Timone d’Atene – Atto IV
(“Timon of Athens” – 1605 – 1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
ATTO QUARTO – SCENA PRIMA
Entra Timone.
TIMONE
Lascia che mi volti a guardarti. O voi,
mura che racchiudete quei lupi, affondate
nella terra, non proteggete Atene!
Matrone, diventate prostitute! Nei bambini
venga meno l’obbedienza! Buffoni
e schiavi, strappate dal seggio il grave
rugoso Senato e governate al suo posto!
Verde verginità, mutati all’istante
in pubblica vergogna, davanti agli occhi
dei tuoi genitori. Tenete duro,
bancarottieri: piuttosto che pagare,
fuori i coltelli, tagliate la gola
di chi vi ha dato fiducia! Rubate, servi!
I vostri austeri signori sono ladroni
e rubano in nome della legge.
Tu, serva, nel letto del padrone:
la tua padrona è da bordello. E tu, figlio
di sedici anni, strappa la stampella
imbottita al tuo vecchio padre zoppicante
e giù, spaccagli il cranio! Pietà
e timore, adorazione degli dei, pace,
giustizia, verità, rispetto domestico,
riposo notturno, buon vicinato,
buone maniere, istruzione, vocazioni,
mestieri, gerarchie, osservanze, costumi
e leggi, precipitate nei vostri contrari
rovinosi – ma la rovina viva!
E voi, pestilenze connaturate all’uomo,
ammucchiate su Atene, matura per il colpo,
le vostre febbri potenti e infette.
Tu, fredda sciatica, azzoppa
i nostri senatori sì che le loro
membra siano sciancate come
le loro maniere! Libidine e lussuria
striscino nelle menti e nel midollo
della nostra gioventù, che lotti
contro la corrente della virtù e anneghi
nei bagordi! Rogne e pustole come semi
entrino in tutti i petti ateniesi e il loro
raccolto sia la lebbra universale! Il fiato
infetti il fiato, sì che la compagnia
e l’amicizia siano soltanto veleno!
Nulla porterò via da te se non
la nudità, tu, città detestabile!
Prenditi anche questo con mille maledizioni!
Timone andrà nella foresta, dove
scoprirà che la belva più crudele
è migliore dell’uomo. Distruggano gli dei
– voi tutti ascoltatemi, buoni dei –
gli Ateniesi dentro e fuori queste mura:
e concedano che, con Timone,
cresca il suo odio contro l’intera razza
dell’umanità, in alto e in basso! Amen. [Esce]
ATTO QUARTO – SCENA SECONDA
Entra Flavio, con due o tre Servi.
PRIMO SERVO
Ascoltate, signor intendente, dov’è
il nostro padrone? Siamo finiti,
siamo cacciati, non rimane più niente?
FLAVIO
Ahimè, amici, cosa posso dirvi?
Mi siano testimoni gli dei giusti:
io sono povero come voi.
PRIMO SERVO
Una simile casa in rovina? Un così nobile
padrone caduto, tutto sparito,
e nemmeno un amico che prenda lo sfortunato
per il braccio e vada insieme a lui.
SECONDO SERVO
Così come noi voltiamo le spalle
al nostro compagno gettato nella fossa,
coloro che corteggiavano le sue sepolte fortune
fuggono tutti via, lasciandogli
i loro falsi voti come borse svuotate
da un ladruncolo; e lui, povera creatura,
mendicante destinato all’aria aperta,
malato della povertà da tutti sfuggita,
cammina come il disprezzo, solo.
Ecco altri dei nostri.
Entrano altri Servi.
FLAVIO
Le suppellettili a pezzi di una casa in rovina.
TERZO SERVO
Tuttavia i nostri cuori indossano ancora
la livrea di Timone; lo vedo scritto
sui nostri volti, siamo ancora compagni
e nel dolore seguitiamo a servire.
La nostra barca è avariata e noi,
sventurati marinai, restiamo sul ponte
che muore e sentiamo la minaccia dei marosi:
tutti dobbiamo entrare in questo mare d’aria.
FLAVIO
Buoni amici tutti, ciò che resta
del mio denaro lo divido con voi.
Dovunque ci incontreremo, per amore di Timone,
restiamo amici. Scuotiamo il capo
e diciamo, come un rintocco sulle fortune
del nostro padrone: “Abbiamo visto
giorni migliori”. Ognuno ne prenda un po’.
[Dando loro del denaro]
Tendete la mano. Nessuna altra parola:
così, separandoci poveri, ci separiamo
ricchi di dolore.
[Si abbracciano e si separano, prendendo direzioni diverse]
Oh, la crudele miseria che ci porta il fasto!
Chi non vorrebbe essere libero dalla ricchezza,
se la ricchezza conduce all’infelicità e al disprezzo?
