Timone d’Atene – Atto V
(“Timon of Athens” – 1605 – 1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
ATTO QUINTO – SCENA PRIMA
Entrano il Poeta e il Pittore.
PITTORE
Ho preso nota del posto – non può essere lontano.
POETA
Cosa pensare? È vera la voce che è così pieno d’oro?
PITTORE
È certa. Lo riferisce Alcibiade; Frine e Timandra hanno avuto oro da lui. E ha anche caricato d’oro dei poveri soldati sbandati. Si dice che abbia dato un’enorme somma al suo intendente.
POETA
Allora la sua bancarotta è stata solo un trucco per mettere alla prova gli amici.
PITTORE
Nient’altro. Ad Atene lo si vedrà di nuovo fiorire come una palma tra i potenti. Perciò non è sbagliato offrirgli il nostro affetto, in questa sua supposta sventura: faremo una buona impressione ed è probabile che i nostri propositi trovino quello che cercano, se le voci sulla sua ricchezza sono vere.
POETA
Voi che cosa avete da offrirgli?
PITTORE
Niente, questa volta, solo la mia visita. Ma gli prometterò un quadro bellissimo.
POETA
Anch’io dovrò fare lo stesso – gli dirò di un’idea poetica che lo riguarda.
PITTORE
Perfetto. Promettere è l’aria stessa del nostro tempo – apre gli occhi all’aspettativa. Mettere in atto le promesse è noioso, solo tra la gentarella si fa quel che si dice – altrove è fuori moda. Promettere è più elegante e raffinato; mantenere è una sorta di ultima volontà, un testamento che nella mente di chi lo fa denota una grave malattia.
Timone avanza dalla caverna.
TIMONE [a parte]
Artista supremo! Non sapresti dipingere un uomo brutto come te!
POETA
Sto pensando a cosa gli dirò di aver immaginato per lui. Dev’essere una sua personificazione; una satira contro la fragilità della prosperità; con una rivelazione delle infinite adulazioni che seguono alla gioventù e all’opulenza.
TIMONE [a parte]
Devi proprio fare tu da modello di canaglia nella tua stessa opera? Vuoi fustigare le tue stesse colpe in altri uomini? Fa’ così: ho oro per te.
POETA
Su, cerchiamolo.
Contro il nostro stesso benessere pecchiamo
se guadagnar potendo, troppo tardi arriviamo.
PITTORE
È vero. Quando il giorno è propizio, cerca
quello che vuoi prima della notte
dagli angoli neri, alla libera luce donata.
Andiamo.
TIMONE [a parte]
Vi aspetto al varco. Ma che razza di dio è l’oro,
se viene adorato in un tempio più vile
del truogolo dei porci? Sei tu
che armi la nave e solchi la schiuma,
che spingi lo schiavo all’ammirata riverenza.
Sii adorato: e i tuoi santi che obbediscono
soltanto a te siano per sempre
incoronati di piaghe! Gli vado incontro. [Avanzando]
POETA
Salve, degno Timone!
PITTORE
Nostro nobile signore d’una volta!
TIMONE
Ho davvero vissuto per vedere due uomini onesti?
POETA
Signore, avendo spesso gustato la vostra
bontà generosa, sapendovi in ritiro,
abbandonato dagli amici la cui natura ingrata
(o spiriti odiosi!) le fruste
tutte del Cielo non sono abbastanza lunghe –
ma come? A voi la cui nobiltà
di stella dava col suo influsso vita
al loro intero essere! Sono sconvolto
e non ho parole sufficienti a coprire
il corpo mostruoso di questa ingratitudine.
TIMONE
Lasciatela andare nuda, gli uomini
la vedranno meglio. Voi
che siete onesti, essendo ciò che siete,
farete conoscere gli uomini per quello che sono.
PITTORE
Lui e io abbiamo camminato
sotto la grande pioggia dei vostri doni
e ne abbiamo sentito la dolcezza.
TIMONE
Sì, voi siete uomini onesti.
PITTORE
Siamo venuti qui per offrirvi i nostri servigi.
TIMONE
Uomini più che onesti! Ma io,
come potrò compensarvi? Potete
mangiare radici e bere acqua fredda? No?
