(“Timon of Athens” – 1605 – 1608)
Traduzione di Agostino Lombardo
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
Introduzione
“Timone d’Atene” è la tragedia del denaro, dell’adulazione, dell’ingratitudine umana. In essa si narra la vicenda di Timone, ricco ateniese generoso e scialacquatore, perennemente circondato di parassiti che egli crede amici. Ma quando i debiti lo travolgono, non trova nessuno che lo soccorra. Indignato, si ritira a vita solitaria in una caverna nei pressi della città, e anche quando trova un insperato tesoro, non torna ai lussi e agli agi, ma usa quel denaro per tessere la sua vendetta contro la città ingrata. Vicino per la cupa visione del mondo e dell’umanità a Lear, Amieto e Otello, Timone resta memorabile per le icastiche invettive contro la cupidigia e l’egoismo degli uomini, tanto da essere ancora oggi uno dei drammi più significativi e citati di Shakespeare.
Dramma in cinque atti in versi e in prosa, Timone d’Atene si ispira a uno dei più celebri dialoghi di Luciano. Fu scritto probabilmente nel 1608 per essere poi pubblicato nell’in folio del 1623.Timone è circondato dalle adulazioni dei suoi favoriti e dai doni che ricambia in modo stravagante; ma una volta girata la fortuna Timone sperimenta l’ingratitudine degli amici e si ritira a vivere solitario in una caverna, dove sarà raggiunto dai senatori ateniesi perché aiuti la città minacciata da Alcibiade.
Timone d’Atene è stato scritto presumibilmente da Shakespeare tra il 1604 ed il 1608 come opera sperimentale in risposta alla trasformazione sociale riflessa nel teatro in quegli anni; trasformazione del pubblico, con il progressivo allontanamento della classe media londinese, artigiani e piccoli imprenditori, che avevano preso coscienza della loro nuova condizione sociale, legata alla accresciuta potenza economica. Trasformazione dello spazio scenico con il trasferimento delle compagnie di attori professionisti dai teatro all’aperto a quelli al chiuso, cosidetti privati. Trasformazioni che Timone, esprime con un linguaggio di straordinaria violenza verbale unita ad una incisiva poeticità attraverso la quale Shakespeare condanna i suoi contemporanei accusandoli di aver rinunciato alla loro essenza di uomini per lasciarsi governare dal potere dell’oro, forza di dominio incombente del capitalismo moderno che nasceva proprio in quegli anni.
Due secoli dopo Karl Marx definì il denaro, dopo la lettura del passo dell’invettiva di Timone, “potere alienante dell’umanità”. Oggi, dopo circa cinque secoli, i seguenti versi del Timone d’Atene: “oro, tu Dio invisibile che saldi insieme cose incompatibili e fai sì che si bacino, tu che parli con ogni lingua e per ogni fine”, possono ancora farci riflettere, fare vibrare corde dentro di noi sopite?
Di questo dramma, annoverato dalla critica fra le “tragedie della vendetta” del teatro shakespeariano, insieme con “Tito Andronico”, “Amleto” e “Otello”, non si sa nulla circa la datazione, le fonti, la messa in scena, la stessa fattura di mano di Shakespeare. La critica più recente lo ritiene frutto di una collaborazione con un altro drammaturgo, Thomas Middleton, autore di buoni lavori drammatici rappresentati dalla Compagnia degli Uomini del Re (“The King’s Men”) di cui lo stesso Shakespeare faceva parte. Tutto quello che si sa è che il lavoro è apparso stampato nell’in-folio del 1623 sotto il titolo “La vita di Timone di Atene” (“The Life of Timon of Athens”): titolo che suggerisce almeno come impropria la collocazione del lavoro tra le “tragedie della vendetta”, tutte espressamente intitolate “tragedia”. Nel “Timone” infatti non ci sono truculenze o ammazzamenti.
Il personaggio è realmente esistito nella Atene di Pericle (inizio del V sec. a.C.). Ne parla Plutarco nella “Vita di Antonio”, descrivendolo come un maligno, un misantropo, un introverso, che evitava la compagnia di tutti tranne quella del filosofo Apemanto, “perché assai simile a lui per natura e condizione”, e quella del giovane Alcibiade, il brillante e intraprendente nipote di Pericle, perché si aspettava da lui che, bandito da Atene – come Coriolano da Roma – e sceso in guerra contro la città, recasse gran danno agli odiati Ateniesi.