Chi vorrebbe essere così beffato dal lusso,
o vivere in un mero sogno d’amicizia,
con lo sfarzo e tutto ciò che forma il rango
solo dipinti come i suoi amici verniciati?
Povero onesto signore, gettato
in basso dal suo stesso cuore, rovinato
dalla bontà; strano, raro
sangue, se il peccato più grave è quello
di fare troppo bene. Chi osa allora
tornare a essere per metà così buono?
La generosità, che fa gli dei, distrugge
l’uomo. Carissimo mio signore,
benedetto solo per essere
più maledetto, ricco soltanto
per essere sventurato – le tue vaste fortune
diventano le tue afflizioni più grandi.
Ahimè, il mio signore gentile è fuggito infuriato
da questa ingrata dimora di amici mostruosi
né ha con sé tanto da vivere, o alcun mezzo.
Vado a cercarlo. Sempre lo servirò
come meglio potrò. Finché ho dell’oro
rimango il suo intendente. [Esce]
ATTO QUARTO – SCENA TERZA
Entra Timone nella foresta.
TIMONE
O sole benedetto che nutri, estrai
marcia umidità dalla terra. Sotto
l’orbita di tua sorella infetta
l’aria! I fratelli gemelli di un solo
ventre, la cui procreazione, gestazione
e nascita è arduo separare – toccali
con fortune diverse, e il maggiore
disprezzerà il minore. Non con la natura,
assediata da tutti i mali, si può avere
una grande fortuna, ma contro la natura.
Eleva questo straccione, precipita in basso
quel signore, ai senatori toccherà
un disprezzo ereditario e lo straccione riceverà
un onore innato. È il pascolo a ingrossare
i fianchi di un fratello, ed è il bisogno
a renderne uno magro. Chi osa,
chi osa alzarsi in umana purezza
e dire che quest’uomo è un adulatore?
Se lo è uno, lo sono tutti
perché ogni gradino della fortuna
è lisciato da quello che sta sotto:
la zucca del dotto si piega davanti
al cretino d’oro; tutto è obliquità;
non c’è nulla di retto nelle nostre nature
maledette ma solo una diretta malvagità.
Siano odiate, perciò, tutte le feste,
le compagnie e le folle di uomini! Timone
disprezza il suo simile: se stesso.
La distruzione abbranchi l’umanità. Terra, dammi radici.
[Scava]
A chi cerca qualcosa
migliore di te, condisci il palato
col tuo veleno più potente. Che c’è qui?
Oro? Giallo, splendente, prezioso oro?
No, dei, non infrango il mio voto.
Datemi radici, chiari cieli!
Tanto di questo renderà bianco
il nero; bello il brutto; giusto
l’ingiusto; nobile il vile; giovane
il vecchio; coraggioso il codardo. Ah!
Voi dei! Perché questo?
Che cosa è questo, dei? Ebbene,
questo strapperà sacerdoti e servi
dal vostro fianco, ucciderà coi cuscini
uomini vigorosi. Questo giallo verme
unirà e sfalderà religioni, benedirà
i maledetti, farà adorare la lebbra
canuta, premierà i ladri con titoli,
riverenze e lodi e con gli scanni
dei senatori. Questo è ciò
che fa rimaritare la vedova stantia:
davanti a lei vomiterebbero
l’ospedale e le piaghe ulcerose, ma costui
la imbalsama e profuma e di nuovo la dona
al giorno d’aprile. Vieni, pezzo di terra
dannata, tu puttana dell’umanità
che getti discordia tra la feccia delle nazioni,
ti farò agire secondo la tua natura. [Marcia in lontananza]
Ah! Un tamburo? Sei vivo, ma io
ti seppellisco. Camminerai ancora, ladro
robusto, quando i tuoi gottosi custodi
non staranno più in piedi. No, tu
rimarrai fuori come prova. [Tenendosi un po’ di oro]
Entra Alcibiade, con pifferi e tamburi, in assetto di guerra; con lui, Frine e Timandra.
ALCIBIADE
Ehi, tu, chi sei? Parla!
TIMONE
Una bestia come te. Il cancro divori
il tuo cuore, per avermi mostrato di nuovo
gli occhi dell’uomo!
ALCIBIADE
Qual è il tuo nome? È così odioso l’uomo
a te che sei tu stesso uomo?
TIMONE
Sono misantropo, e odio l’umanità.
In quanto a te, vorrei che fossi un cane
per poterti amare un poco.
ALCIBIADE
Ti conosco bene, ma non conosco affatto la tua sorte.
TIMONE
Anch’io ti conosco, e non desidero conoscerti
più di quanto ti conosco. Segui
il tuo tamburo; col sangue dell’uomo
dipingi la terra, di rosso, di rosso.
I canoni religiosi, le leggi civili
sono crudeli: che mai dunque
può essere la guerra? Questa tua
puttana virulenta, con la sua aria da cherubino
ha in sé più distruzione della tua spada.
