Timone d’Atene – Atto II
(“Timon of Athens” – 1605 – 1608)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
ATTO SECONDO – SCENA PRIMA
Entra un Senatore.
SENATORE
E ultimamente, cinquemila denari; a Varrone e Isidoro
ne deve novemila, oltre al mio prestito di prima,
il che fa venticinque. Sempre in un turbine
di furioso spreco? Non può durare,
non durerà. Se ho bisogno d’oro,
non faccio che rubare il cane a un mendicante
e darlo a Timone – ebbene, il cane
conierà oro. Se voglio
vendere il mio cavallo e comprarne altri venti
migliori di lui – lo do a Timone.
Non chiedo niente, do: e subito mi figlia
cavalli vigorosi. A casa sua
non c’è il portiere ma uno che sorride
e invita dentro ogni passante.
Non può durare.
Nessun uomo ragionevole
può ritenere il suo stato sicuro.
Ehi, Cafis! Cafis, dico!
Entra Cafis.
CAFIS
Eccomi, signore. Cosa desiderate?
SENATORE
Mettiti il mantello e corri immediatamente
dal nobile Timone; chiedigli il mio denaro;
non lasciarti fermare da una debole scusa,
né zittire quando dirà,
“Ossequiami il tuo padrone” e con la mano destra
giocherà col berretto, così – ma digli
che le mie necessità lo chiedono a gran voce;
che debbo provvedere col mio; le sue cambiali
sono scadute e la fiducia che ho avuto
nelle sue promesse non mantenute
ha danneggiato il mio credito. Io lo amo e lo rispetto
ma non posso rompermi la schiena
per curargli un dito. Il mio bisogno è urgente:
mi serve denaro, non un palleggio di parole.
Vai! Assumi un’aria importuna, fa’ il muso
duro: temo infatti che quando
ogni piuma sarà tornata
nella propria ala, il nobile Timone,
oggi risplendente come la Fenice,
sarà un pollo spennato. Vai.
CAFIS
Vado, signore.
SENATORE
“Vado, signore!” Portati dietro le cambiali,
e mettici le date. Su.
CAFIS
Lo farò, signore.
SENATORE
Vai. [Escono]
ATTO SECONDO – SCENA SECONDA
Entra Flavio, con molte fatture in mano.
FLAVIO
Non se ne cura, non smette; così ignaro
della spesa che non vuole né sapere
come sostenerla né farla finita
col suo fiume di festini. Non tiene conto
delle cose che perde, né pensa a che avverrà
continuando. Mai mente fu destinata
ad essere così folle
per essere tanto generosa. Che fare?
Non mi ascolterà, se non avrà provato.
Debbo parlargli chiaro, al ritorno dalla caccia.
Che vergogna, che vergogna!
Entrano Cafis e i servi di Isidoro e Varrone.
CAFIS
Buona sera; vieni per il denaro di Varrone?
SERVO DI VARRONE
Non sei anche tu qui per questo?
CAFIS
Sì. E tu per quello di Isidoro?
SERVO DI ISIDORO
Sì.
CAFIS
Speriamo che ci saldi tutti!
SERVO DI VARRONE
Ho i miei dubbi.
CAFIS
Ecco il nobile Timone.
Entra Timone col suo seguito, e Alcibiade.
TIMONE
Finito il pranzo, usciremo di nuovo,
mio Alcibiade! [A Cafis] Cerchi me? Che vuoi?
CAFIS
Mio signore, c’è una lista di somme dovute.
TIMONE
Dovute? Da dove vieni?
CAFIS
Da Atene, signore.
TIMONE
Rivolgiti al mio intendente.
CAFIS
Scusate, signore, ma è tutto il mese
che lui mi rimanda da un giorno all’altro.
Il mio padrone ha grande necessità
di riscuotere il suo e umilmente vi prega
di conformarvi alle altre vostre
nobili qualità nel dargli il dovuto.
TIMONE
Mio onesto amico,
Ti prego solo di venire domani.
CAFIS
Ma, mio caro signore…
TIMONE
Calmati, buon amico.
SERVO DI VARRONE
Sono servo di Varrone, mio buon signore.
