(“Troilus and Cressida” – 1601)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Introduzione al teatro di Shakespeare
Elenco opere teatrali
ATTO TERZO – SCENA PRIMA
Musica dall’interno. Entra Pandaro con un servo.
PANDARO
Ehi tu, di’ un po’, amico, non sei mica al seguito del giovane signor Paride?
SERVO
Sissignore, lo seguo quando è avanti.
PANDARO
Insomma, sei un suo dipendente.
SERVO
Signore mio, io dipendo dal Signore.
PANDARO
Dipendi da un nobile gentiluomo; non posso che lodarlo.
SERVO
Il Signore sia lodato!
PANDARO
Ma tu mi conosci, vero?
SERVO
Sì, mi pare, superficialmente.
PANDARO
Conoscimi meglio, amico, sono il signor Pandaro.
SERVO
Spero di conoscere vostro onore in modo migliore.
PANDARO
È quello che mi auguro.
SERVO
Siete in stato di grazia?
PANDARO
Grazia? No, amico mio; posso farmi chiamare “vostro onore” e “vostra signoria”. Ma cos’è questa musica?
SERVO
La conosco in parte, signore; è una partita.
PANDARO
Conosci i suonatori?
SERVO
In tutto, signore.
PANDARO
E per chi suonano?
SERVO
Per chi li ascolta, signore.
PANDARO
Amico, per piacere di chi?
SERVO
Per il mio, signore, e di quelli che amano la musica.
PANDARO
Voglio dire comando, amico.
SERVO
Chi devo comandare, signore?
PANDARO
Amico, qui non ci si capisce. Io son troppo cortese e tu troppo accorto. A richiesta di chi suonano costoro?
SERVO
Ora sì che capisco, signore. Diamine, signore, a richiesta del mio padrone Paride, che è lì in persona; con lui c’è la Venere mortale, il cuore della bellezza, l’anima visibile dell’amore.
PANDARO
Chi, mia nipote Cressida?
SERVO
No, signore, Elena: non l’avete capito da ciò che ne dicevo?
PANDARO
Si direbbe, brav’uomo, che non hai visto la signora Cressida. Io sono qui per parlare a Paride da parte del principe Troilo. Farò su di lui un assalto di complimenti, perché la mia richiesta è scottante.
SERVO (a parte)
Un affare che bolle! Questo sì che è un modo di dire da bordello!
Entrano Paride e Elena col loro seguito.
PANDARO
Belle cose a voi, mio signore, e a tutta questa bella compagnia! Possiate desiderare cose belle e in bella misura, specialmente voi, regina bella! E siano il vostro bel cuscino una messe di bei pensieri!
ELENA
Caro signore, belle parole davvero.
PANDARO
A vostro bel gradimento, dolce regina. Bel principe, che bel contrappunto!
PARIDE
Caro mio, sei tu che hai rotto i suoi punti; e per l’anima mia ti tocca rappezzarlo; vuol dire che lo rattopperai con una pezza del tuo repertorio. Elenina, costui ha la musica nel sangue.
PANDARO
Veramente signora, non è affatto vero.
ELENA
Oh, signore…
PANDARO
Non so cantare, davvero; ve lo giuro, non so affatto cantare.
PARIDE
Ben detto, signor mio; bene, ripetilo cantando.
PANDARO
Cara regina, son qui per un affare col principe. Mi concedete una parola, monsignore?
ELENA
Eh no, questa scusa non ci lascerà a bocca asciutta; vogliamo sentirvi cantare, e canterete!
PANDARO
Beh, volete scherzare con me, bella regina. Ma, sul serio, mio signore, signore carissimo e amico stimatissimo, vostro fratello Troilo…
ELENA
Via, messer Pandaro, dolcissimo sire…
PANDARO
Ma sì, dolce regina, ma sì… si ricorda affettuosamente a voi…
ELENA
Non ci priverete del vostro canto melodioso; se lo fate, avrete sulla coscienza la nostra melanconia!
PANDARO
Dolce regina, dolce regina; parola mia che dolce regina…
ELENA
E rattristare una dolce signora è una brutta offesa.