ENTRAMBI
Ciò che possiamo fare faremo,
al vostro servizio.
TIMONE
Siete uomini onesti. Avete saputo
che ho dell’oro; ne sono sicuro;
dite la verità, siete uomini onesti.
PITTORE
Così si dice, mio nobile signore;
ma non per questo è venuto il mio amico, né io.
TIMONE
Uomini buoni e onesti! Tu disegni
un falso meglio di chiunque, ad Atene.
Sei davvero il migliore; il tuo falso
è vero come la vita.
PITTORE
Così così, mio signore.
TIMONE
È proprio come dico. In quanto
alle tue finzioni, ebbene, il tuo verso
si gonfia di materia così fine e liscia
che tu sei naturale, nel tuo artificio.
Ma, per tutto questo, amici miei
dalla natura onesta, debbo dirvi
che avete un piccolo difetto. Diamine!
Non è mostruoso, in voi, né vorrei
che vi affannaste troppo a rimediarvi.
ENTRAMBI
Scongiuriamo Vostro Onore di farcelo conoscere.
TIMONE
La prenderete male.
ENTRAMBI
Con somma gratitudine, signore.
TIMONE
Davvero?
ENTRAMBI
Non dubitatene, degno signore.
TIMONE
Ciascuno di voi due si fida di un manigoldo
che vi inganna orribilmente.
ENTRAMBI
Davvero, signore?
TIMONE
Sì, e voi lo sentite mentire,
lo vedete fingere, conoscete le sue
malefatte grossolane, lo amate, lo nutrite,
lo tenete nel petto. Eppure
siate sicuri che è un manigoldo consumato.
PITTORE
Non conosco nessuno così, mio signore.
POETA
Nemmeno io.
TIMONE
Guardate, io vi voglio bene, vi darò
dell’oro, ma voi liberatevi, per me,
di questi manigoldi. Impiccateli o accoltellateli,
annegateli in una fogna, distruggeteli in qualsiasi modo,
e venite da me. Vi darò abbastanza oro.
ENTRAMBI
Diteci il loro nome, signore. Vogliamo riconoscerli.
TIMONE
Tu da quella parte e tu da questa
ma sempre in due; ciascuno sta da solo,
per conto suo, eppure un arcidiavolo
gli tiene compagnia. [A uno dei due] Se, dove sei,
non vuoi due manigoldi, non andargli vicino.
[All’altro] Se vuoi stare dove c’è un solo manigoldo
lascialo perdere. Via di qui! Ecco dell’oro.
Siete venuti per l’oro, schiavi! [Al Poeta] Tu
hai un poema per me: ecco il pagamento. Via!
[Al Pittore] Tu sei un alchimista, trasforma questa in oro!
Via, cagnacci!
[Li caccia via e si ritira nella caverna]
Entrano Flavio e due Senatori.
FLAVIO
È vano che cerchiate di parlare con Timone.
Si è talmente rinchiuso in sé
che niente che abbia aspetto d’uomo gli è amico
se non se stesso.
PRIMO SENATORE
Portaci alla sua caverna. Abbiamo
promesso agli Ateniesi di parlare con Timone.
SECONDO SENATORE
Gli uomini non sono sempre gli stessi.
Sono stati il tempo e i dolori a ridurlo
in questo stato: se il tempo con mano più gentile
gli offrirà le fortune dei giorni d’una volta
può renderlo l’uomo che era. Portaci da lui
e vada come vada.
FLAVIO
Ecco la sua caverna. Qui regnino
pace e serenità! Nobile Timone!
Timone! Esci per parlare ad amici.
Con due dei loro più venerati senatori
gli Ateniesi ti salutano. Parla con loro,
nobile Timone!
Rientra Timone dalla caverna.
TIMONE
Tu sole, che conforti, brucia!
Parlate, e che vi impicchino! Per ogni
parola sincera, una vescica; e ogni
parola falsa vi cauterizzi la radice
della lingua, che col vostro parlare si consumi.
PRIMO SENATORE
Degno Timone –
TIMONE
Degno solo dei tuoi pari. E tu di Timone.
PRIMO SENATORE
I senatori di Atene ti salutano, Timone.