SERVO DI ISIDORO
Io di Isidoro; chiede umilmente un sollecito pagamento.
CAFIS
Se conosceste, signore, le necessità del mio padrone…
SERVO DI VARRONE
È scaduto, signore, più di sei settimane fa.
SERVO DI ISIDORO
Il vostro intendente rinvia sempre, signore, e mi hanno ordinato di venire da Vostra Signoria.
TIMONE
Fatemi respirare.
Vi prego, miei buoni signori, andate avanti.
Sarò da voi tra un istante.
[Escono Alcibiade e Nobili]
[A Flavio] Vieni qui. Dimmi, di grazia,
che mai succede al mondo, se,
contro il mio onore, vengo aggredito
da accuse clamorose di debiti, di cambiali
non pagate, di somme da gran tempo dovute?
FLAVIO [a Cafis e agli altri servi]
Vi prego, signori,
il momento non è adatto per questi affari.
Smettete di importunare fino a dopo il pranzo
sì ch’io possa spiegare al mio signore
perché non siete stati pagati.
TIMONE
Fate così, amici miei.
Bada che abbiano un buon trattamento. [Esce]
FLAVIO
Vi prego, venite.
Entrano Apemanto e il Matto.
CAFIS
Fermi, fermi: ci sono il Matto e Apemanto. Divertiamoci un po’ con loro.
SERVO DI VARRONE
Che s’impicchi! Ci insulterà.
SERVO DI ISIDORO
Peste lo colga, cane!
SERVO DI VARRONE
Come stai, Matto?
APEMANTO
Dialoghi con la tua ombra?
SERVO DI VARRONE
Non parlo a te.
APEMANTO
No, parli a te stesso. [Al Matto] Vieni via.
SERVO DI ISIDORO [al Servo di Varrone]
Hai già il Matto sulla schiena.
APEMANTO
No, sei solo. Non sei ancora su di lui.
CAFIS
Dov’è il Matto ora?
APEMANTO
Dov’è quello che ha fatto la domanda per ultimo. Povere canaglie, servi di usurai, ruffiani tra l’oro e il bisogno!
SERVI
Noi che cosa siamo, Apemanto?
APEMANTO
Somari.
SERVI
Perché?
APEMANTO
Perché mi chiedete che cosa siete e non conoscete voi stessi. Parlagli, Matto.
MATTO
Come state, signori?
SERVI
Grazie tante, buon Matto. Come sta la tua signora?
MATTO
Sta mettendo su l’acqua per bollire galline come voi. Vorrei vedervi nei bordelli di Corinto!
APEMANTO
Bene! Bravo!
Entra il Paggio.
MATTO
Guardate! C’è il paggio del mio padrone.
PAGGIO [al Matto]
Ebbene, capitano, come va? Che ci fate in questa compagnia di saggi? Come stai tu, Apemanto?
APEMANTO
Vorrei avere una verga in bocca, per poterti rispondere con profitto.
PAGGIO
Ti prego, Apemanto, leggimi l’indirizzo di queste lettere: non capisco di chi si tratti.
APEMANTO
Non sai leggere?
PAGGIO
No.
APEMANTO
E allora il giorno che t’impiccheranno la cultura non morirà. Questa è per il nobile Timone – questa per Alcibiade. Va’, sei nato bastardo e morirai ruffiano.
PAGGIO
Tu sei nato cane e come un cane morirai di fame. Non rispondere: me ne vado. [Esce]
APEMANTO
Correrai sempre più forte della grazia di Dio. Matto, vengo con te dal nobile Timone.
MATTO
Mi lascerai lì?
APEMANTO
Se Timone è in casa, forse basta lui. Voi tre servite tre usurai?
SERVI
Sì. Magari fossero loro a servire noi.
APEMANTO
Anch’io vi servirei – come il boia il delinquente.
MATTO
Siete tre servi di usurai?
SERVI
Sì, Matto.
MATTO
Non c’è usuraio che non abbia un matto come servo; la mia signora è usuraia e io sono il suo matto. Quando gli uomini vengono a chiedere soldi in prestito ai vostri padroni, arrivano tristi e se ne vanno allegri; ma a casa nostra entrano allegri e se ne vanno tristi. Sapete il perché?