FRINE
Ti marciscano le labbra!
TIMONE
Io non ti bacerò; il marcio, così,
rimane sulle tue.
ALCIBIADE
Come mai questo mutamento nel nobile Timone?
TIMONE
Così muta la luna, quando manca
di luce da dare. Ma io non ho potuto
rinnovarmi come la luna: non c’erano soli
a cui chiedere un prestito.
ALCIBIADE
Nobile Timone, quale gesto di amicizia
posso offrirti?
TIMONE
Nessuno, se non sostenere la mia opinione.
ALCIBIADE
Quale, Timone?
TIMONE
Promettimi amicizia ma senza praticarla. Se non prometti, gli dei ti puniscano perché sei un uomo! Se la pratichi, ti distruggano perché sei un uomo!
ALCIBIADE
Mi è giunta notizia delle tue disgrazie.
TIMONE
Le hai viste quand’ero ricco.
ALCIBIADE
Le vedo ora; quello era un tempo felice.
TIMONE
Com’è il tuo adesso, legato a un paio di puttane.
TIMANDRA
È questo il prediletto di Atene che il mondo
acclamava tanto?
TIMONE
Tu sei Timandra?
TIMANDRA
Sì.
TIMONE
Rimani puttana. Quelli che ti usano
non ti amano. Regalagli malattie
quando lasciano da te la loro foia.
Sfrutta le tue ore di lussuria; prepara
quei vermi sifilitici per i bagni caldi e le stufe;
riduci la gioventù dalle guance di rosa
all’astinenza e alla dieta.
TIMANDRA
Impiccati, mostro!
ALCIBIADE
Perdonalo, dolce Timandra, la sua ragione
s’è annegata e perduta nelle sue disgrazie.
Mi è rimasto poco oro, nobile Timone,
e questa mancanza produce ogni giorno
rivolta nella mia banda affamata. Con dolore
ho sentito che Atene maledetta,
noncurante del tuo merito, dimentica
delle tue grandi imprese, quando i paesi vicini,
non fosse stato per la tua spada e il tuo denaro,
l’avrebbero calpestata –
TIMONE
Ti prego, suona il tamburo e vattene.
ALCIBIADE
Ti sono amico, caro Timone,
e ho pietà di te.
TIMONE
Come puoi avere pietà di uno
che infastidisci? Preferisco star solo.
ALCIBIADE
Addio, allora. Eccoti un po’ d’oro.
TIMONE
Tientelo, non si mangia.
ALCIBIADE
Quando avrò ridotto la superba Atene
a un mucchio di –
TIMONE
Fai la guerra ad Atene?
ALCIBIADE
Sì, Timone, e ne ho buon motivo.
TIMONE
Gli dei li distruggano tutti con la tua vittoria,
e distruggano te, quando avrai vinto!
ALCIBIADE
Perché me, Timone?
TIMONE
Perché uccidendo canaglie sei nato
per liquidare il mio paese. Riprenditi il tuo oro.
Avanti. Ecco dell’oro. Avanti.
Sii come una peste planetaria, quando Giove
su una città viziosa sparge il suo veleno
nell’aria infetta. La tua spada non ne manchi uno.
Non aver pietà della barba bianca
dell’onorato vecchio: è un usuraio.
Colpiscimi la matrona mascherata: il suo abito
è la sola cosa onesta: dentro è una ruffiana.
La guancia della vergine non ottunda
la tua spada tagliente: quelle mammelle di latte
che nude cercano alla finestra gli occhi degli uomini
non sono scritte nel libro della pietà:
considerale traditori orrendi. Non risparmiare
il bambino i cui sorrisi a fossette strappano
la misericordia agli sciocchi: pensa
che è un bastardo di cui l’oracolo ha detto
ambiguamente che taglierà una gola;
fallo a pezzi senza rimorso.
Giura di resistere alle preghiere. Mettiti
sulle orecchie e sugli occhi una corazza il cui ferro
né grida di madri, fanciulle, bambini
possano scalfire né la vista di sacerdoti
coi sacri paramenti insanguinati.
Ecco oro per pagare i tuoi soldati.
Crea il caos! E,
spenta la tua furia, sii distrutto anche tu!
Non parlare. Vattene.
ALCIBIADE
Hai ancora oro? Prenderò l’oro
che tu mi dai, non tutti i tuoi consigli.
TIMONE
Che tu lo faccia o no, il cielo ti maledica!
FRINE, TIMANDRA
Dacci dell’oro, buon Timone: ne hai ancora?
TIMONE
Abbastanza per far abiurare a una puttana il suo mestiere
e fare di lei una ruffiana. Su, troie,
alzate le gonne! Voi non siete da giuramento
anche se so che giurate. Giurate e bestemmiate terribilmente
tanto da provocare brividi tremendi
e febbre celeste negli dei immortali
che vi sentono. Risparmiatevi i giuramenti.
