Pericle Principe di Tiro – Atto I

(“Pericles, Prince of Tire”  1607/1608)

Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V

Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali

Pericle Principe di Tiro - Atto I

Personaggi
JOHN GOWER, il Coro
ANTIOCO, re di Antiochia
PERICLE, principe di Tiro
FIGLIA di Antioco
TALIARDO, un signore di Antiochia
MESSAGGERO di Antiochia
ELICANO, signore di Tiro
ESCANE, signore di Tiro
Altri SIGNORI di Tiro
CLEONE, governatore di Tarso
DIONISA, Moglie di Cleone
SIGNORE di Tarso
Tre PESCATORI di Pentapoli
SIMONIDE, re di Pentapoli
TAISA, figlia di Simonide
Tre SIGNORI di Pentapoli
Cinque CAVALIERI
MAESTRO DI CERIMONIE
LICORIDA, una nutrice
Due MARINAI
CERIMONE, signore di Efeso
Due SERVI di Efeso
FILEMONE, servo di Cerimone
Due GENTILUOMINI di Efeso
LEONINO, servo di Dionisa
MARINA, figlia di Pericle
Tre PIRATI
MEZZANO
MEZZANA
BOULT, servo del mezzano e della mezzana
Due GENTILUOMINI di Mitilene
LISIMACO, governatore di Mitilene
MARINAIO di Tiro
MARINAIO di Mitilene
GENTILUOMO di Tiro
SIGNORE di Mitilene
DIANA, dea della castità
Messaggeri, gentiluomini, signori, signore, persone del seguito,
servi, compagna di Marina, sacerdotesse, abitanti di Efeso

ATTO PRIMO

Entra Gower.

GOWER

Per cantare un canto che un tempo fu cantato

l’antico Gower dalle sue ceneri è tornato,

riassumendo l’umana infermità

per allietare i vostri orecchi

e compiacere i vostri occhi.

Esso fu cantato nelle festività,

nelle quattro tempora e nelle sagre;

e, in vita loro, signori e dame

lo hanno letto per ristoro.

Il vantaggio che se ne ricava è la gloria dell’uomo,

Et bonum quo antiquius eo melius.

Se voi, nati in questi tardi tempi

di più maturo ingegno, accettate le mie rime,

ed ascoltare un vecchio cantare

può arrecarvi quel piacere che cercate,

io vita vorrei avere, per poterla

consumare per voi, come luce di candela.

Questa è Antiochia, dunque. Antioco il Grande

costruì questa città come sua sede principale,

di tutta la Siria la più bella –

io vi racconto quel che dicono i miei autori.

Questo re si prese una compagna,

che morì e gli lasciò una erede,

così allegra, vivace e di bel volto,

come se il cielo le avesse prestato

ogni sua grazia; di lei il padre fu preso

di piacere, e l’indusse all’incesto.

Cattiva figlia, e peggior padre: sedurre

al male la propria stessa carne

mai da nessuno dovrebbe essere fatto.

Ma, per l’abitudine, ciò che avevano iniziato

non fu più, alla lunga, visto come peccato.

La bellezza di questa peccaminosa dama

molti principi ivi fece arrivare,

a cercarla per compagna di letto

e di giochi nei piaceri matrimoniali.

Per scongiurare questo, tenerla

per sé soltanto e tutti scoraggiare,

il re fece una legge, che chi in sposa

la chiedesse, mancando la risposta

ad un enigma, la vita sua perdesse.

Così per lei molti ebbero morte,

come quelle macabre teste stanno ad attestare.

Ciò che ora segue, sia l’occhio vostro a giudicarlo –

rimetto il mio caso a chi meglio può rappresentarlo. Esce.

ATTO PRIMO – SCENA PRIMA

Entrano Antioco, il principe Pericle e i loro seguiti.

ANTIOCO

Giovane principe di Tiro, voi ben conoscete

il rischio del compito al quale vi accingete.

PERICLE

Lo conosco, Antioco, e con animo reso ardito

dalla fama che di lei canta non ritengo la morte

un eccessivo azzardo in questa impresa.

ANTIOCO

Musica!

Conducete qui nostra figlia, vestita da sposa

e degna dell’abbraccio dello stesso Giove;

al suo concepimento, sotto il regno di Lucina,

la Natura le diede questa dote: perché la sua presenza

nel mondo fosse felice il senato dei pianeti

tenne sessione per tessere in lei ogni perfezione.