PANDARO
Ma no, in questo modo non la spuntate, non la spuntate certo, via. Non mi lascio vincere da queste paroline, no di certo; per tornare a noi, signore mio, egli vi prega, se il re stasera a cena chiedesse di lui, di fare le sue scuse.
ELENA
Signor Pandaro…
PANDARO
Cosa dice la mia dolce regina, la mia dolcissima, dolcississima regina?
PARIDE
Che cos’ha per le mani, dove cena stasera?
ELENA
No, ma davvero signore…
PANDARO
Dite, dite, mia dolce regina! Mia nipote vi terrà il broncio.
ELENA (a Paride)
Non lo devi sapere dove lui cena.
PARIDE
Ci gioco la testa, con la nostra tirannella Cressida.
PANDARO
No, no, non è così, sbagliate di molto! Via, la vostra tirannella è indisposta.
PARIDE
Va bene, ci penso io a scusarlo.
PANDARO
Bene, mio buon monsignore. Ma perché dite Cressida? No, la vostra povera tirannella sta male.
PARIDE
Io tengo gli occhi aperti.
PANDARO
Tenete gli occhi aperti? E su che cosa? Su, datemi uno strumento. Eccomi pronto, dolce regina.
ELENA
Vedete che sapete essere gentile!
PANDARO
Mia nipote Cressida è innamorata cotta di qualcosa che è in vostro possesso, dolce regina.
ELENA
È sua, mio signore, a patto che non sia il signor mio Paride.
PANDARO
Lui? No, non ne vuol sapere di lui; una volta le era entrato nel cuore, ma adesso ne è uscito.
ELENA
Già, ma a forza di entrare e uscire, finisce che da due diventano tre.
PANDARO
Su, su, non ne parliamo più; ora vi canto una canzone.
ELENA
Oh, sì, per favore! Ma lo sai, mio dolce signore, hai proprio una bella fronte.
PANDARO
Continuate, continuate!
ELENA
E che sia una canzone d’amore: oh, questo amore ci distruggerà tutti. Oh Cupido, Cupido, Cupido!
PANDARO
L’amore? Eh sì! Lo farà.
PARIDE
Allora, d’accordo, amore amore e nulla più.
PANDARO
A dire il vero è così che attacca.
Canta.
Amor, amore e nulla più, ancora amor, ancora!
Perché, oh, l’arco d’amore
daino e cerva trafigge,
la sua freccia stordisce,
e non ferisce,
ma dove punge dà un continuo pizzicore.
Oh, oh – gridan gli amanti, – Oh! Godono da morire!
Ma cio che pareva ferita mortale
cambia lo oh! in ah! eh! ih!
Così l’amore, morendo, vive;
Oh! Oh! per un po’. Ma poi ah, ah!
E il gemito, oh oh, diventa ah, olà!
ELENA
Siamo cotti, affé mia, sino alla punta del naso.
PARIDE
L’amore è una dieta di colombelle, e il sangue così si scalda, e il sangue caldo sforna caldi pensieri; e i pensieri caldi generano azioni ardenti, e le azioni ardenti sono l’amore.
PANDARO
Sarebbe questa la genesi dell’amore? Sangue caldo, pensieri caldi, azioni calde? Sì, proprio come le vipere. L’amore è dunque una nidiata di vipere? Chi è in campo oggi, mio signore?
PARIDE
Ettore, Deifobo, Eleno, Antenore e tutto il meglio di Troia. Volevo prendere le armi anch’io, ma la mia Elenuccia ha puntato i piedi. Ma com’è che mio fratello Troilo non è andato?
ELENA
Deve avercela per qualcosa. Il signor Pandaro lo deve saper bene!
PANDARO
Lo ignoro, reginella di miele. Non vedo l’ora di sapere com’è andata oggi. Ve lo ricorderete di scusare vostro fratello?
PARIDE
Sì, per filo e per segno.
PANDARO
Vi saluto, dolce regina.
ELENA
Ricordatemi alla nipotina.
PANDARO
Lo faro, dolce regina. Esce.
Suona la ritirata.
PARIDE
Tornano dal campo; andiamo al palazzo di Priamo
a salutare i combattenti. Dolce Elena, devo farti la corte,
perché dia mano a svestire Ettore dell’armatura.