SERVO DI VARRONE
Io lo saprei.
APEMANTO
Dillo, allora, così potremo dire che sei un puttaniere e un mascalzone; e ciononostante non sarai stimato di meno.
SERVO DI VARRONE
Che cos’è un puttaniere, Matto?
MATTO
Un matto col vestito buono, un po’ come te. È un fantasma. Certe volte compare in forma di gran signore; altre volte di avvocato; altre di filosofo, con due pietre oltre quella filosofale. Molto spesso è in forma di cavaliere: e generalmente questo fantasma se ne va in giro in tutte le forme con cui l’uomo va su e giù per la vita, dagli ottant’anni ai tredici.
SERVO DI VARRONE
Tu non sei completamente matto.
MATTO
Né tu completamente savio. Tanta matteria ho io, e tanta intelligenza manca a te.
APEMANTO
Questa risposta sarebbe degna di Apemanto.
SERVI
Largo, largo, c’è il nobile Timone.
Rientrano Timone e Flavio.
APEMANTO
Vieni con me, Matto, vieni.
MATTO
Io non seguo sempre l’innamorato, il fratello maggiore e la donna; a volte seguo il filosofo.
FLAVIO
Vi prego, state nei pressi. Vi debbo parlare.
[Escono Apemanto, Matto e Servi]
TIMONE
Mi meraviglio che tu prima di oggi
non mi abbia esposto chiaramente
la mia situazione, sì che potessi
regolare le mie spese sui miei mezzi.
FLAVIO
Non mi davate ascolto. In molte occasioni
ho cercato…
TIMONE
Smettila.
Forse sceglievi proprio le occasioni
in cui, essendo di malumore, ti respingevo,
e quella mia inclinazione ti dava il destro
di scusare te stesso.
FLAVIO
Oh, mio buon signore,
quante volte ho portato i miei conti,
ve li ho messi davanti – voi li gettavate,
dicendo di trovarli nella mia onestà.
Quando per qualche dono da niente
mi ordinavate di ricambiare in eccesso,
ho scosso il capo e ho pianto: sì,
contro l’autorità delle buone maniere
vi ho pregato di tenere la mano più stretta.
Ho sopportato, non di rado, rimproveri
non lievi, quando vi suggerivo
che nuotavate nel riflusso della vostra ricchezza
e in un oceano di debiti. Amato signore,
anche se è troppo tardi ascoltatemi
almeno ora: ciò che possedete,
fosse pure valutato al massimo,
non basta a pagare nemmeno la metà
dei vostri debiti.
TIMONE
Si venda tutta la mia terra.
FLAVIO
È ipotecata, o confiscata, o perduta
e ciò che rimane basta a stento
a tappare la bocca ai debiti più urgenti.
Il futuro avanza di corsa. E l’intervallo
come lo difenderemo, e quale, alla fine,
sarà il bilancio?
TIMONE
La mia terra si estendeva fino a Sparta.
FLAVIO
Oh, mio buon signore, il mondo
non è che una parola: fosse tutto vostro
da regalare in un fiato, con che rapidità
scomparirebbe!
TIMONE
Dici la verità.
FLAVIO
Se sospettate che abbia amministrato male
o in modo disonesto, citatemi davanti
ai revisori più rigorosi, mettetemi alla prova.
Quando tutte le nostre cucine erano zeppe
di parassiti che facevano bisboccia, e le volte
delle nostre cantine piangevano vino
spillato da ubriaconi, e ogni stanza ardeva
di luci e rimbombava di suoni e canti,
gli dei lo sanno che io mi ritiravo
dietro una botte senza tappo e univo le mie lacrime
al suo fiume.
TIMONE
Basta, ti prego.
FLAVIO
Cielo, dicevo, com’è generoso
questo signore! Quanti prodighi bocconi
hanno trangugiato, anche stasera,
zoticoni e servi! Chi non è tutto di Timone?
Quale cuore, testa, spada, forza,
patrimonio, che non sia del nobile Timone,
del grande, degno, regale, magnifico Timone?