Entra la figlia di Antioco.

PERICLE

Eccola che viene, abbigliata come la primavera,

sue suddite le Grazie, e sovrani i suoi pensieri

d’ogni virtù che dà rinomanza all’uomo!

Il suo volto un volume di lodi, dove non si leggono

che squisiti piaceri, mentre il dolore ne fu

da sempre cancellato e la risentita ira

non fu ammessa alla sua mite compagnia.

Voi, dèi, che mi faceste uomo e governate l’amore,

che avete acceso nel mio petto il desiderio

di gustare il frutto di quest’albero celeste

o di morire nell’avventura, siatemi d’aiuto,

se è vero che sono figlio e servo del volere vostro,

affinché io afferri tale sconfinata felicità!

ANTIOCO

Principe Pericle…

PERICLE

Che vorrebbe essere figlio del grande Antioco.

ANTIOCO

Dinanzi a te sta questa bella Esperide,

dai frutti d’oro, ma pericolosi da toccare;

perché draghi mortali qui ti metteranno terrore.

Il suo volto di paradiso ti attrae ad ammirare

la sua infinita gloria, che il merito deve conquistare;

ma se senza merito il tuo occhio presume

di accostarsi ad esso, l’intero tuo corpo dovrà morire.

Quei principi un tempo famosi, come te,

attratti dalle voci su di lei

e resi avventurosi dal desiderio,

ti dicono con mute lingue e pallido sembiante

che, senza altro tetto che quel campo di stelle,

qui se ne devono stare, martiri uccisi nelle guerre di Cupido;

e con morte guance t’ammoniscono a desistere

dall’entrare nella rete della morte,

a cui nessuno può resistere.

PERICLE

Antioco, ti ringrazio per aver insegnato

al mio fragile essere mortale a conoscere se stesso,

e, con la vista di quelle paurose cose, a preparare

questo corpo, simile al loro, a ciò che devo affrontare;

perché il ricordo della morte dovrebbe essere come uno specchio

che ci dice che la vita non è che un soffio, di cui è errato fidare.

Farò dunque il mio testamento, come lo fanno i malati,

che conoscono il mondo, vedono già il cielo,

e pur provando dolore non si aggrappano più

come una volta alle gioie terrene;

così io lascio l’eredità di una felice pace

a voi e a tutti i buoni, come ogni principe dovrebbe,

e le mie ricchezze alla terra da cui esse mi vennero,

ma il puro fuoco del mio amore lo lascio a voi.

Così, pronto alla via della vita o della morte,

aspetto anche il più duro colpo, Antioco.

ANTIOCO

Poiché sdegni il mio consiglio, leggi dunque l’enigma;

se letto e non risolto, è decretato

che, come questi che hai davanti, dovrai sanguinare.

FIGLIA

Fra tutti quelli che han fin qui tentato

possa tu avere fortuna!

Fra tutti quelli che han fin qui tentato,

io auguro a te felicità!

PERICLE

Come ardito campione entro nella lizza

e non chiedo consiglio a nessun altro pensiero

che non sia di lealtà e di coraggio.

L’ENIGMA

Non sono vipera, eppur mi pasco

            della carne materna da cui nasco.

            Cercai un marito ed in tal cimento

            trovai in un padre quell’attaccamento.

            Egli è padre, figlio e sposo amante,

            io madre, moglie, e figlia nonostante.

            Come sian tanti, ma di due non più

            se vuoi aver vita, risolvilo tu.

(A parte) Dura medicina quest’ultimo punto! alla voi, potenze, che date

al cielo innumeri occhi per osservare le azioni umane,

perché non ne annuvolate la vista per sempre,

se è vero questo che a leggerlo mi sbianca?

Tu, cristallo di luce, ti amavo e ancora ti amerei

se questo tuo splendido scrigno non fosse riempito di male.

Ma devo dirti che ora si rivoltano i miei pensieri,

perché non è uomo dotato di perfezione

chi, sapendo che dentro c’è il male, bussa alla porta.

Tu sei una bella viola, e i tuoi sensi le corde,

che, toccate per dare all’uomo musica legittima,

trarrebbero giù il cielo e gli dèi tutti ad ascoltare,

ma, suonate fuori tempo,

solo l’inferno può danzare alla loro musica stridente.