Le dure fibbie, toccate dalle tue bianche dita ammaliatrici,
saranno più docili che al filo tagliente dell’acciaio
o alla forza dei muscoli greci. Farai più tu
che tutti i re delle isole; disarmerai
il grande Ettore.
ELENA
Sarà un orgoglio servirlo come dici, Paride;
sì, rendergli l’omaggio che a lui dobbiamo,
aggiungerà più lustro alla nostra beltà di quello che abbiamo,
sì, ci darà più luce.
PARIDE
Dolcezza mia, ti amo più che si possa pensare. Escono.
ATTO TERZO – SCENA SECONDA
Entrano Pandaro e l’attendente di Troilo.
PANDARO
Oh! dov’è il tuo padrone? Da mia nipote Cressida?
ATTENDENTE
Nossignore, aspetta che voi ce lo portiate.
Entra Troilo.
PANDARO
Eccolo qua. Allora, come va? Come va?
TROILO
Tu, vattene via. Esce l’attendente.
PANDARO
Avete visto mia nipote?
TROILO
No, Pandaro. Vado su e giù davanti alla sua porta,
come un’anima nuova sulla sponda di Stige,
che aspetta di traghettare. Ah, sii tu il mio Caronte,
trasportami d’un lampo ai Campi Elisi,
e lì potrò rotolarmi nei letti di gigli
promessi a chi li merita! O dolce Pandaro,
stacca le ali colorate dalle spalle di Cupido
e vola con me da Cressida!
PANDARO
Fa’ quattro passi in giardino, ve la porto subito. Esce.
TROILO
Mi gira la testa, l’attesa mi rende ubriaco.
È così dolce godere l’immaginario,
che mi strega i sensi. Ma che sarà
quando il palato che già sta pregustandolo
assaggerà il nettare tre volte distillato dell’amore?
Sarà la morte, temo, sarà il venir meno, la distruzione,
o una gioia che è troppo fine,
troppo potente nella sottigliezza,
un tono troppo acuto di dolcezza
perché lo percepiscano i miei sensi rozzi.
Ne ho davvero paura, e poi
di non saper più distinguere i piaceri,
come uno squadrone quando carica alla rinfusa
il nemico che fugge.
Entra Pandaro.
PANDARO
Si sta preparando, viene subito. Ora, testa a posto. Arrossisce e ansima come la impaurisse un fantasma. La vado a prendere. È la mascalzoncella più graziosa che ci sia! Ha il respiro corto come un passero appena preso. Esce.
TROILO
La stessa passione mi stringe il petto.
Il cuore batte più veloce del polso di un febbricitante;
le mie facoltà sono smarrite come vassalli
quando all’improvviso incontrano l’occhio del re.
Entrano Pandaro e Cressida, velata.
PANDARO
Vieni, vieni, non c’è bisogno di far la faccia rossa: la vergogna è bambina. (A Troilo) Eccovela qui. E ora ripetete a lei i giuramenti fatti a me. (A Cressida) Ma come, te ne rivai via? Bisogna proprio tenerti a briglia corta finché non sei domata? Qui, qui, avanti, e se rinculi ti metteremo nelle stanghe. (A Troilo) E voi, perché non le parlate? (A Cressida) Avanti, scosta il sipario, e vediamo questo quadro. Mamma mia, che paura hai di offendere la luce del giorno! Se fosse buio, avresti più coraggio di stringerti a lui. (A Troilo) Così, così va bene, accarezzala e bacia la tua donnina. Ma guarda, un bacio in usucapione! Costruisci qui, falegname, l’aria è dolce. Beh, ora vi farete strappare il cuore prima di farvi separare. Scommetto tutte le oche nel fiume che la falchetta avrà lo stesso zelo del falco – Sotto! Sotto!
TROILO
Mi avete rubato tutte le parole, signora.
PANDARO
Parola non paga debito; fatti, bisogna darle! Ma questa qua vi lascia pure a secco di fatti, se si decide a mettere a prova la vostra capacità di fare. Come, ancora a darvi di becco? Qua, vi sposo io con la formula giusta: “Per prova di che le parti mutualmente…”. A letto, a letto, che io penso a procurarvi del fuoco. Esce.
