Di Giangiuseppe Pili.
«Re Lear» è la tragedia dell’amore tra giovani e vecchi. I giovani hanno bisogno dei vecchi, hanno bisogno della loro pazienza, della loro capacità di vedere le cose senza fretta, della loro pacatezza, del loro affetto. Ma queste virtù sono davvero dei vecchi? Spesso si scopre che i vecchi non sono altro che persone come tutti, solo più deboli e più esposte alle malattie.
Tutto questo rispetto per i vecchi ci avvelena la vita, perché ci consente di mettere le mani sul nostro patrimonio soltanto quando siamo troppo vecchi per goderne. Incomincio a pensare che questa tirannia dei vecchi sia davvero insopportabile – e tutto non per qualche loro effettivo potere, ma perché noi lo tolleriamo!
William Shakespeare
Insieme a Amleto, Otello e Macbeth il Re Lear è considerata tra le più grandi tragedie di William Shakespeare. L’ambientazione è quella della corte delle figlie del Re. Al principio della storia, Re Lear decide di cedere il proprio regno alle sue figlie, dopo che queste abbiano dimostrato la giusta devozione nei suoi confronti. E così Goneril e Regan, le due figlie più grandi, si prostrano di fronte al vecchio padre con false parole d’amore, vere adulatrici, seducono il padre circa le loro intenzioni e la loro benevolenza:
Goneril: Maestà, io vi amo.. Non bastano, a dirlo, le parole. So soltanto che mi siete più caro dei miei occhi, più dello spazio in cui mi muovo, più della libertà.
Ma la realtà è che Goneril e Regan conoscono le debolezze di un padre orgoglioso e dispotico, anziano e indipendente. Le due figlie, dunque, tentano di sfruttare il padre accordandogli il loro falso amore, ma non il loro cuore, dedito esclusivamente all’acquisizione di vantaggi personali, come si vedrà, poi, con i reciproci mariti, anch’essi acquisiti e poi scaricati in funzione di nuove valutazioni di interesse egoistico. Cordelia, la figlia più giovane, capisce la situazione, ma decide di non far leva sulle adulazioni. Pur sapendo di poter venire investita dall’ira paterna, facile ad alzarsi come la sua incapacità di capire le persone (tutta la tragedia mostra come Re Lear sia quasi un autistico, abituato com’era a non dover niente a nessuno), rifiuta di adularlo:
Lear: (…) E Adesso tu, gioia mia, tu che sei l’ultima ma non certo la meno importante, tu, giovane amore conteso tra i vigneti di Francia e i pascoli della Borgogna, che cosa dici tu?Ho per te un terzo del mio regno – più ricco degli altri. Che cosa dici?
Cordelia: Niente, mio signore.
Lear: Niente?
Cordelia: Niente.
Lear: Da niente viene niente. Di’ qualcosa.
Cordelia: Povera me che il mio cuore non sa parlare con la mia bocca… Io vi amo, Maestà, per quanto io posso – nei miei limiti. Non di più e non di meno.
Lear: Che cosa? Voglio qualcosa di meglio! Guarda che stai rischiando.
Rischia a tal punto che Re Lear la punisce non accordandogli alcuna parte del suo regno. Le figlie, ora tutte sposate, si ritrovano a gestire il padre, un vecchio orgoglioso, dispotico ed economicamente infruttuoso, visto che non molla la sua scorta supposta inutile. Cordelia accetta il fatto che le sorelle non aiutino il padre ma non si dà pace della sorte, perché il padre non vuole farsi prender cura da lei. Nel frattempo, il conte di Gloucester viene ingannato dal figlio bastardo, Edmund, il quale è stufo di essere trattato, a suo giudizio, in modo iniquo rispetto al suo fratello maggiore, Edgar. Infatti, Edmund viene brutalmente trattato dal padre, il quale gli rinfaccia le sue inferiori origini. Dal canto suo Edmund inizia ad odiare il padre, al quale non perdona l’averlo messo al mondo in simili condizioni: Gloucester si era divertito nel sollazzare i suoi piaceri sessuali, ma non ne avrebbe voluto pagare il prezzo. E una parte del prezzo lo scaricava, appunto, su di lui, suo figlio nato bastardo non certo per colpa sua, una colpa che, appunto, non è tale. Sicché intesse una complicata trama per ingannare il padre circa l’onestà di Edgar. Edmund, così, tenta una scalata al potere destinata a finire male.
