe. In seguito ci furono grossi calibri come Goethe e Tolstoj che non lo apprezzarono. E i francesi aprirono le porte dei loro teatri alle sue opere molto tardi. La sua lingua ha fatto impazzire molti traduttori che hanno cercato di conservarne la vitalità poetica e la intensità. E con risultati alterni. Basti pensare al tentativo del nostro Ungaretti condotto sui Sonetti. Grande sforzo, e, come appare dalle note accompagnatorie grande perizia. Eppure l’originale, dicono gli esperti, con la sua forza sfugge, sfugge sempre.
Nonostante tutto ora Shakespeare vince su tutto il fronte. E’ lui la star. In popolarità vince anche su Dante. Eppure, come è noto, egli non si preoccupava affatto di garantire la stampa delle sue opere. Non abbiamo un solo originale di suoi copioni firmato o approvato da lui, condividendo un destino misterioso che lo accomuna a Dante, del quale non abbiamo un autografo della Commedia. E anche i suoi meravigliosi e ambigui sonetti d’amore furono stampati senza il suo consenso. Il segreto della sua opera e della sua persona sembrano nutrirsi a vicenda.
Il salutare sgomento a cui accennavamo proviene dal fare i conti con la natura di questo segreto. E non per eliminarlo, bensì per farci “catturare” da esso. Il titolo scelto per questa trilogia, discutibile e parziale ma certo indicativa, ci espone a quel segreto. Shakespeare eccita e nutre il dramma della nostra libertà, perché pare coincidere con esso.
Esser giusti ? esser liberi ?
E’ una cosa strana questo grandioso drammaturgo e poeta. Tutti d’accordo a dire che la sua forza sia nella capacità di rappresentazione dei caratteri umani. Ci sono zone d’ombra che solo noi – e confusamente – conosciamo di noi stessi, ed ecco che lui ce le ripropone. Le aspirazioni, i sensi di colpa, le follie, gli sperdimenti d’amore o di ira. Pare che abbia viaggiato a toccare le terre più nascoste dell’universo umano. E, dicono tutti, senza avere una sua precisa filosofia. Non è un esistenzialista ante litteram, tantomeno un artista che pensava a sé come a un demiurgo romantico. Era un buon artigiano, rivelatosi un genio. E se forse esagera Virginia Woolf quando dice che leggendo Shakespeare noi non ricaviamo notizie circa la vita reale del popolo nella sua epoca, è pur vero che il Nostro non sembra mai animato dall’intenzione di fare arte come cronaca sociale. I suoi personaggi,anche quelli ricalcati da figure storiche o da macchiette trovate nelle bettole o nelle strade, sono sempre personaggi attuali anche per noi. Eppure, visse in un periodo preciso di tempo. In quel passaggio tra cinque e seicento che vede andare in effervescenza o in depressione tutti i motivi filosofici e letterari del rinascimento, e in cui la cultura dominante ha alle spalle l’adesione al cristianesimo ridotto ormai a memoria involontaria o a pallida consuetudine. In lui convivono, come ha scritto l’acuto suo studioso Alessandro Serpieri a proposito dei Sonetti, la tensione a un ideale di tipo neoplatonico, secondo una caratteristica tipica dell’umanesimo, e una sensibilità aperta al fascino della metamorfosi e dell’incertezza conoscitiva sollecitata dai nuovi orizzonti di scoperta tipici dell’epoca delle scienze seicentesche. L’uomo che, come il pianeta terra, si scopre decentrato nell’universo fisico non avendo più un certo legame metafisico si sente abbandonato al suo destino, è preso da una febbrile ansia di analizzare se stesso, e di trovare i modi per governare la sua natura di passioni e incontrollabile. La perdita in termini di giudizio razionale e di affezione del senso di quel legame trasformerà la coscienza di essere una creatura libera da dramma a sgomento, se non a incubo. Per esser se stessi si tratterà di aderire alla legge ? o la salvezza verrà dalla moralità personale ? o piuttosto dal raggiungimento del potere ? o dell’amore ? A cosa destinare, a cosa offrire l’adesione della propria libertà per averne in cambio una sicurezza nel gran teatro d’ombre e di passioni dl mondo ? E dunque cosa significa essere liberi ? In lontananza dopo Shakespeare vediamo sopraggiungere Rimbaud, Dostoevskij, Eliot e Kafka. Forse il modo migliore per comprendere Shakespeare non ci viene dalle schede degli eruditi ma dalla presenza dei suoi motivi fondamentali in altri grandi raccontatori, in altri grandi poeti. Come un fuoco che passa da fiaccola a fiaccola. E comprendere questo genere di opere è scottarsi.