CRESSIDA
Volete entrare, mio signore?
TROILO
O Cressida, quante volte ho desiderato questo momento!
CRESSIDA
Desiderato, signore? Volessero gli dèi! Oh, mio signore!
TROILO
Volessero cosa? Che vuol dire questa graziosa interruzione? Cos’è quel fondo strano che la mia dolce signora va spiando nella fontana del nostro amore?
CRESSIDA
Più feccia che acqua, se le mie paure hanno occhi.
TROILO
Le paure fanno diavoli dei cherubini; non vedono mai la verità.
CRESSIDA
La paura cieca, guidata dall’occhio della ragione, cammina più sicura della ragione cieca che inciampa senza paura: temere il peggio fa spesso evitare il peggio.
TROILO
Oh, la mia signora non deve aver paura. Non ci sono mostri nel corteo di Cupido.
CRESSIDA
E neanche nulla di mostruoso?
TROILO
Soltanto i nostri giuramenti, quando facciamo voto di piangere mari, vivere nel fuoco, mangiare le rocce, domare le tigri, quando pensiamo che sia più difficile per la nostra amata escogitare prove abbastanza difficili che per noi superare qualunque difficoltà ci venga imposta. Questo c’è di mostruoso nell’amore, mia dolcezza: che la volontà è infinita e cio che si puo fare è limitato, che il desiderio è sconfinato e l’atto è schiavo del limite.
CRESSIDA
Dicono che gli innamorati si vantano di saper fare più di quanto non sono capaci di fare, e che però si tengono per sé una capacità che non mettono mai in atto: promettono più di dieci e mantengono meno di un decimo di uno. Hanno voce di leoni e agiscono da lepri, dunque non sono dei mostri?
TROILO
Ma davvero ce n’è di tali? Noi non siamo fatti così. Lodateci dopo averci assaggiati, metteteci prima alla prova. Andremo a testa nuda finché il merito non l’incoroni; nessuna lode al presente sarà concessa per una perfezione al futuro. Non daremo nome al merito se non quando sarà nato e, quando sarà nato, avrà lodi modeste. Chi sa mantenere fede ha bisogno di poche parole; Troilo sarà tale per Cressida che l’invidia non potrà fare di peggio che schernire la sua fiducia, e cio che la verità potrà dire di più vero non sarà più vero di Troilo.
CRESSIDA
Volete entrare, mio signore?
Entra Pandaro.
PANDARO
Ma come, ancora rossori? Ancora non avete finito di parlare?
CRESSIDA
Va bene, zio, vorrà dire che ti dedicherò la pazzia che sto per fare.
PANDARO
Grazie di cuore! Così se monsignore ti farà fare un bel figliolo, lo darai a me. Sii fedele al mio signore, se lui si tira indietro, dà pure a me la colpa.
TROILO
Ora sai quali sono i tuoi ostaggi: la parola di tuo zio e la mia salda fedeltà.
PANDARO
Ma anche per lei io do la mia parola. Le nostre donne sono fatte così, ci vuole un po’ per vincerne la resistenza, ma una volta vinte sono costanti. Sono come le lappole, ve lo dico io: dove le tiri s’attaccano.
CRESSIDA
Voglio essere audace, sono rinfrancata:
principe Troilo, vi ho amato
giorno e notte per molti lunghi mesi.
TROILO
Perché allora la mia Cressida è stata così dura da vincere?
CRESSIDA
Dura di sembrare vinta. Ma fui vinta, mio signore,
dal primo vostro sguardo – ma scusate;
se confesso troppo, voi farete il tiranno.
Ora vi amo, ma finora non al punto
da non poter padroneggiare la passione.
In effetti, mento: i miei pensieri,
come figli sfrenati, s’erano fatti
troppo testardi per la loro madre.
Ma lo vedi, come siamo sciocche!
Perché ho parlato tanto? Chi ci sarà fedele
se i nostri segreti li mettiamo in piazza?
Ecco, vi amavo tanto, ma senza corteggiarvi;
eppure giuro che ho desiderato d’essere
nata uomo, o che noi donne si avesse
dell’uomo il privilegio di parlare per prime.