Un Timone si trova anche in uno dei “Dialoghi dei morti” di Luciano di Samosata, saggi di acerba critica della vanità umana: è un ricco e nobile ateniese, che, ridotto in miseria per la sua prodigalità, è abbandonato da tutti; costretto a isolarsi dalla città e a scavare radici per terra per cibarsi, gli dèi gli fanno trovare dell’oro. La notizia del ritrovamento si sparge per Atene, e Timone è di nuovo assediato da una folla di gente d’ogni ceto, tra cui alcuni dei suoi ingrati amici da lui beneficati al tempo della primitiva ricchezza. Contro tutti egli si scaglia, cacciandoli a colpi di vanga e a sassate.
Un Timone ateniese è anche il protagonista di una commedia, in terzine, di Matteo Maria Boiardo (1487), intitolata appunto “Timone” e ispirata alla vicenda del dialogo di Luciano, che però Shakespeare non conosceva, la traduzione dei “Dialoghi” essendo apparsa in Inghilterra solo nel 1637 ad opera di Thomas Heywood.
Sul piano drammaturgico-letterario, il “Timone” è opera ineguale: accanto a brani di grande raffinatezza poetica – come il dialogo iniziale fra il Poeta e il Pittore – ce ne sono di scadenti nella fattura e addirittura improbabili rispetto alla omogeneità della vicenda – come l’episodio di Alcibiade (III, 6) davanti al Senato in difesa del soldato condannato a morte, di cui non si sa altro che è colpevole di omicidio. Ciò ha fatto pensare all’intervento di altra mano, come s’è detto sopra.
Incertezza è anche nella datazione del lavoro, anche se essa deve esser fissata nella fase detta “maggiore” della produzione shakespeariana (1602-1608), quella cioè del grandi drammi dell’“Amleto”, dell’“Otello”, del “Re Lear”, di “Macbeth”, di “Coriolano”, per la presenza di certe sottigliezze stilistiche e per il magistrale uso del verso e della rima.Le disuguaglianze, oltre che all’intervento di altra mano nella fattura e alla presenza di situazioni non compiute e rimaste sospese – come quella di Ventidio – fanno pensare che il lavoro deve essere stato interrotto e ripreso in epoche diverse; alcuni pensano che sia stata la morte del poeta ad impedirgli di rifinirlo.
Timone, pur essendo un personaggio realmente esistito, come si è detto, non è tuttavia una figura storica come Coriolano, Giulio Cesare, Antonio e lo stesso Troilo di Troia: è piuttosto un tipo, un personaggio-simbolo, una personificazione dell’uomo divenuto per colpa degli uomini misantropo, odiatore di quel genere umano da lui beneficiato e mostratosi cinicamente irriconoscente. Il tutto nel quadro di un mondo carico di tutti i vizi e le magagne dell’umana vanità, perché adoratore di una sola divinità: l’oro, e nel quale la presenza femminile è rappresentata da due etère al seguito del guerriero Alcibiade. La “vendetta” di Timone è perciò – senza produrre vera e propria tragedia nel senso senechiano – vendetta di un uomo contro la sua specie; ma una vendetta in cui non si uccide nessuno, e che si limita a deprecare e maledire, sia pure con un linguaggio violento e urlato, un sistema di vita. Anche se Shakespeare – come nota il Melchiori (III) – “consideri questo atto di denuncia come un equivalente della giusta vendetta”; come dimostrerebbe il fatto che a Timone è riservata la stessa sorte degli altri “vendicatori”, Tito Andronico, Amleto, Otello: la morte, che si darà da se stesso.
Riassunto
Atto I
Timone organizza un grande banchetto, a cui partecipano quasi tutti i personaggi. Distribuisce il proprio denaro senza parsimonia e tutti cercano di compiacerlo per averne di più, tranne Apemanto, un filosofo il cui cinismo non piace a Timone. Gradisce molto gli omaggi del poeta e del pittore e accetta in dono un gioiello dal gioielliere, anche se prima che l’atto si concluda l’ha già dato ad uno dei suoi amici. Un vecchio ateniese si lamenta perché Lucilio, uno dei servi di Timone, fa la corte a sua figlia, ma Timone lo calma compensandolo con tre talenti, pensando che la felicità del servo valga il prezzo. Quando si presenta in prima persona al banchetto, gli viene detto che Ventidio, un suo amico, è finito in prigione per debiti. Egli invia allora del denaro per pagare il debito di Ventidio, che presto si aggrega alla festa. Timone fa un discorso sul valore dell’amicizia e quindi tutti assistono ad un masque, per poi darsi alle danze. Quando la festa sta per finire, Timone sta ancora distribuendo tra gli amici i suoi cavalli (in vista della battuta di caccia del giorno dopo) ed altri suoi beni.