Da quando la cultura umanistica aveva affermato come ideale della vita la Fortuna, ovvero la riuscita, l’esser in grado di ottenere fortuna e fama, in contrasto con la visione medievale che ravvisava l’ideale nell’affermazione della unità della vita con il suo Significato e Creatore, il problema della “giustificazione” delle azioni umane si era acuito. La riforma protestante aveva accentuato il problema. Proprio perché cercava in modo inflessibile di far coincidere l’ideale della riuscita umana con il segno della benevolenza da parte di Dio, veniva messa radicalmente in discussione dagli uomini più attenti e geniali (come schiere d’artisti da Shakespeare a Ibsen, da Durer a Lagerkvist).
In Shakespeare il problema del rapporto con la giustizia dell’azione e degli affetti (e dunque con la colpa) non è solo al centro della sua opera e del suo personaggio più celebri e non a caso ambigui (L’Amleto). Eliot ha scritto che l’Amleto è un “fallimento” artistico poiché cerca di affrontare un tema così troppo ampio come il problema del rapporto con la colpa della madre. Quel “fallimento” è in realtà il motivo per cui Amleto è uscito dalla cerchia dell’esser un personaggio artistico per diventare un interlocutore di ogni uomo pensoso fino ai nostri tempi. Tale problema della giustizia è al centro di quasi tutte le maggiori opere di Shakespeare e in modo speciale nelle tre che qui si presentano. Le storie di Amleto, di re Lear e di Angelo e Isabella bruciano in modo diverso e originale in un fuoco simile, nel dilemma tra giustizia e passione sia sul piano della storia personale che della vicenda pubblica. In tutte e tre viene colpita la violenza falsa del potere quando si costituisce sulla ipocrisia e vengono messi in risalto i dilemmi di persone che si trovano di fronte alle possibilità del perdono o della vendetta. Un grande lettore e teologo come Hans Urs Von Balthasar ha perciò potuto dedicare un circostanziato saggio su “Shakespeare e il perdono”, dove si mostra il volto “puritano” del potere incarnato da Angelo in “Misura per misura” . Si tratta, va da sé, di pagine molto attuali di fronte all’attuale tendenza dei poteri statuali a presentarsi come autorità etiche. E un drammaturgo intensamente cristiano come Testori ha creato molte sue opere in dialogo con quelle di Shakespeare. Tra le sue “riscritture” shakespeariane mi resta fisso in cuore quel momento del suo Ambleto in cui nel celebre passo di monologo dell’ “essere o non essere” ha introdotto una vorticosa pagina di poesia intorno al concepimento, alla colpa e al destino.
Nel suo e nostro dramma
Shakespeare scrisse ogni genere di dramma e di commedia, da tragedie dell’orrore a commedie degli equivoci, da drammi storici a commedie romanzesche. Tanto da sembrare, come ha scritto David Daiches, un “infaticabile drammaturgo che cercando di soddisfare il pubblico trovò se stesso.”
La sua vita fu toccata per quel che ne sappiamo da difficoltà familiari e dalla perdita di un bimbo, Hamnet, uno dei suoi due gemelli. E a causa di una epidemia di peste che colpì Londra nel 1609 dovette interrompere le attività, dalle quali pare essersi sostanzialmente ritirato intorno a quegli anni, fino alla morte che lo colse nel 1616, sembra in professione di fede cristiana cattolica. Fu attore e scrittore per le sue compagnie. E fu uomo vicino al potere, i suoi drammi di successo si davano a corte e nelle residenze dei signori.