Confido nella vostra vocazione. Siate
ancora puttane; e se qualcuno cerca
con pio fiato di convertirvi, da puttane
valorose adescatelo, bruciatelo, fate
che il vostro fuoco segreto soffochi
il suo fumo. Non voltate gabbana.
Ma ogni sei mesi i vostri mestrui
siano stravolti. E impagliate i vostri
miseri tetti spelati coi capelli
dei morti – se sono di impiccati,
tanto meglio, portateli, tradite con loro.
Sempre puttane: pittatevi al punto che un cavallo
possa impantanarsi nella vostra faccia:
peste alle rughe!
FRINE, TIMANDRA
Bene, più oro. E poi? Credi a noi,
per l’oro faremmo qualsiasi cosa.
TIMONE
Seminate sifilide nelle cave
ossa degli uomini, colpite i loro stinchi
affilati, impedite agli uomini lo sprone.
Sfessate la voce dell’avvocato, cosicché
non possa più difendere cause false,
né strillare i suoi cavilli. Imbiancate
il prete che predica contro la natura della carne
e non crede a se stesso. Si abbassi, si appiattisca,
si sgretoli del tutto l’osso del naso di colui
che per il suo particolare non annusa
il bene generale. Rendete calvi
i ruffiani riccioluti, e ai reduci spacconi
senza una ferita, procurategli voi
qualche dolore. Impestate tutti
e che la vostra attività distrugga
e dissecchi la fonte di ogni erezione.
Ecco altro oro. Rovinate
gli altri, e che lui possa rovinare voi,
e tutti voi affossino le fosse!
FRINE, TIMANDRA
Più consigli e più denaro, generoso Timone.
TIMONE
Più puttane e più danni, prima: questa è una caparra.
ALCIBIADE
Suonate i tamburi. Verso Atene! Addio, Timone:
se vincerò tornerò a trovarti.
TIMONE
Se vincono le mie speranze, non ti vedrò più.
ALCIBIADE
Io non ti ho mai fatto del male.
TIMONE
Sì, hai parlato bene di me.
ALCIBIADE
E questo lo chiami male?
TIMONE
Gli uomini lo scoprono ogni giorno.
Vattene, e portati via le tue cagne.
ALCIBIADE
Lo inaspriamo soltanto. Tamburi!
[Colpi di tamburo. Escono Alcibiade, Frine e Timandra]
TIMONE
Che la natura, nauseata per la malvagità dell’uomo,
debba essere ancora affamata!
Madre comune, tu, il cui ventre [Scava]
smisurato e l’infinito petto, genera
e nutre tutti; tu, la cui essenza
soffia il tuo figlio superbo, l’uomo
arrogante, e anche genera il nero
rospo e l’azzurra vipera, la salamandra
dorata e il cieco serpente velenoso,
con tutti gli odiosi nati sotto il cielo
cristallino su cui splende il fuoco
vivificante di Iperione: dà a colui
che odia tutti gli umani figli
una povera radice dal tuo seno generoso.
Inaridisci il tuo fertile ventre prolifico,
che non metta più alla luce l’uomo ingrato.
Fatti incinta di tigri, draghi, lupi
e orsi, brulica di nuovissimi mostri
quali la tua faccia mai non abbia
offerto alla casa marmorea di lassù.
Oh, una radice! Ti ringrazio!
Inaridisci i tuoi succhi, le vigne e i campi
arati da cui l’uomo ingrato attinge
sorsi di liquore e bocconi grassi
con cui inzeppare la mente pura dalla quale
scivola via ogni pensiero –
Entra Apemanto.
Ancora l’uomo? Peste, peste!
APEMANTO
Mi hanno indirizzato qui. Dicono
che tu imiti i miei modi e li adotti.
TIMONE
È perché tu non hai un cane.
Imiterei lui. Ti colga la consunzione!
APEMANTO
Quest’umore in te è solo il frutto d’un’infezione,
una povera infantile malinconia nata
dal mutare della sorte. Perché questa vanga?
Questo posto? Quest’abito da schiavo? Quest’aria
disperata? I tuoi adulatori vestono
ancora di seta, bevono vino,
hanno letti soffici, abbracciano le loro
profumate infezioni e hanno dimenticato
che Timone è esistito. Non offendere questa selva
recitando la parte del cinico. Sii tu
un adulatore, ora, e cerca di guadagnare
con quello che ti ha rovinato. Ungi
il ginocchio e fa’ che basti il fiato
del signore che ossequi a farti volar via
il berretto; loda la sua vena più viziosa
e chiamala eccellente. A te dicevano così.