TIMONE
Li ringrazio. E li ricambierei con la peste,
se solo potessi acchiapparla per loro.
PRIMO SENATORE
Oh, dimentica ciò che ci dispiace
di averti fatto. I senatori ti chiedono,
unanimi nell’affetto, di tornare ad Atene.
Hanno pensato a cariche speciali
che aspettano vuote che tu le assuma
e le ricopra nel modo più degno.
SECONDO SENATORE
Confessano che l’ingratitudine verso di te
fu troppo grande e grossolana, e lo Stato,
che raramente torna indietro, sentendo
in sé la mancanza dell’aiuto di Timone,
sente insieme la colpa commessa
nel negar lui aiuto a Timone, e addolorato
manda noi ad esprimere il suo rammarico
unito a una ricompensa più fruttuosa
dell’offesa, soppesata fino all’ultimo grammo,
a te fatta. – Sì, mucchi e somme tali
di ricchezza e affetto che cancelleranno
ogni suo torto e scriveranno in te
le cifre del suo affetto perché tu possa
leggerle tue per sempre.
TIMONE
Mi stregate. Mi stupite. Mi spingete sull’orlo
delle lacrime. Prestatemi il cuore di uno sciocco
e gli occhi di una donna, e io piangerò
per queste consolazioni, degni senatori.
PRIMO SENATORE
Ti piaccia dunque tornare con noi,
e della nostra Atene, tua e nostra,
prendere il comando. Troverai ringraziamenti
uniti a un potere assoluto, e autorevole
vivrà il tuo buon nome. Subito, così,
respingeremo gli assalti feroci di Alcibiade
che come un cinghiale selvaggio
sradica la pace dalla sua patria.
SECONDO SENATORE
E agita la spada minacciosa contro
le mura di Atene.
PRIMO SENATORE
Perciò, Timone –
TIMONE
Perciò, signore, lo farò. Ma così:
se Alcibiade uccide i miei compatrioti,
Alcibiade sappia questo di Timone:
che a Timone non importa. Ma se saccheggia
la bella Atene e afferra per la barba
i nostri buoni vecchi, dando
le nostre sacre vergini all’oltraggio
dell’insolente, bestiale, pazza guerra,
fategli allora sapere (e ditegli
che Timone parla perché mosso a pietà
dei nostri vecchi e della nostra gioventù)
che io non posso fare a meno di dirgli
che non mi importa – e la intenda come vuole.
Né mi importa dei loro coltelli
finché voi avete gole da far tagliare.
In quanto a me, non c’è rasoio
nel campo dei ribelli che non sia per me
più degno d’amore della gola
più veneranda di Atene. Così
vi lascio alla protezione dei fausti dei
come ladri ai carcerieri.
FLAVIO
Inutile restare. Tutto è vano.
TIMONE
Stavo scrivendo il mio epitaffio.
Lo si vedrà domani. La mia lunga malattia
di salute e di vita comincia a guarire,
e il niente mi porta tutto. Andate,
vivete ancora. Alcibiade sia
la vostra peste, voi la sua,
e duri abbastanza a lungo.
PRIMO SENATORE
Parliamo inutilmente.
TIMONE
Eppure io amo la mia patria e non sono
uno che gode della rovina comune
come mormora la comune voce.
PRIMO SENATORE
Ben detto.
TIMONE
Ossequiatemi i miei amati compatrioti.
PRIMO SENATORE
Queste parole si addicono alle tue labbra
mentre ne escono.
SECONDO SENATORE
Ed entrano nelle nostre orecchie come
eroi vittoriosi sotto archi di trionfo.
TIMONE
Ricordatemi a loro, e dite che
per alleviare i loro dolori, la paura
di colpi ostili, le sofferenze, le perdite,
gli spasimi d’amore e gli altri mali
che il fragile vascello della natura sopporta
nel viaggio incerto della vita, io
userò loro una gentilezza: insegnerò loro
come evitare l’ira funesta di Alcibiade.
PRIMO SENATORE
Questo mi piace. Tornerà.
TIMONE
Cresce un albero qui nella mia terra
che il mio tornaconto mi invita a tagliare.