Sapeva che al popolo e alla classe alta piaceva (allora come oggi) la rappresentazione delle faccende di corte, degli intrighi di potere. E gliene offrì in abbondanza e con ogni genere di trovata. Ma ancora Daiches avverte: “le storie di Shakespeare hanno bisogno di Romani e di Re, ma egli pensa ad essi solamente come uomini”. Forse non è esclusivamente così. Shakespeare è uomo immerso nel suo tempo e ben introdotto a corte per evitare una considerazione del potere anche sotto il profilo della simbologia e della Istituzione. Ma è certo che siamo tutti sorpresi nel vedere anche nel re usurpatore zio di Amleto i tratti di una possibile simpatia, e di trovare non a caso in lui e in Angelo, il despota ipocrita di “Misura per misura”, riflessioni acute sulla preghiera. Allo stesso modo nelle riflessioni di regine e granduchi troviamo gli argomenti di qualunque povero mortale. E’ una delle ragioni del lungo successo di Shakespeare. La stessa forza delle sue costruzioni di relazioni poggiano su una grande capacità di dar rilievo all’individuo. I personaggi di Shakespeare ci danno sempre la chiara impressione che stanno agendo in un modo che non è mai prefissato, la loro azione avviene in un certo modo ma avrebbe potuto essere in un altro, ci sentiamo coinvolti nell’attualità delle loro scelte, nell’evento drammatico della loro libertà.
Ma mentre l’individuo a cui Dante dà voce e spessore nel suo viaggio riceve tale spessore dal fatto che lo vediamo e rivediamo la sua vita nella “prospettiva” del suo destino, l’individuo a cui Shakespeare dà corpo e animo riceve tale rilievo dai suoi moti rispetto allo svolgersi dell’azione, dal “posizionarsi” della sua prospettiva rispetto alla scena. La personalità, si potrebbe dire, è una visione non trascendente della singolarità umana. O meglio, tale visione è incerta, a tratti.
E se è pur vero, come bene documenta Von Balthasar, che non c’è finale di tragedia shakespeariana, in cui non si avverta una tensione di riconciliazione, è innegabile che il destino di molti dei suoi personaggi principali ci appare di dispersione, di sottomissione a una legge di precarietà dell’esistenza o di possibile vana metamorfosi. Solo i folli, qui in Re Lear o in Amleto, come spesso nella letteratura (basti pensare a Don Chisciotte), sembrano percepire il senso della metamorfosi, il significato dell’apparente casuale mutare degli eventi, e vedere sotto il velo delle apparenze. Da un certo punto di vista, tra i suoi primi spettatori e noi che lo accostiamo quattrocento anni dopo c’è qualcosa in comune. Che allora forse era, nella coscienza popolare appena poco più che un’avvisaglia ma che era ormai radicata nelle classi colte e nell’establishement di cui Shakespeare faceva parte. L’individuo, ripetiamo, svincolato dal rapporto con il destino così come dato nella tradizione cristiana, si trovava, come un figlio che ha perduto il padre, solo ad analizzarsi. E nelle storie emblematiche delle corti e degli uomini di potere sentiva in gioco gli stessi elementi della storia del singolo uomo comune. Gli attori stessi del potere, non essendo più legati ad una funzione sacra, erano pure loro individui con le loro ombre. Non c’è più qui la unità con cui Dante percepisce il proprio destino e la propria avventura essenzialmente legati al destino e all’avventura della storia intera e di tutti i suoi attori. In Dante ogni uomo è uguale di fronte al destino poiché è creatura, in Shakespeare ogni uomo è uguale di fronte al destino poiché è solo di fronte ad esso.
Qui l’unica cosa che accomuna, come già si vedeva in Petrarca, è la signoria del Tempo. In virtù della quale, come dice il sonetto XV, il mondo è avvertito come “questo immenso palcoscenico che presenta solo apparenze”. Probabilmente sta qui, quella “unità di sentimento” che T.S. Eliot ravvisava nell’opera di Shakespeare. Il dramma della libertà sta nel giudicare e dunque aderire a questo teatro di apparenze come al sogno di un ubriaco o come a una realtà più ricca di ogni filosofia che stia in mente d’uomo. Non chiediamo a Shakespeare di risolvere questa alternativa. Egli non volle né poté. Riconsegnandola, rilanciandone il dramma a noi.
Di questo dramma egli è protagonista e figlio. E noi gli siamo fratelli più di quanto pensiamo.
Davide Rondoni