E tu prestavi l’orecchio, come gli osti
che danno il benvenuto alle canaglie e a chiunque
si avvicini. È solo giusto che tu
ti faccia manigoldo; se avessi di nuovo
la ricchezza, se la prenderebbero loro.
Non assumere il mio aspetto.
TIMONE
Se fossi come te mi getterei via.
APEMANTO
Ti sei gettato via, essendo come te stesso,
per tanto tempo un pazzo, ora un buffone.
Come? Credi che quest’aria fredda,
come un vigoroso maggiordomo, metterà
la tua camicia al caldo? Questi alberi
umidi, che sono sopravvissuti all’aquila,
ti staranno come paggi alle calcagna scattando
al tuo minimo cenno? E il freddo ruscello,
incrostato di ghiaccio, ti darà la mattina
un sorso caldo contro la sbornia della sera?
Chiama le creature che subiscono nude
i colpi del cielo vendicativo, e i cui nudi
tronchi senza tetto, esposti agli elementi
in conflitto, affrontano la cruda natura:
chiedi a loro di adularti! Oh, scoprirai –
TIMONE
Che sei un buffone. Vattene.
APEMANTO
Ora ti amo più di prima.
TIMONE
Io ti odio di più.
APEMANTO
Perché?
TIMONE
Tu aduli la miseria.
APEMANTO
Io non adulo ma dico che sei un disgraziato.
TIMONE
Perché mi cerchi?
APEMANTO
Per tormentarti.
TIMONE
Fai sempre la parte della canaglia, o del buffone.
Ti piace?
APEMANTO
Sì.
TIMONE
Come? Sei pure un depravato?
APEMANTO
Se tu avessi indossato quest’abito freddo e amaro
per castigare il tuo orgoglio, andrebbe bene.
Ma tu lo fai per forza. Tu vorresti
essere di nuovo cortigiano, se non fossi
straccione. La povertà volontaria sopravvive
al lusso incerto, è incoronata prima;
questo si ingozza sempre, non è mai
sazio; quella lo è completamente.
Lo stato più fortunato, se non è contento,
ha un’esistenza più irrequieta e sciagurata
di quella del più sfortunato, se è contento.
Essendo in miseria tu dovresti
desiderare la morte.
TIMONE
Non per le parole di chi è in una miseria più grande.
Tu sei uno schiavo che il tenero braccio
della Fortuna non ha mai stretto con favore
ma ha allevato da cane. Se tu come noi
avessi fin da quand’eri in fasce salito
i dolci gradi che questo breve mondo
concede a coloro che possono comandare
a chi fatica sotto, ti saresti
tuffato in ogni genere di bagordi, sciogliendo
la tua giovinezza in letti diversi
di lussuria, e mai avresti imparato
i gelidi precetti della morale ma seguito
il piacere zuccherato davanti a te.
Ma io – che avevo il mondo come mia
pasticceria, le bocche, le lingue, gli occhi
e i cuori di uomini al mio servizio,
più di quanti potessi impiegarne.
Innumerevoli mi stavano attaccati
come foglie alla quercia, ma a un solo soffio
dell’inverno caddero dai rami lasciandomi
nudo, esposto a ogni tempesta – per me
che ho conosciuto solo il meglio, sopportare questo
è un peso. La tua natura cominciò in sofferenza,
il tempo ti ha indurito. Tu perché
dovresti odiare gli uomini? Loro
non ti hanno mai adulato. Che cosa hai dato, tu?
Se vuoi maledire, tuo bersaglio dev’essere
tuo padre (quel povero cencio) che per dispetto
ingravidò qualche stracciona e ti creò
povero disgraziato ereditario. Via, vattene!
Se non fossi nato l’infimo degli uomini
saresti stato canaglia e adulatore.
APEMANTO
Sei ancora superbo?
TIMONE
Sì, di non essere te.
APEMANTO
Io di non essere stato prodigo.
TIMONE
Io di esserlo ancora. Se tutta
la ricchezza che ho fosse rinchiusa in te
ti darei il permesso di impiccarti. Vattene!
Fosse qui dentro tutta la vita di Atene
la mangerei così. [Mangiando una radice]
APEMANTO
Prendi, voglio migliorare il tuo banchetto.
[Offrendogli cibo]
TIMONE
Migliora prima il mio stato: vattene.
APEMANTO
Migliorerò il mio, senza di te.
TIMONE
Così non migliora, è solo rattoppato.
Ma è meglio di niente, va’ via.
APEMANTO
Cosa vuoi che porti di te ad Atene?
TIMONE
Portaci te stesso in un turbine. Se vuoi,
digli che ho dell’oro. Guarda, ce l’ho.
APEMANTO
Qui l’oro non serve.
TIMONE
Serve nel modo migliore e più vero:
perché qui dorme e non fa il male a pagamento.
APEMANTO
Dove giaci la notte, Timone?