In fede mia, io non mi curerò più di te.

ANTIOCO

Principe Pericle, non toccare, per la tua vita:

è un articolo della nostra legge,

pericoloso come tutti gli altri. Il tuo tempo è scaduto;

ora risolvi l’enigma o subirai la tua sentenza.

PERICLE

Grande re,

pochi amano udire i peccati che amano fare.

Rimprovero troppo pungente per te sarebbe il mio parlare.

Chi ha un registro di tutti gli atti dei monarchi,

è più al sicuro se lo tiene chiuso e non lo mostra,

perché il vizio, propagato, è come il vento vagabondo

che soffia polvere negli occhi per diffondersi,

e quel che ne risulta è pagato a caro prezzo:

passato il soffio, gli occhi offesi vedono chiaro

e fermano l’aria che vuol ferirli. La cieca talpa

alza contro il cielo erte collinette, come a dire

che la terra è calpestata dall’oppressione umana,

e la misera creatura, per questo, muore.

I re sono gli dèi della terra; nel vizio, la loro volontà

è legge; e se Giove erra, chi osa dire che fa male Giove?

È sufficiente che voi sappiate, ed è opportuno

soffocare ciò che, più si conosce, peggio diventa.

Tutti amano il ventre che nutrì la loro iniziale esistenza;

dà quindi alla mia lingua uguale licenza di amare la mia testa.

ANTIOCO (a parte)

Perdio! avessi la sua testa! Ha scoperto il senso.

Ma fingerò con lui. – Giovane principe di Tiro,

pur se secondo la sostanza del nostro severo editto,

avendo tu errato nella interpretazione,

noi potremmo procedere a cancellare la tua vita,

tuttavia la speranza, che deriva da un così bell’albero

qual è la tua persona, ci accorda in altro modo.

Quaranta giorni ancora noi ti concediamo,

se nel qual tempo il nostro segreto sarà sciolto,

questa clemenza ti dimostra che gioiremo di un tale figlio.

E fino ad allora avrai ospitalità

quale si addice al nostro onore e al tuo valore.

Escono. Pericle rimane solo

PERICLE

Come la cortesia cerca di coprire il peccato,

quando l’azione non è che ipocrisia,

buona in nient’altro che nell’apparenza!

Se fosse vero che ho interpretato male!

Allora sarebbe certo che non foste così malvagi

da macchiarvi l’anima con lo sporco incesto;

mentre ora tu sei insieme padre e figlio,

coi tuoi avvinghiamenti di vecchio con la tua bambina,

piaceri che s’addicono a un marito, non a un padre,

e lei si mangia la carne di sua madre

contaminando il letto dei suoi genitori;

ed entrambi quali serpenti siete, che, pur cibandosi

dei più dolci fiori, tuttavia producono veleno.

Antiochia, addio, perché la saggezza vede

che chi non arrossisce alle azioni più nere della notte

non eviterà alcun mezzo per nasconderle alla luce.

Un peccato, lo so bene, ne procura un altro:

l’assassinio è vicino alla lussuria come la fiamma al fumo.

Veleno e tradimento sono le mani del peccato,

sì, e anche gli scudi per stornarne la vergogna.

E allora, perché non sia falciata la mia vita per lasciarvi

indenni, eviterò con la fuga il pericolo che temo. Esce.

 

Entra Antioco.

ANTIOCO

Ha scoperto il senso,

e per questo noi vogliamo la sua testa.

Non vivrà per strombazzare la mia infamia,

per dire al mondo che Antioco pecca

in tale modo disgustoso;

e perciò immediatamente questo principe deve morire,

perché con la sua caduta il mio onore si mantenga alto.

Chi è là fuori?

Entra Taliardo.

TALIARDO

Vostra Altezza ha chiamato?

ANTIOCO

Taliardo, tu sei il nostro ciambellano, Taliardo,

e la nostra mente confida i suoi segreti moti

alla tua riservatezza; e per la tua fedeltà

noi ti avanzeremo, Taliardo.

Guarda, qui c’è veleno e qui oro: noi odiamo

il principe di Tiro, e tu devi ucciderlo.