Ah, ma quando se ne sono andati
i mezzi con cui comprare questi elogi,
se n’è andato anche il fiato per farli.
Col festino si ottiene il digiuno.
Basta l’acquazzone di una nuvola d’inverno
per fare rintanare queste mosche.
TIMONE
Su, smettila di predicarmi il sermone.
Nessuna generosità disonesta ha ancora
attraversato il mio cuore; incautamente,
non ignobilmente, ho donato.
Perché piangi? È possibile che tu abbia
tanto poco cervello da pensare
che mi manchino gli amici? Rassicura il tuo cuore.
Se aprissi i forzieri del loro affetto
e mettessi alla prova le espressioni dei loro cuori
chiedendo prestiti, potrei liberamente
disporre delle fortune di uomini e uomini
come posso ordinare a te di parlare.
FLAVIO
L’esito benedica i vostri pensieri.
TIMONE
E in qualche modo queste mie ristrettezze
hanno un loro valore, e tanto che le considero
una benedizione: con esse infatti
posso mettere alla prova gli amici. Ti accorgerai
quanto male hai valutato le mie fortune:
io sono ricco nei miei amici.
Ehi, di dentro! Flaminio! Servilio!
Entrano Flaminio, Servilio e un altro Servo.
SERVI
Signore! Signore!
TIMONE
Andrete separatamente; [a Servilio] tu, dal nobile Lucio; tu [a Flaminio] dal nobile Lucullo (sono andato a caccia con Suo Onore, oggi); [al terzo Servo] tu da Sempronio. Ricordatemi al loro affetto; e dite che sono orgoglioso che le circostanze mi abbiano fornito l’occasione di chieder loro del denaro. La richiesta sia di cinquanta talenti per ciascuno.
FLAMINIO
Agli ordini, signore. [Escono i Servi]
FLAVIO [a parte]
Lucio e Lucullo? Mah!
TIMONE [a Flavio]
E tu, amico, va’ dai senatori,
dei quali, avendo io fatto il massimo per Atene,
ho meritato l’ascolto. Chiedi al Senato
di mandarmi all’istante mille talenti.
FLAVIO
Ho osato, sapendo che era l’uso generale,
rivolgermi a loro usando il vostro nome
e sigillo; ma scuotono il capo ed io
torno non più ricco di prima.
TIMONE
È vero? Può essere?
FLAVIO
Rispondono con voce unanime e concorde
che c’è la crisi, mancano di fondi,
non possono fare ciò che vorrebbero,
spiacenti; voi siete un uomo d’onore
ma avrebbero preferito – non sanno che –
qualcosa è andato storto – una natura nobile
può sbandare – vorrebbero che tutto
andasse bene – che peccato – e così,
adducendo altri affari importanti, dopo
sguardi disgustati e mezze parole,
con saluti appena abbozzati e freddi
cenni del capo, mi gelano e sto zitto.
TIMONE
O dei, ricompensateli!
E tu, amico, sta’ allegro. In questi vecchi
l’ingratitudine è ereditaria, il loro sangue è melmoso,
è freddo, scorre a stento, e la mancanza
di calore naturale rende loro stessi innaturali.
E la natura, muovendo di nuovo verso la terra,
si acconcia per il viaggio, si fa torpida e pesante.
Va’ da Ventidio. Ti prego, non essere triste.
Tu sei sincero e onesto; e sinceramente dico
che non hai alcuna colpa. Di recente Ventidio
ha sepolto suo padre, entrando in possesso,
con la sua morte, di una grande fortuna.
Quand’era povero, incarcerato e senza amici,
io l’ho riscattato con cinque talenti.
Portagli i miei saluti, digli che ora
il suo amico è toccato da una vera necessità,
la quale invoca d’essere alleviata da lui
con quei cinque talenti. Avuti questi,
paga quello per cui c’è più urgenza.
Non dire né pensare mai
che le fortune di Timone tra i suoi amici
possano andare a picco.
FLAVIO
Vorrei non doverlo pensare. Quel pensiero
è nemico dell’uomo generoso: tale essendo lui,
ritiene che lo siano tutti gli altri. [Escono]
Timone d’Atene
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