Come è destinato a fallire il tentativo di liberarsi del Re Lear da parte delle due sorelle, Goneril e Regan. Infatti, costoro si inviperiscono contro il padre, lo accusano di essere pazzo e lo abbandonano alle sorti di un triste vagabondare durante una furiosa tempesta. Re Lear, sconsolato e quasi ammattito, è assistito soltanto da un suo fedele e dal buffone di corte, uno dei pochi personaggi veramente umani e ragionevoli della tragedia. Sprezzante ed acuto, intelligente ed arguto, il buffone è il commento a margine dello sguardo di chi guarda le cose dall’esterno, da chi vede i rivolgimenti dell’animo altrui e compatisce i poveri disgraziati in mezzo alla tempesta dei sentimenti.
Goneril e Regan, fino ad ora alleate contro il padre, trovano ben presto ragione di odio vicendevole, per via dell’amore che entrambe accordano ad Edmund, il quale non ne rifiuta alcuna, per non essere costretto a scegliere un partito e rischiare, così, di ritrovarsi dal partito sbagliato. Gli stati di interesse dei personaggi finiscono per sommarsi in modo tale che i tradimenti sono necessaria conseguenza delle configurazioni momentanee degli stati di cose. Tutti tradiscono tutti, eccetto che Cordelia, la quale finirà comunque per morire perché, alla fine, il destino è quello dell’autodistruzione totale di un mondo tradito composto da tradimenti.
Tutto questo rispetto per i vecchi ci avvelena la vita, perché ci consente di mettere le mani sul nostro patrimonio soltanto quando siamo troppo vecchi per goderne. Incomincio a pensare che questa tirannia dei vecchi sia davvero insopportabile – e tutto non per qualche loro effettivo potere, ma perché noi lo tolleriamo!
Questo passo è, probabilmente, una delle chiavi di lettura del Re Lear, cioè la tragedia del rapporto tra vecchi e giovani, un rapporto fatto di un conflitto giocato tra i desideri frustrati degli uni e degli altri e delle vicendevoli aspettative mancate. I vecchi accusano i giovani di non essere all’altezza del valore degli antichi e i giovani replicano all’arbitrario dispotismo che i vecchi impongono loro. I vecchi riconoscono valori che i giovani non capiscono e viceversa, soltanto perché nella gerarchia del potere ci può stare solo una gerarchia di valori. I giovani vedono nel vecchio l’anticamera della morte e non trovano ragione di un essere che è identico a loro, con in più l’essere incapace di poter pensare a se stesso. Perché re Lear non è saggio, non è buono, non è niente. Re Lear è un vecchio che vorrebbe l’amore incondizionato delle figlie, ma che non affatto disposto a darne per primo. Egli pretende senza dare, egli vuole ottenere senza concedere. Egli, insomma, non ha alcuna ragione per simili pretese, ma non vede il motivo di lottare per qualcosa che gli pare suo: le sue figlie.
Sicché la reazione delle figlie di fronte ad un padre privo di amore, ma avido dello stesso, sintomo dell’infante non cresciuto nel cuore del re, è duplice. Due di loro somigliano al padre, ma, a differenza del vecchio re, sono disposte a mentire per raggiungere i loro obiettivi. Cordelia, invece, accetta il dispotismo del padre con benevolenza, come il popolo timoroso accetta di asservire un dio potente e dispotico. Cordelia è la figlia-in adorazione, prona al padre, al quale cede senza lottare per un amore figliare puro quanto cieco. Dal canto suo, il Re Lear non riesce a riconoscere l’amore della figlia perché anche da lei pretende quanto costei non le può accordare. Perché il vecchio tende a non voler riconoscere l’esigenza del suo prossimo, attento com’è a preservare ciò che crede di avere ormai per diritto di anzianità. Quindi, Re Lear cerca di piegare la volontà della figlia, costringendola a violare la sua stessa natura, adorante ma sincera. Il risultato è, anche qui, catastrofico.
A un padre dispotico, cioè tiranno, cioè voglioso di giudicare i suoi figli e di amministrarli come dei cani di razza, tipicamente si risponde o cedendogli o ingannandolo, a meno che tale padre dispotico sia privo di interesse. Nel qual caso si abbandona a se stesso. Che è quello che capita a Re Lear, dopo che ha donato tutti i suoi possessi alle due figlie. Perché ora egli è solo una spesa inutile, un fardello per dei cuori di pietra, impietriti dall’abitudine ad un simile arbitrarismo di fondo. Il risultato finale, dunque, è che Re Lear, frustrato nel suo bisogno di amore, distrutto nelle sue aspettative, ridotto a vecchio impotente, è abbandonato alla dissoluzione, simboleggiata dalla tempesta terribile in cui egli è costretto a vagare, tempesta simbolo di un mondo distrutto perché visto con gli occhi di chi è stato distrutto nell’affetto. Perché Re Lear aveva tanto amore e affetto da dare, ma era un affetto che egli amministrava con il bastone, un affetto da padrone di pecore, che elargisce legnate al suo gregge non perché gli voglia male, ma proprio perché gli vuole bene.