Non spetta a te domandare la ragione,

poiché noi te l’ordiniamo. Dì, è cosa fatta?

TALIARDO

Mio signore, è cosa fatta.

ANTIOCO

Basta così.

Entra un messaggero.

Riprendi fiato e spiegami questa fretta.

MESSAGGERO

Mio signore, il principe Pericle è fuggito.

Esce.

ANTIOCO

Se vuoi vivere, corrigli dietro, e, come una freccia scagliata da un arciere esperto che colpisce il bersaglio a cui mira il suo occhio, non tornare se non per dirmi “Il principe di Tiro è morto”.

TALIARDO

Mio signore, se lo prendo alla portata della mia pistola non lo mancherò. Saluto Vostra Altezza.

ANTIOCO

Addio, Taliardo. Esce Taliardo.

Finché Pericle non sarà morto,

il mio cuore non potrà dar pace alla mia testa. Esce.

ATTO PRIMO – SCENA SECONDA

Entra Pericle con signori del seguito.

PERICLE

Che nessuno ci disturbi. Escono i signori.

Perché quest’animo mutato,

e questa triste compagna, la malinconia dagli occhi spenti,

mi sono ospiti assidui e non un’ora mi danno pace

nel cammino splendido del giorno e nella quieta notte,

la tomba dove la pena si dovrebbe assopire?

Qui i piaceri corteggiano i miei occhi, e i miei occhi

li sfuggono, e il pericolo che temo è ad Antiochia,

il cui braccio è troppo corto per colpirmi qui.

Eppure, né l’arte del piacere sa rallegrare il mio spirito

né mi conforta la distanza di quell’altro.

Allora è così: le passioni della mente,

che hanno la loro prima concezione nel terrore,

si nutrono poi e vivono di affanno,

e ciò che prima era solo paura di quanto poteva accadere

si sviluppa e si affanna affinché quello non accada.

Così è per me. Il grande Antioco,

contro il quale son troppo piccolo per lottare,

poiché è così grande da tradurre in atto ogni suo volere,

penserà che io parli, anche se giuro di tacere;

né serve che io dica che lo onoro,

se sospetta che io possa disonorarlo.

E quel che può farlo arrossire, se risaputo,

egli ne fermerà il corso per cui si possa venire a saperlo.

Con forze ostili ricoprirà questa terra

e con ostentazione guerresca si presenterà così gigantesco

che lo smarrimento toglierà coraggio al mio stato,

e i nostri uomini saranno sconfitti prima di resistere

e i nostri sudditi puniti senza aver recato offesa alcuna.

È quest’affanno per loro, non la pietà per me stesso

– che sono soltanto chioma d’albero

che protegge le radici da cui essi crescono e li difende –

a farmi languire il corpo e penare la mente,

punendomi così prima che lui mi punisca.

Entrano Elicano e i signori del seguito.

PRIMO SIGNORE

Gioia ed ogni conforto al vostro sacro petto!

SECONDO SIGNORE

E tranquilla sia la vostra mente finché

non tornerete da noi sereno e sicuro.

ELICANO

Basta, basta, lasciate parlare l’esperienza.

Ingannano il re coloro che lo adulano,

perché l’adulazione è il mantice che attizza il peccato;

tutto ciò che viene adulato è come una scintilla

a cui quel soffio dà calore e maggior ardore;

il rimprovero, invece, riverente e corretto,

si addice ai re, che sono uomini e perciò possono errare.

Quando il Signor Lusinga, qui, proclama pace

egli vi adula, e fa guerra alla vostra vita.

Principe, perdonatemi, o colpitemi se volete;

io non mi abbasso oltre il mettermi in ginocchio.

Si inginocchia.

PERICLE

Tutti gli altri si allontanino. Ma siate vigili

e controllate ogni sbarco e carico nel nostro porto.

E poi tornate a riferirci. Escono i signori.

Elicano,

tu ci hai irritato. Che cosa vedi nel mio aspetto?

ELICANO

Una fronte irata, mio temuto signore.

PERICLE

Se c’è una tale freccia nel cipiglio dei principi,

come osa la tua lingua muovere all’ira il nostro volto?

ELICANO

Come osano le piante guardare al cielo,

da cui ricevono il loro nutrimento?

PERICLE

Tu sai che io ho il potere di toglierti la vita.