TIMONE
Sotto quello che sta sopra di me.
Tu dove mangi il giorno, Apemanto?
APEMANTO
Dove il mio stomaco trova cibo, o, piuttosto, dove io lo mangio.
TIMONE
Magari il veleno fosse obbediente e conoscesse le mie intenzioni.
APEMANTO
Dove lo manderesti?
TIMONE
A condire i tuoi piatti.
APEMANTO
Tu non hai mai conosciuto la via di mezzo dell’umanità, ma solo gli estremi. Quando vivevi tra gli ori e i profumi, ti prendevano in giro perché eri troppo raffinato; in questi stracci non lo sei affatto ma ti disprezzano per il contrario. Ecco una nespola: mangiala!
TIMONE
Non mangio quello che odio.
APEMANTO
Odi una nespola?
TIMONE
Sì, ti somiglia. Ha l’aria dell’intrigante.
APEMANTO
Se a suo tempo avessi odiato gli intriganti, avresti amato di più te stesso, ora. Hai mai conosciuto un uomo prodigo che fosse amato dopo aver finito i soldi?
TIMONE
Hai mai conosciuto qualcuno che fosse amato senza quei soldi di cui parli?
APEMANTO
Me stesso.
TIMONE
Ti capisco; avevi i soldi per mantenere un cane.
APEMANTO
Quali cose al mondo somigliano di più ai tuoi adulatori?
TIMONE
Le donne. Ma gli uomini – gli uomini sono l’adulazione stessa. Che faresti del mondo, Apemanto, se ne avessi il potere?
APEMANTO
Lo darei alle bestie, per liberarmi degli uomini.
TIMONE
Vorresti essere travolto anche tu dalla rovina degli uomini, e rimanere bestia tra le bestie?
APEMANTO
Sì, Timone.
TIMONE
Ambizione bestiale: gli dei ti concedano di realizzarla. Se tu fossi leone, la volpe ti ingannerebbe; se fossi agnello, la volpe ti mangerebbe; se fossi volpe, il leone sospetterebbe di te, ove per caso fossi accusato dall’asino; se fossi asino, la tua stupidità ti tormenterebbe, e vivresti soltanto per far da colazione al lupo; se fossi lupo, la tua avidità ti farebbe soffrire e spesso rischieresti la vita per procurarti un pasto; se fossi unicorno, l’orgoglio e l’ira ti rovinerebbero e ti renderebbero preda della tua stessa furia; se fossi orso, saresti sbranato dal cavallo; se fossi cavallo, saresti azzannato dal leopardo; se fossi leopardo, saresti germano al leone e le sue macchie ti condannerebbero a morte. Tutta la tua salvezza sarebbe nella fuga e tutta la tua difesa nell’assenza. Che bestia saresti, se non schiava di una bestia? E che bestia sei già, se non vedi la tua fine in questa metamorfosi!
APEMANTO
Se mai tu potessi piacermi parlandomi, qui ci avresti azzeccato. Lo stato di Atene è diventato una giungla di bestie.
TIMONE
Come ha fatto l’asino a rompere le mura, visto che tu sei uscito dalla città?
APEMANTO
Laggiù stanno arrivando un poeta e un pittore. La peste della compagnia ti venga addosso! Io ho paura di prendermela e me ne vado. Quando non saprò che altro fare, ti vedrò di nuovo.
TIMONE
Quando non ci sarà niente di vivo tranne te, sarai il benvenuto. Preferirei essere il cane di un mendicante piuttosto che Apemanto.
APEMANTO
Tu sei il gran capo di tutti i buffoni viventi.
TIMONE
E tu sei troppo sporco per sputarti addosso.
APEMANTO
Peste a te! Sei già troppo dannato per maledirti.
TIMONE
Accanto a te, tutte le carogne profumano.
APEMANTO
Non c’è lebbra se non le tue parole.
TIMONE
Quando nomino te.
Ti prenderei a schiaffi, ma mi infetterei le mani.
APEMANTO
Te le facesse marcire la mia lingua!
TIMONE
Via, figlio di un cane rognoso!
Muoio di rabbia, sapendoti vivo.
Svengo nel vederti.
APEMANTO
Scoppiare, dovresti!
TIMONE
Via, delinquente barboso, mi dispiace sprecare una pietra con te. [Gettandogli una pietra]
APEMANTO
Bestia!
TIMONE
Schiavo!
APEMANTO
Rospo!
TIMONE
Carogna, carogna, carogna!
Sono stanco di questo mondo falso e niente
voglio amare di esso, nemmeno il necessario.
Perciò, Timone, prepara subito
la tua fossa; giaci dove la spuma
leggera del mare possa battere
ogni giorno sulla tua pietra tombale.
Scrivi il tuo epitaffio, sì che la morte,
possa ridere, in me, alle vite degli altri.