Amore, ordinami di frenare la lingua:
in questa ebbrezza dirò certo cose
di cui mi pentirò. Lo vedi? Il tuo silenzio,
astuto e chiuso, alla mia debolezza
ruba i segreti più fondi. Chiudimi la bocca.
TROILO
Sì, sebbene ne esca una musica dolcissima. La bacia.
PANDARO
Davvero graziosi.
CRESSIDA
Mio signore, ti supplico, perdonami:
non intendevo mendicare un bacio.
Mi vergogno! Cielo, che cosa ho fatto?
Per questa volta ti chiedo permesso, signore.
TROILO
Permesso, dolce Cressida?
PANDARO
Permesso? Se te ne vai fino a domani mattina…
CRESSIDA
Vi prego, accontentatevi.
TROILO
Cos’è che ti turba?
CRESSIDA
Signore, la mia stessa compagnia.
TROILO
Non puoi sfuggire a te stessa.
CRESSIDA
Fammene andare, ci proverò.
Una parte di me resta con te.
Ma è una parte che non mi è amica, e che rinuncia a se stessa
per far da zimbello a un altro. Dove l’ho il cervello?
Me ne voglio andare, non so più cosa dico.
TROILO
Ben sa cosa dice chi parla così saggiamente.
CRESSIDA
Forse, signore, sono apparsa più furba che innamorata,
e mi son data a una così ampia confessione
per adescare i tuoi pensieri. Ma tu sei saggio,
o forse non ami, perché esser saggi e amare
supera il potere dell’uomo, è cosa per gli dei.
TROILO
Oh, potessi credere che una donna può –
e fosse possibile, saresti certo tu –
alimentare eternamente la fiamma del suo amore,
conservare giovane e costante la fede data,
che sopravviva alla bellezza esteriore, e con uno spirito
che si rigenera più presto del sangue che invecchia!
O potesse solo la persuasione convincermi di questo,
che la mia purezza e fedeltà a te potessero
trovare in te un amore di pari peso e vagliata purezza,
che esaltazione sentirei in questo caso!
Ma, ahimè, io sono vero come il vero più candido,
e più ingenuo della verità nella sua infanzia.
CRESSIDA
In questo io e te faremo a gara.
TROILO
Oh, lotta virtuosa, in cui
il giusto combatte col giusto su chi sarà più giusto!
D’ora in poi tutti gli innamorati veri
prenderanno come esempio Troilo. Quando i loro versi,
gonfi di proteste, di voti e di grandi similitudini,
saranno a corto di immagini, e la fedeltà sarà stanca
di ripetere “fedele come l’acciaio, come la pianta alla luna,
come il sole al giorno, come la tortora alla compagna,
come il ferro alla calamita, come la terra al suo centro”,
allora, dopo tutti questi paragoni di fedeltà,
ci sarà da citare colui che primo ne dette esempio:
“Fedele come Troilo” coronerà i versi
e renderà sacre le loro composizioni.
CRESSIDA
Che tu possa essere profeta!
E se io sarò falsa o devierò d’un pelo dalla fedeltà
quando il tempo invecchiato si scorderà di sé,
quando la pioggia avrà consumato le pietre di Troia,
e il cieco oblio avrà ingoiato le città,
e nazioni potenti saranno sgretolate senza fisionomia
fino ad essere il niente della polvere,
allora la memoria, fra tutte le donne infedeli,
dall’una all’altra, accusi la mia falsità!
Quando avranno detto
“Infida come l’aria, come l’acqua, come il vento,
o la sabbia, come la volpe con l’agnello,
o come il lupo col capretto,
o il leopardo col cervo, o la matrigna col figliastro”
aggiungano pure, per colpire il cuore dell’infedeltà:
“falsa come Cressida”.
PANDARO
Bene, l’affare è fatto. Sigillatelo, sigillatelo, io faccio da testimone. Qua la vostra mano, ora quella di mia nipote. Se mai uno dei due sarà infedele all’altro, dopo che io ho sputato sangue per questa unione, che tutti quei disgraziati di mezzani fino al giorno del giudizio siano chiamati come me: ma sì, tutti Pandari. Siano Troili tutti gli uomini fedeli, Cresside tutte le donne infedeli, e tutti i ruffiani Pandari. Dite “Amen”.