ELICANO

Ho affilato la scure io stesso, sferrate il colpo.

PERICLE

Alzati, ti prego, alzati. Siediti. Non sei un adulatore;

te ne ringrazio, e il cielo non voglia che i re

consentano alle loro orecchie di ascoltare solo ciò

che nasconde le loro colpe. Degno consigliere e suddito

di un principe, che con la tua saggezza fai di un principe

il tuo suddito, che cosa vorresti che facessi?

ELICANO

Sopportare con pazienza le pene

che voi stesso infliggete a voi stesso.

PERICLE

Tu parli come un medico, Elicano,

somministrandomi una pozione

che tremeresti a prendere tu stesso.

Ascoltami, allora. Andai ad Antiochia,

dove, come sai, con rischio di morte

cercai di conquistare una splendida bellezza,

da cui potessi procreare tale progenie

quale dà forza ai principi e gioia ai loro sudditi.

La sua faccia oltrepassò ai miei occhi ogni meraviglia,

ma il resto – lo confido al tuo orecchio – era nero come l’incesto;

e quando il mio intendimento lo scoprì, il peccaminoso padre

parve non colpire ma blandire. Ma tu sai bene

che è tempo d’aver paura quando i tiranni fanno mostra

di baciare. E quella paura crebbe tanto in me che fuggii qui,

sotto il riparo di una premurosa notte

che parve mia buona protettrice; e, qui giunto,

pensai all’accaduto e al possibile accadere.

Lo sapevo tiranno, e le paure dei tiranni

non diminuiscono, ma crescono più in fretta degli anni.

E se egli dovesse dubitare, come senza dubbio fa,

che io possa rivelare anche solo all’ascolto dell’aria

quanti degni principi hanno versato sangue

perché non fosse scoperto il suo letto di tenebra,

per liberarsi di quel dubbio riempirebbe questa terra d’armi,

fìngendo d’aver subìto da me qualche torto.

E allora tutti per mia colpa – se così posso chiamarla –

dovrebbero patire l’assalto della guerra,

che non risparmia l’innocenza. Questo mio amore per tutti,

e tu sei uno di quelli, tu che ora mi rimproveri

per questo…

ELICANO

Ahimè, signore.

PERICLE

Mi ha tolto il sonno dagli occhi e il sangue dalle guance,

assilli nella mente, e mille dubbi,

su come io possa fermare questa tempesta prima che arrivi;

e, trovando ben poco aiuto nell’alleviarli,

ho pensato che fosse carità di principe soffrirne.

ELICANO

Bene, mio signore, poiché mi avete dato licenza di parlare,

parlerò liberamente. Antioco voi temete,

e giustamente, credo, temete il tiranno

che con aperta guerra o segreto tradimento

vuole togliervi la vita.

Perciò, mio signore, andate in viaggio per un poco,

finché non si plachi la sua furia e la sua ira,

o finché le Parche non taglino il filo della sua vita.

Affidate il vostro governo a qualcuno; se a me,

il giorno non serve la luce più fedelmente di quanto farò io.

PERICLE

Non dubito della tua fedeltà,

ma se in mia assenza egli facesse torto al mio libero paese?

ELICANO

Verseremo tutti insieme il sangue alla terra

dalla quale avemmo nascita ed esistenza.

PERICLE

Tiro, allora io volgo via da te i miei occhi, e a Tarso

dirigo il mio viaggio, dove aspetterò tue notizie,

e dalle tue lettere deciderò il da farsi.

La cura che ho avuto, e ho, del bene dei miei sudditi

l’affido a te, la cui saggia fermezza può reggerla.

Prenderò la tua parola in garanzia, non chiedo un giuramento:

chi non esita a mancare all’una infrangerà entrambi.

Ma noi vivremo così sicuri, ognuno nel cerchio della sua orbita

che il tempo non smentirà mai questa nostra verità:

tu mostri la luce di un suddito, ed io sono un vero principe.

Escono.

ATTO PRIMO – SCENA TERZA

Entra Taliardo da solo.

