Riccardo III – Un’indagine sul male tra teatro, cinema e filosofia

Di Martina Raule

La grandezza dell’opera sta proprio nell’abilità del grande drammaturgo di creare un personaggio così profondamente cattivo ma allo stesso tempo così maledettamente affascinante: un istrione che con arguta ironia e crudeltà, sempre dissimulate con retorici e sfarzosi monologhi sulla nobiltà d’animo e sul suo essere altruista e generoso, riesce ad incantare e far soccombere chiunque, re e principi, donne e uomini.

da Cogito et Volo

Riccardo III - Un’indagine sul male
Massimo Ranieri – Riccardo III

Dramma storico scritto tra il 1591 e il 1594, Riccardo III appartiene alle opere giovanili di William Shakespeare eppure rivela già, soprattutto nella complessità e contraddittorietà della figura del protagonista, la grandezza del suo genio. L’opera si ispira alla figura storica del re Riccardo III, ultimo sovrano della casata degli York, protagonista di quella che è passata alla storia come “la Guerra delle due Rose”, lo scontro tra gli York e i Lancaster, conclusasi nel 1485 con la caduta di Riccardo.

Conosciuto per la sua proverbiale cattiveria e il suo gigantismo, il Riccardo raccontato da Shakespeare appare come un uomo spietato, corrotto, pronto a tutto per arrivare alla corona. Non si fa nessuna remora ad uccidere anziani, bambini e parenti. Il fine, per Riccardo, giustifica sempre i mezzi, in una perfetta personificazione del principio machiavellico. Lo scopo totalizzante di Riccardo è la conquista del potere e la sua malvagità è ciò che gli consente di ottenerlo: si finge amico di coloro che farà poi assassinare, maschera le sua ambizione, si presenta come un uomo timorato di Dio quando trama i delitti più atroci, corteggia senza pudore Lady Anna, la moglie del precedente Re che lui stesso ha fatto uccidere. Riccardo è un attore sublime, in grado di incantare chiunque, di manipolare uomini e leggi, di maneggiare astutamente la perversa arte della politica.

La grandezza dell’opera sta proprio nell’abilità del grande drammaturgo di creare un personaggio così profondamente cattivo ma allo stesso tempo così maledettamente affascinante: un istrione che con arguta ironia e crudeltà, sempre dissimulate con retorici e sfarzosi monologhi sulla nobiltà d’animo e sul suo essere altruista e generoso, riesce ad incantare e far soccombere chiunque, re e principi, donne e uomini. Un personaggio così psicologicamente contorto e meschino ma che intrappola il lettore/spettatore come farebbe una pianta carnivora: bellissima quanto letale.

Riccardo sostiene dolorosamente che la sua cattiveria verso gli altri deriva dal fatto che non è amato, e che non è amato a causa della sua deformità fisica. Questa affermazione, che pone gli altri personaggi come i veri cattivi della vicenda, rende facile simpatizzare con Riccardo. Riccardo dimostra di essere molto autoriflessivo e complicato, rendendo i suoi atti nefasti ancor più agghiaccianti. Una volta diventato re inizia a vedere i demoni dentro di sé, a dubitare della sua purezza d’animo. Il popolo lo odia, i nobili iniziano a non fidarsi più di lui. La situazione precipita la notte prima della battaglia finale con il conte Richmond, quando gli spettri di tutte le persone che ha ucciso tornano a ricordargli i suoi omicidi al grido di: «dispera e muori!». Spaventato, Riccardo decide di scappare, ma si rende conto che non può fuggire dal suo vero nemico, ossia da sé stesso.

«Di che cosa ho paura? Di me stesso? Non c’è nessun altro presente.
Riccardo ama Riccardo, cioè, io sono io.
C’è forse un assassino qui? No. Sì, sono io!
Fuggi allora. Come, da me stesso? Ne avrei buona ragione,
Per non vendicarmi? Come, io di me stesso?
Ahimè, io amo me stesso. Perché? Per qualche bene
Ch’io abbia fatto a me stesso?
O no, ahimè, se mai odio me stesso,
Per le azioni odiose che ho commesso.
Sono uno scellerato…oppure mento, non lo sono!
Pazzo, parla bene di te: pazzo, non adularti!»

È con questo monologo che Riccardo III attira l’attenzione di Hannah Arendt: vi ritroviamo infatti un perfetto esempio di quello che è il pensiero secondo la filosofa, ossia quel dialogo del due-in-uno, di me con il mio nemico dentro di me, quella voce della coscienza che guida le nostre scelte, un dialogo continuo e serrato, che non deve mai finire per non finir trascinati dalla corrente. Il pensiero è l’attività della partecipazione alla propria stessa vita. «Ecco perché allora è meglio patire il male che farlo – scrive la Arendt in Responsabilità e giudizio: perché se facessi il male, sarei condannato a vivere assieme a un malfattore per il resto dei miei giorni, senza un attimo di tregua. Ed ecco perché non esiste crimine che resti completamente celato agli occhi degli dei e degli uomini […]: perché io sono il partner di me stesso quando penso e sono il testimone delle azioni che compio». E questa è la tremenda consapevolezza a cui arriva Riccardo:

«La mia coscienza ha mille lingue diverse,
E ogni lingua racconta la sua storia,
E ogni storia mi condanna come malvagio»

Forse il vero segreto della grandezza di Riccardo III sta nell’aver messo in scena un dramma troppo spesso riproposto dalla storia, quello di una nefasta e terribile dittatura, e nell’aver conservato intatto nei secoli il suo angosciante valore di monito. Celebre è la rivisitazione cinematografica scritta e interpretata da Ian McKellen, che ha riattualizzato il dramma in un’immaginaria dittatura si satmpo fascista nell’Inghilterra degli anni Venti del Novecento. Riccardo III è un intenso viaggio nella psicologia del male che, tra teatro, cinema, letteratura e filosofia, continua dopo più di cinquecento anni a influenzare e turbare gli spettatori.

Martina Raule

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