La tragedia del Re Lear è, dunque, la tragedia dell’amore tra giovani e vecchi. I giovani hanno bisogno dei vecchi, hanno bisogno della loro pazienza, della loro capacità di vedere le cose senza fretta, della loro pacatezza, del loro affetto. Ma queste virtù sono davvero dei vecchi? Spesso si scopre che i vecchi non sono altro che persone come tutti, solo più deboli e più esposte alle malattie. D’altra parte, anche i vecchi vorrebbero amare i giovani. Perché i vecchi hanno bisogno di cure, di attenzioni e di affetto. Ma poi i giovani sono in grado di darne? No, anche perché il mondo dei giovani diventa presto imperscrutabile. Il sistema di vita dei vecchi è andato perduto con la loro stessa attività, perché anche nel remoto paese la vita si evolve, l’organizzazione cambia e il mondo diventa diverso. Siamo sempre tutti immersi nella confusione, nell’opacità di un futuro che non si riesce né a dominare né a capire. Ma il vecchio la fa pagare al giovane: sei tu, oh depravato, ad essere scellerato e causa di tutto questo disfarsi del mondo. E la replica del giovane è all’incontrario di quella del vecchio: tu hai creato il mio presente e allora di che ti lamenti, giacché io, per colpa tua, sono venuto al mondo?
Sicché il legame vecchio-giovane si gioca tutto su questo complesso stato di desideri e affetti mai pienamente contraccambiabili. Infatti, l’amore si gioca sul riconoscimento di reciproci valori, ma il conflitto si gioca sul fatto di non poter accordare quello stesso amore così come si vorrebbe. Perché vecchi e giovani hanno paura di cedere di fronte a chi, poi, determinerà l’iniziativa nella relazione: perché il primo che cede, anche nell’affetto, è colui che si lascerà condurre. E allora o non si cede, quindi la tragedia di Lear con le figlie maggiori, oppure si cede, e allora la tragedia di Lear con Cordelia (la più drammatica, perché Cordelia ama il padre, ma il padre non le consente di farsi amare alle condizioni – per altro giuste – della figlia). L’amore, dunque, è spesso accordato alle persone sbagliate, anche perché spesso queste persone non ce le scegliamo: è il caso della famiglia del Re Lear o della famiglia di Gloucester. Non solo. Spesso l’amore è l’oggetto stesso di una furiosa contesa, in cui l’azione diretta non è possibile perché si temono le complesse reazioni. E dove ad ogni azione c’è una reazione, ad ogni possibile mossa c’è una possibile contromossa, dove al piacere può subentrare il dolore, quello è il luogo in cui subentra la logica strategica, dove si cerca di ottenere il proprio tornaconto-emotivo senza volerne pagare il prezzo, cosa evidentemente possibile. Questa la tragedia di tante famiglie, in cui l’amore è coatto perché vi si è inseriti, ma che non si può accordare se non a caro prezzo. E il risultato è l’odio che oscilla perpetuamente in un pulviscolo confuso di sentimenti che non escludono l’amore.
Nell’Amleto il tema era la morte con la relazione della vita, in Romeo e Giulietta è il dramma del giogo sociale, nell’Enrico IV il tema è il rapporto padre-figlio, nel Macbeth è l’ambizione e il traviamento di una moglie, in Otello è la gelosia, in Re Lear è il rapporto vecchi-giovani. Nonostante sia considerata una delle tragedie più riuscite, rimane il fatto che Re Lear sembra talvolta eccessiva sia nello stile, che nella trama. Infatti, il complesso gioco di tradimenti è talvolta arzigogolato e difficile da seguire ma non se ne vede il motivo. Mentre lo stile è, in questo caso, assai brutale che mal si concilia con la vita di corte. Perplessità minori, s’intende, ma tali da non poter considerare Re Lear accostabile ai capolavori del Macbeth o dell’Amleto. Certo, si tratta pur sempre di un’opera di genio. Ma appunto per questo da un tale padre si pretende un figlio perlomeno alla sua altezza. In questo caso, un figlio all’altezza, si, ma non di tutti i suoi fratelli. Ancora una volta una metafora familiare, ancora una volta una scala di valori: la tragedia di noi esseri umani, la tragedia che ci rende umani.
Una piccola nota a margine: se leggete introduzioni o postfazioni e vi chiede continuamente se abbiano un senso, a parte incensare chi le sta scrivendo, che compie magnifici giri di parole autoincensanti, non vi preoccupate. Siete in buona compagnia.
Giangiuseppe Pili