TALIARDO

Così, questa è Tiro, e questa è la corte, e qui io devo uccidere il re Pericle; e se non lo faccio, è sicuro che al ritorno mi impiccano. È pericoloso. Beh, ora capisco quanto era saggio e avveduto quel tale che, quando gli chiesero che cosa avrebbe voluto dal re, disse che il suo desiderio era di non venire a sapere nessuno dei suoi segreti. Ora mi accorgo che aveva le sue ragioni, perché se un re ordina ad uno di fare il delinquente, quello è costretto a farlo per il contratto che ha stipulato per giuramento. Piano, ecco che arrivano i signori di Tiro.

Entrano Elicano, Escane e altri nobili.

ELICANO

Non occorre, miei compagni e pari di Tiro,

che mi domandiate altro sulla partenza del re.

La delega con il suo sigillo, a me affidata,

mostra a sufficienza che è partito per un viaggio.

TALIARDO (a parte)

Come? il re è partito?

ELICANO

Se volete altre informazioni,

perché, diciamo, sia andato via senza il commiato

del vostro affetto, vi darò qualche lume.

Trovandosi ad Antiochia…

TALIARDO (a parte)

Cosa di Antiochia?

ELICANO

Il regale Antioco, per qual ragione io non so,

s’ebbe a dispiacere con lui; o così egli pensò.

E temendo d’aver errato o peccato,

per mostrare il suo rincrescimento ha voluto punirsi da sé;

e così si sobbarca alle fatiche di un marinaio

al quale ogni minuto minaccia vita o morte.

TALIARDO (a parte)

Beh, vedo che ora non sarò impiccato neanche a volerlo; visto che è partito, tocca ai mari fare un piacere al re: è sfuggito alla terra per perire in mare. Ora mi presento.

Si fa avanti.

Pace ai signori di Tiro!

ELICANO

Benvenuto, nobile Taliardo, da parte di Antioco.

TALIARDO

Da lui vengo,

con un messaggio per il principe Pericle;

ma, appena sbarcato, ho appreso che il vostro signore

s’è messo in viaggio per destinazioni sconosciute.

E ora il mio messaggio tornerà donde è venuto.

ELICANO

Non abbiamo ragione di voler sapere

quel che era diretto al nostro signore, non a noi.

E tuttavia, prima che partiate, questo vogliamo,

che come amici di Antioco possiamo far festa a Tiro.

Escono.

ATTO PRIMO – SCENA QUARTA

Entrano Cleone, governatore di Tarso, con Dionisa sua moglie ed altri.

CLEONE

Mia Dionisa, vogliamo riposarci qui

e raccontarci storie di dolori altrui

per cercare di dimenticare i nostri?

DIONISA

Sarebbe come soffiare sul fuoco sperando di spengerlo:

chi scava per abbassare colli che aspirano troppo in alto,

butta giù una montagna per crearne un’altra più alta.

Oh mio angosciato signore, così sono le nostre pene:

non possiamo che patirle e guardarle con occhi sfortunati,

ma come boschi, se li sfrondiamo, cresceranno più alti.

CLEONE

Oh Dionisa,

chi, se gli manca il cibo, non dirà che ne vuole?

Chi può nascondere la fame fino a morire di fame?

Chi può impedire alle nostre lingue addolorate

di far risuonare fonde nell’aria le nostre pene,

e ai nostri occhi di piangere mentre le lingue

cercano fiato per proclamare quelle pene ancor più forte,

cosicché, se il cielo dorme mentre le sue creature

mancano di tutto, esso possa svegliarsi in loro aiuto

e confortarle? Perciò io darò voce alle nostre pene,

patite ormai da anni, e quando mi mancherà fiato per dirle

mi aiuterò col pianto.

DIONISA

Farò del mio meglio, signore.

CLEONE

Questa Tarso, di cui io ho il governo,

una città su cui l’abbondanza cadeva a piene mani,

cospargendone di ricchezze perfino le strade;

le cui torri si levavano così alte da baciar le nuvole

con le loro cime, e gli stranieri al vederle si stupivano;

i cui uomini e donne si gloriavano dei loro ornamenti

come se per agghindarsi fossero l’uno all’altro specchio;

e le loro tavole erano ricolme a rallegrare la vista,

non tanto perché si nutrissero ma perché si deliziassero;

e ogni povertà era disprezzata, e l’orgoglio così grande

che pronunziare la parola aiuto divenne odioso…

DIONISA

Oh, come è vero!

CLEONE

Ma da questo nostro cambiamento tu vedi cosa può fare il cielo.