[Guardando l’oro] O tu, dolce regicida, e amato
strumento di divorzio tra il figlio e il padre,
tu luminoso corruttore del letto
purissimo di Imene, tu Marte
valoroso, tu corteggiatore eternamente
giovane, fresco, amato e delicato,
il cui rossore scioglie la neve consacrata
che giace nel grembo di Diana! Tu,
dio visibile che fissi insieme
le cose inconciliabili e le fai baciare;
che parli con ogni lingua ad ogni
fine! Tu, pietra di paragone
dei cuori, pensa che l’Uomo tuo schiavo
si ribella e con il tuo potere gettalo
nel caos della discordia sì che le bestie
abbiano l’impero del mondo!
APEMANTO
Fosse così! Ma non prima
che io sia morto. Dirò che hai l’oro.
Tra poco ci sarà una folla intorno a te.
TIMONE
Una folla?
APEMANTO
Sì!
TIMONE
Volta la schiena, ti prego.
APEMANTO
Vivi, e ama la tua miseria.
TIMONE
Vivi a lungo così, e così muori!
Me ne sono liberato.
APEMANTO
Altre cose simili a uomini! Mangia, Timone, e aborriscili! [Esce]
Entrano i Banditi.
PRIMO BANDITO
Dove ce l’avrebbe, quest’oro? Sarà qualche briciola, qualche rimasuglio. Proprio la mancanza dell’oro e l’abbandono dei suoi amici lo hanno gettato in questa malinconia.
SECONDO BANDITO
Si dice che abbia un vero tesoro.
TERZO BANDITO
Proviamoci. Se non gliene importa, ce lo darà subito. Se se lo tiene stretto, come lo prendiamo?
SECONDO BANDITO
È vero, non ce l’avrà addosso, lo terrà nascosto.
PRIMO BANDITO
Non è lui, quello?
TUTTI
Dove?
SECONDO BANDITO
Sembra lui.
TERZO BANDITO
È lui – lo riconosco.
TUTTI
Salve a te, Timone.
TIMONE
E allora? Ladri?
TUTTI
Soldati, non ladri.
TIMONE
Tutt’e due, e figli di donna.
TUTTI
Non siamo ladri, ma uomini in grande bisogno.
TIMONE
Il vostro bisogno più grande è di volere
troppo cibo. Perché tanto bisogno?
Guardate, la terra ha radici; nel raggio
di questo miglio sgorgano cento sorgenti;
le querce portano ghiande, i rovi
bacche scarlatte: massaia generosa,
la natura apparecchia su ogni cespuglio
tutto il suo pranzo. Bisogno? Perché?
PRIMO BANDITO
Noi non possiamo vivere d’erba,
di bacche, d’acqua, come le bestie
e gli uccelli e i pesci.
TIMONE
E nemmeno delle stesse bestie, degli uccelli
e dei pesci: voi dovete mangiare uomini.
Eppure debbo ringraziarvi perché siete
ladri dichiarati, perché non lavorate
sotto insegne più oneste: nelle professioni aristocratiche
il furto non ha limiti. Poveri ladri,
ecco dell’oro: andate, succhiate
il subdolo sangue dell’uva finché
la febbre alta non vi faccia
bollire e schiumare il sangue facendovi
sfuggire alla forca. Non fidatevi del medico:
i suoi antidoti sono veleno
e ammazza più uomini lui di quanti
ne derubate voi. Prendete la borsa
e insieme la vita. Commettete delitti,
sì, poiché dichiarate che è il vostro lavoro.
Ecco dei precedenti di ladrocinio: il sole è un ladro
e con la sua potente attrazione deruba
il vasto mare; ladra matricolata
è la luna, e il suo pallido fuoco lo ruba
al sole; ladro il mare la cui onda
liquida scioglie in lacrime salate
la luna; ladra la terra, che nutre
e genera rubando concime agli escrementi
universali: ladri tutto e tutti. Le leggi,
vostro freno e frusta, nel loro duro
potere hanno licenza di furto.
Non amate voi stessi; su, derubatevi
l’un l’altro. Ecco ancora dell’oro.
Tagliate gole. Sono ladri
tutti quelli che incontrate. Andate ad Atene;
scassinate le botteghe: tutto ciò che rubate
lo rubate a dei ladri. Se ruberete meno
perché vi ho dato questo, l’oro vi rovini. Amen!
[Ritirandosi]
TERZO BANDITO
Mi ha quasi persuaso a ritirarmi dalla professione, cercando di persuadermi a praticarla.
PRIMO BANDITO
È per odio all’umanità che ci dà questi consigli; non per aiutare noi a guadagnare col nostro lavoro.
SECONDO BANDITO
Sono i consigli di un nemico: io lascio il mestiere.