Atto II
Flavio è turbato per il fatto che Timone ha sperperato tutti i suoi beni esagerando con la sua munificenza, patrocinando scrittori ed artisti parassiti e risollevando dubbi amici dai loro guai finanziari. Timone, tornando dalla caccia, è invece arrabbiato per il fatto che non gli sia stato fatto osservare prima e rimprovera Flavio, che gli dice che in passato aveva tentato varie volte di farlo senza successo ed ora è finita: tutti i suoi terreni sono stati venduti. Ad aiutare Timone è proprio il suo opposto, il cinico filosofo Apemanto, che spaventa i falsi amici di Timone con le sue caustiche battute. Insieme ad un buffone attacca i creditori di Timone quando si presentano per chiedere di essere saldati immediatamente. Timone manda i propri servi a chiedere aiuto agli amici che considera a lui più vicini.
Atto III
Ad uno ad uno i servi di Timone vengono scacciati dai suoi falsi amici, e due di essi si abbandonano a due lunghi monologhi per esprimere la propria rabbia verso di loro. In un altro luogo uno dei più giovani ufficiali di Alcibiade sfoga la propria rabbia in maniera ancor più esagerata, uccidendo un uomo. Alcibiade chiede clemenza al Senato, sostenendo che un crimine passionale non dovrebbe essere giudicato con la stessa severità richiesta da un omicidio premeditato. I senatori non sono d’accordo e, quando Alcibiade insiste troppo, lo condannano all’esilio perpetuo. L’atto si conclude con Timone che discute con i servi la vendetta che preparerà in occasione del successivo banchetto.
Atti IV e V
Timone dà una festa più modesta, organizzata soltanto per coloro che l’hanno tradito. Vengono portati vassoi ed anfore, ma gli amici non vi trovano cibi e leccornie, ma solo sassi ed acqua bollente. Timone li scaglia contro di loro e fugge via. Il leale Flavio giura di ritrovarlo. Maledicendo le mura della città Timone si rifugia in una zona selvaggia e va a vivere in una grotta, cibandosi di radici. Qui scopre un tesoro sepolto. La notizia si sparge e il poeta con il pittore, Apemanto, e tre banditi riescono a trovare Timone prima di Flavio. Egli offre la maggior parte di quest’oro ad Alcibiade per finanziargli l’assedio della città. Ad accompagnare Alcibiade ci sono due prostitute, Frinia e Timandra, che scambiano pungenti battute con l’amareggiato Timone riguardo le malattie veneree. Quando entra in scena Apemanto ed accusa Timone di imitare la sua indole pessimista, gli spettatori sono costretti ad assistere allo strano spettacolo di un reciproco scambio di invettive tra i due misantropi. Arriva Flavio. Anche lui vuole la sua parte di denaro, ma vuole anche che Timone torni indietro e riprenda il suo posto nella società. Timone si rende conto di avere in Flavio un vero amico, ma si duole del fatto che quell’uomo sia un semplice servo. Dice agli inviati di Atene, che speravano che Timone potesse ridurre Alcibiade a più miti consigli, di andarsi ad impiccare e muore. Alcibiade, marciando verso Atene, posa a terra il proprio guanto e conclude la tragedia leggendo l’amaro epitaffio che Timone si era preparato:
« Here lie I, Timon, who alive, all living men did hate,
Pass by, and curse thy fill, but pass and stay not here thy gait. »
« Timone, qui giaccio; in vita tutti gli uomini odiai;
passa ed impreca pure, ma non sostare qui mai »
Oppure in alternativa:
« Here lies a wretched corpse of wretched soul bereft:
Seek not my name: a plague consume you wicked caitiffs left! »
« Qui giace il misero corpo della grama anima sua ormai privato:
non cercate il mio nome: codardi malvagi, che una pestilenza vi abbia consumato!»
Anche se il manoscritto originale di Shakespeare li riporta entrambi, data la loro natura contraddittoria, non è possibile che il poeta intendesse includerli entrambi e si pensa che, nel dubbio, abbia alla fine dimenticato di cancellarne uno. Il primo è una citazione di Callimaco.
Timone d’Atene
(“Timon of Athens” – 1605 – 1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V