Queste bocche che, prima, la terra, il mare e l’aria

non bastavano a soddisfare e a compiacere,

pur dando i loro prodotti in abbondanza,

come case insudiciate, perché non più in uso,

muoiono d’inedia per mancanza di esercizio.

Quei palati, che solo due estati fa

richiedevano nuove invenzioni a deliziarne il gusto,

sarebbero felici ora di aver pane e lo vanno mendicando.

Quelle madri, che per crescere i loro bimbi

non ritenevano nulla troppo raffinato, ora sono pronte

a mangiarsi quei piccoli cari che amavano.

Così affilati sono i denti della fame che marito e moglie

tirano a sorte su chi debba morire per prolungare

la vita dell’altro. Qui se ne sta un gentiluomo,

e lì una dama, in pianto. Qui molti periscono,

ma quelli che li vedono cadere non hanno forza

per dar loro sepoltura. Non è così?

DIONISA

Le nostre guance e gli occhi infossati

ne sono testimonianza.

CLEONE

Oh, quelle città che la coppa dell’abbondanza

e le sue prosperità così lautamente assaporano

in superflue gozzoviglie ascoltino questo lamento!

La miseria di Tarso potrebbe essere la loro.

Entra un signore.

SIGNORE

Dov’è il signor governatore?

CLEONE

Qui.

Manifesta le tue pene che porti qui con tanta fretta,

ché il conforto è troppo lontano perché possiamo aspettarcelo.

SIGNORE

Abbiamo avvistato presso la nostra costa

una maestosa flotta che qui si dirige.

CLEONE

Me l’attendevo.

Una disgrazia se ne porta sempre dietro un’altra

che possa succederle come erede.

E così è per la nostra. Qualche nazione vicina,

approfittando della nostra miseria,

ha riempito di armati il ventre delle sue navi

per abbatterci, noi che siamo già in terra,

e per vincere questa mia infelice persona,

che non è gloria sopraffare.

SIGNORE

Ciò non è affatto da temere, perché a giudicare

dalle bandiere bianche che hanno spiegato ci portano pace

e vengono da noi ad aiutarci, non a combatterci.

CLEONE

Tu parli come uno che non conosce il detto:

chi fa più bella mostra intende maggior inganno.

Ma portino pure quel che vogliono e che possono,

tanto che cosa possiamo perdere?

Siamo già per terra e con un piede dentro.

Va’ a dire al loro generale che l’attendiamo qui

per sapere per che cosa viene e di dove viene

e che cosa vuole.

SIGNORE

Vado, mio signore. Esce.

CLEONE

Ben venga la pace, se egli intende pace;

se guerra, non potremo opporre resistenza.

Entra Pericle con il suo seguito.

PERICLE

Signor governatore, che tale ci dicono voi siete,

le nostre navi e il numero dei nostri uomini

non spaventino i vostri occhi come un segnale di fuoco.

Fino a Tiro abbiamo udito delle vostre disgrazie

e ora abbiamo visto la desolazione delle vostre strade.

Non veniamo per aggiungere dolore al vostro pianto,

ma per alleviarne il grave peso;

e queste nostre navi, che potreste pensare riempite

come il cavallo di Troia di sanguinarie vene

pronte a riversarsi fuori e a distruggervi,

sono stivate di grano per fare il pane che vi manca

e ridare vita a quanti la fame ha quasi spento.

TUTTI

Gli dèi della Grecia vi proteggano!

Pregheremo per voi.

Si inginocchiano.

PERICLE

Alzatevi, vi prego, alzatevi.

Noi non cerchiamo riverenza ma amore,

e asilo per noi stessi, le nostre navi, i nostri uomini.

CLEONE

Tutto ciò se qualcuno ve lo negasse,

o dovesse ripagarvi con l’ingratitudine, anche solo

nel pensiero, fosse pure nostra moglie, un nostro figlio

o noi stessi, la maledizione del cielo e degli uomini

consegua a quel male! Fino ad allora,

momento che io spero di non vedere mai,

Vostra Grazia è benvenuta alla città e a noi.

PERICLE

Accettiamo questo benvenuto, e qui facciamo festa

per un poco, finché le nostre stelle ora corrucciate

non ci rendano un sorriso. Escono.

Pericle Principe di Tiro
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