Tra breve dovrò farlo. Dite ai miei amici,
dite ad Atene, secondo i vari gradi,
dall’alto giù fino al basso, che chi voglia
fermare l’afflizione, si affretti, venga qui,
prima che il mio albero abbia sentito l’ascia,
e si impicchi. Vi prego, portate il mio saluto.
FLAVIO
Non infastiditelo oltre: non cambierà.
TIMONE
Non tornate da me, ma dite ad Atene
che Timone ha innalzato la sua casa eterna
sul limite sabbioso del flutto salato
e la marea ribollente, frastagliata di schiuma,
una volta al giorno la ricoprirà.
Venite lì e la mia pietra tombale
sia il vostro oracolo. Labbra,
fate uscire quattro parole e poi
il linguaggio finisca: infezione e peste
risanino ciò che è malato! La tomba
sia l’unico lavoro dell’uomo, e la morte
il suo unico guadagno. Sole, nascondi i tuoi raggi.
Timone ha finito il suo regno. [Esce]
PRIMO SENATORE
Il suo scontento è parte irremovibile
della sua natura.
SECONDO SENATORE
La nostra speranza è morta. Torniamo,
e proviamo quali altri mezzi ci restano
nel nostro estremo pericolo.
PRIMO SENATORE
Bisogna affrettarsi. [Escono]
ATTO QUINTO – SCENA SECONDA
Entrano altri due Senatori con un Messaggero.
TERZO SENATORE
Annunci cose dolorose; le sue schiere
sono fitte come dici?
MESSAGGERO
Ho detto il minimo.
Inoltre, la sua velocità minaccia
un arrivo immediato.
QUARTO SENATORE
Il pericolo è grave, se non ci portano Timone.
MESSAGGERO
Ho incontrato un militare, mio vecchio compagno.
Sulle questioni pubbliche siamo avversari
ma l’antico affetto è molto forte
e ci ha fatto parlare da amici. Quest’uomo
cavalcava, mandato da Alcibiade,
verso la caverna di Timone, con lettere
che gli chiedevano di unirsi a lui nella guerra
contro la città, scoppiata anche per amor suo.
Entrano gli altri due Senatori.
TERZO SENATORE
Ecco i nostri fratelli.
PRIMO SENATORE
Non si parli di Timone, non ci si aspetti nulla.
Si sente il tamburo del nemico, e un tramestio
tremendo riempie di polvere l’aria.
Dentro, e prepariamoci. Nostra è la caduta, temo.
La trappola, quella dei nostri nemici. [Escono]
ATTO QUINTO – SCENA TERZA
Entra un Soldato nella foresta, cercando Timone.
SOLDATO
Secondo ogni descrizione il posto
dovrebbe essere questo. C’è qualcuno?
Parlate, oh! Nessuna risposta?
Che cosa è questo?
È morto Timone, che ha finito il suo tempo.
Legga una bestia. L’uomo non c’è più.
Morto, certo. E questa è la sua tomba.
Cosa c’è sulla lapide non so leggerlo.
Prenderò l’impronta delle lettere con la cera.
Interprete esperto, anche se giovane d’anni,
il nostro capitano conosce ogni scrittura.
Ormai sarà accampato davanti
alla superba Atene, la cui caduta è il traguardo
della sua ambizione. [Esce]
ATTO QUINTO – SCENA QUARTA
Suono di trombe. Entra Alcibiade con le sue truppe davanti ad Atene.
ALCIBIADE
Per questa città codarda e lasciva
intonate il nostro arrivo tremendo. [Trombe a parlamento]
Sulle mura compaiono i Senatori.
Finora avete riempito il tempo
di sfrenato arbitrio, rendendo
le vostre volontà il bersaglio della giustizia.
Finora io e quanti dormivamo
all’ombra del vostro potere, abbiamo
vagato con le braccia incrociate ed espresso
la nostra sofferenza invano. Ora
il tempo è maturo e il midollo già inerte
diventa vigoroso e grida “basta”.
Ora gli oppressi prima senza fiato
siederanno ansanti sulle vostre poltrone
e il fiato mancherà all’arroganza, senza voce
per la paura e l’orrore della fuga.