PRIMO BANDITO
Prima aspettiamo di vedere la pace ad Atene. C’è sempre tempo per cambiare vita.
[Escono i Banditi]
Entra Flavio.
FLAVIO
O voi dei!
Quell’uomo laggiù, degradato, distrutto,
è il mio signore? Così debole e decaduto?
O prodigioso monumento di buone azioni
indirizzate male! Che mutamento nell’onore
ha prodotto il suo bisogno disperato! Sulla terra,
cosa c’è di più turpe di amici che spingono
gli animi dei più nobili alla fine più vile?
Si adatta splendidamente ai nostri tempi
chiedere all’uomo di amare i suoi nemici!
A me sia concesso di amare e corteggiare
chi dichiara che mi farà del male e non
chi me lo fa! Il suo occhio mi ha visto:
a lui offrirò il mio onesto dolore.
Lui, il mio signore, seguiterò a servire
con la mia vita. Padrone amatissimo!
Timone viene avanti.
TIMONE
Via! Chi sei?
FLAVIO
Mi avete dimenticato, signore?
TIMONE
Perché lo chiedi? Ho dimenticato tutti gli uomini:
quindi, se dici d’essere un uomo,
ho dimenticato te.
FLAVIO
Un povero onesto vostro servo.
TIMONE
Allora non ti conosco. Non ho mai avuto
uomini onesti intorno a me, io;
tutti quelli che ho avuto erano canaglie
che servivano il pranzo a farabutti.
FLAVIO
Gli dei sono testimoni che mai
un povero intendente provò dolore
più sincero, per il suo padrone rovinato,
di quello che i miei occhi provano per voi.
TIMONE
Cosa? Piangi? Vieni più vicino.
Ti amo, allora, perché sei una donna
e ripudi la razza pietrosa del maschio
i cui occhi piangono solo per la lussuria
o le risate. La pietà dorme.
Strani tempi, che piangono ridendo
e non piangendo.
FLAVIO
Vi scongiuro di riconoscermi, buon signore,
di accogliere il mio dolore, e finché dura
questo po’ di denaro, di tenermi ancora
come vostro intendente.
TIMONE
Avevo un intendente così fedele,
così onesto, e ora così pietoso?
Ciò rende la mia natura aspra quasi mite.
Fatti guardare in faccia. Quest’uomo
è certo nato da donna. Perdonate
la mia furia totale, senza eccezioni,
voi dei perpetuamente calmi!
Proclamo che c’è un uomo onesto.
Non fraintendetemi: soltanto uno.
Nessun altro, prego – e questo è un intendente.
Avrei odiato volentieri tutta l’umanità
ma tu riscatti te stesso. Ma tutti,
tranne te, io copro di maledizioni!
Credo però che tu sia più onesto che furbo,
perché maltrattando e tradendo me
ti saresti procurato più presto un altro servizio.
Molti arrivano al secondo padrone
sul collo del primo. Ma dimmi la verità –
io debbo sempre dubitare, anche
di fronte alle certezze – la tua bontà
non sarà subdola, avida, da usuraio,
come il ricco che fa doni,
aspettandosi in cambio venti volte di più?
FLAVIO
No, degnissimo signore, nel cui petto
troppo tardi, ahimè, vivono il dubbio
ed il sospetto! Avreste dovuto temere
la falsità dei tempi quando facevate
festa; ma il sospetto arriva quando
il patrimonio è finito. Ciò che io mostro,
il Cielo lo sa, è soltanto amore,
dovere e zelo per l’animo vostro
senza pari, attenzione ai vostri pasti,
al vostro vivere; e credete, mio signore
onoratissimo, ogni beneficio che io avessi
o nella speranza o nel presente,
lo scambierei con questo solo desiderio:
che voi mi ricompensaste
diventando ricco voi stesso.
TIMONE
Guarda, è così! Tu che sei il solo
uomo onesto, ecco, prendi:
attraverso la mia miseria gli dei
ti hanno mandato un tesoro. Va’,
vivi ricco e felice, ma a questa condizione:
starai lontano dagli uomini; odiali tutti,
maledicili tutti, non mostrare
carità a nessuno ma lascia che la carne
affamata gli cada dall’osso prima
di dar sollievo al mendicante; regala ai cani
ciò che neghi agli uomini; li inghiottano
le prigioni, i debiti li riducano a niente;
siano gli uomini come foreste incenerite
e possano le malattie leccargli il sangue bugiardo!
Addio, perciò, e buona fortuna.
FLAVIO
O mio padrone, fatemi restare a confortarvi.
TIMONE
Se odi le maledizioni, non restare,
fuggi finché sei libero e benedetto.
Non vedere mai uomo e non lasciare
che io mai veda te.
[Esce Flavio; Timone si ritira nella sua caverna]
Timone d’Atene
(“Timon of Athens” – 1605 – 1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V