PRIMO SENATORE
Nobile, e giovane:
quando le tue prime proteste erano
una semplice idea, prima che tu avessi
la forza, e noi motivo di temere,
ti inviammo messaggeri per lenire la tua ira,
cancellare la nostra ingratitudine, con affetto
assai più grande di entrambe.
SECONDO SENATORE
Corteggiammo del pari il trasformato Timone
con umili messaggi e con promesse
perché amasse di nuovo la nostra città.
Non tutti fummo crudeli, non tutti meritiamo
la pena comune della guerra.
PRIMO SENATORE
Queste nostre mura non furono erette
dalle mani di coloro che ti hanno fatto torto;
né i torti sono tali che queste grandi torri,
monumenti e scuole, debbano cadere
per colpe private commesse al loro interno.
SECONDO SENATORE
Né sono più tra i vivi coloro
che furono la causa prima del tuo esilio.
La vergogna per aver mancato di astuzia,
ha spezzato i loro cuori. Marcia,
nobile signore, nella nostra città
a bandiere spiegate. Con la decimazione
se le tue vendette hanno fame di quel cibo
che ripugna alla natura, prenditi il decimo
destinato e con l’azzardo del dado segnato
fai morire chi ha il segno.
PRIMO SENATORE
Non tutti hanno offeso. Non è giusto
vendicarsi di quelli che furono su coloro
che sono: i delitti non sono ereditari
come le terre. Caro compatriota,
fa’ dunque entrare le tue schiere
ma lascia fuori la tua ira; risparmia
la tua culla ateniese e quei congiunti
che nel vortice del tuo furore cadrebbero
con chi ha peccato. Come il pastore,
accostati all’ovile ed elimina le bestie infette
ma non ucciderle tutte.
SECONDO SENATORE
Ciò che tu vuoi l’otterrai
più col sorriso che sguainando la spada.
PRIMO SENATORE
Appoggia appena il piede sulle nostre
porte barricate, ed esse si apriranno,
purché tu mandi avanti il tuo cuore gentile
ad annunciare che entrerai da amico.
SECONDO SENATORE
Getta il guanto o qualsiasi altro
pegno del tuo onore, per dire che la guerra
la userai come riparazione e non
come distruzione: tutte le tue truppe
troveranno alloggio nella nostra città
finché non avremo del tutto soddisfatto
ogni tuo desiderio.
ALCIBIADE
Ecco il mio guanto. Scendete e aprite
le vostre porte incolumi. A cadere
saranno i nemici di Timone e miei
che voi stessi destinerete alla condanna – nessun altro.
E per placare i vostri timori e dirvi
le mie più nobili intenzioni, ogni mio uomo
che lasci il suo quartiere o turbi il corso
regolare della giustizia nei confini della città
sarà consegnato alle vostre leggi
per essere giudicato col massimo rigore.
ENTRAMBI
Hai parlato nobilmente.
ALCIBIADE
Scendete, e mantenete la parola.
Entra un Soldato.
SOLDATO
Nobile generale, Timone è morto
ed è sepolto sulla riva del mare.
Sulla sua pietra tombale c’è questa iscrizione,
che ho preso con la era, e la cui molle impronta
è interprete migliore della mia povera ignoranza.
ALCIBIADE [leggendo l’Epitaffio]
Qui giace un misero corpo
dell’anima misera privo.
Non cercate il mio nome.
Maledetti manigoldi rimasti
vi consumi la peste!
Qui giaccio io, Timone,
che, vivo, tutti i vivi odiai.
Passa e maledici quanto vuoi
ma passa, non arrestarti mai.
Queste parole esprimono bene
i tuoi ultimi sentimenti. Tu abborrivi
in noi i nostri umani dolori, disprezzavi
il flusso del cuore e le gocce
che versa l’avara natura – eppure
la tua ricca fantasia ti insegnò a far piangere
per sempre il vasto Nettuno sulla tua tomba
umile, per colpe perdonate. Morto
è il nobile Timone, della cui memoria
altro più avanti. Portatemi nella città
e io userò l’ulivo insieme alla spada,
alla guerra farò generare la pace,
costringerò la pace a frenare la guerra,
così che l’una sia il medico dell’altra.
Rullino i nostri tamburi. [Escono]
Timone d’Atene
(“Timon of Athens” – 1605 – 1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V