TROILO
Amen.
CRESSIDA
Amen.
PANDARO
Amen. Dopodiché vi indicherò una stanza con un letto. Il quale letto, perché non parli dei vostri graziosi scontri, schiacciatelo a morte: andate!
Escono Troilo e Cressida.
Conceda Cupido a tutte le vergini qui, che sanno tenere la lingua a posto, letto, camera, e un Pandaro che provveda a cio che serve. Esce.
ATTO TERZO – SCENA TERZA
Squilli di tromba. Entrano Agamennone, Ulisse, Diomede, Nestore, Aiace, Menelao e Calcante.
CALCANTE
Principi, per i servigi che vi ho reso
ora l’occasione propizia mi spinge
a chiedervi una ricompensa. Ricorderete
che, per il fatto che vedo bene nel futuro,
io ho lasciato Troia e ogni mio bene, sono
incorso nella nomea di traditore, e dal mio solido stato
mi son ritrovato esposto ad una sorte incerta,
escluso da quei vantaggi che il tempo,
le conoscenze, le abitudini e la posizione
avevan fatti abitudine cara alla mia natura;
e qui, per servire voi, son diventato
come un estraneo, che non conosce nessuno.
Dunque vi prego di volermi concedere
una piccola parte dei benefici promessimi,
e che, mi assicurate, mi toccheranno in futuro.
AGAMENNONE
Troiano, cos’è che vuoi da noi? Chiedi.
CALCANTE
C’è qui un prigioniero troiano, Antenore,
che è stato preso ieri. A Troia è molto caro.
Spesso voi avete – e ve n’ho rese grazie –
richiesto di scambiare la mia Cressida,
con uno di gran nome, e Troia ha rifiutato.
Ma Antenore, lo so, è così cruciale per i loro affari
che la loro economia senza di lui ristagna.
Quasi ci darebbero un principe del sangue,
un figlio di Priamo, in cambio. Restituitelo,
e lui ricomprerà la mia figliola.
E con lei qui saro ricompensato
per i duri servigi di buon grado prestati.
AGAMENNONE
Che Diomede s’incarichi di restituirlo
e di portar qui Cressida. Calcante avrà cio che chiede.
Buon Diomede, provvedi che lo scambio sia fatto.
Vedi anche di sapere se Ettore domani
conferma la sua sfida: Aiace è pronto.
DIOMEDE
Ci penso io; – è un compito
che assolvo con orgoglio.
Escono Diomede e Calcante. Achille e Patroclo stanno sull’ingresso della loro tenda.
ULISSE
Ecco Achille davanti alla sua tenda:
voglia il nostro comandante far finta di nulla
mentre gli passa davanti, come se non lo ricordassimo.
E voi, principi, lanciategli qualche occhiata distratta.
Io saro l’ultimo: è probabile, credo,
che mi chieda perché lo guardiamo in quel modo sfottente.
Se lo fa, ho una tisana di scherno,
da usare tra la vostra freddezza e la sua spocchia,
e lui avrà una voglia matta di berla.
Puo fargli bene: la superbia non ha altro specchio
che la superbia per vedersi; perché le ginocchia pieghevoli
nutrono l’arroganza e sono la paga del superbo.
AGAMENNONE
Metteremo in atto il vostro piano, e assumeremo
un’aria noncurante mentre gli passiamo davanti.
Principi, fate lo stesso: nessun saluto,
oppure un cenno sdegnoso che lo scuoterà
più ancora che il non essere guardato.
Vado avanti io.
ACHILLE
Cosa? il generale arriva per parlarmi?
Sapete come la penso: non combatto più contro Troia.
AGAMENNONE
Che dice Achille? Vuole qualcosa da noi?
NESTORE
Signore, volete qualcosa dal generale?
ACHILLE
No.
NESTORE
Niente, comandante.
AGAMENNONE
Tanto meglio.
Escono Agamennone e Nestore.
ACHILLE
Buon giorno, buon giorno.
MENELAO
Come va, come va? Esce.
ACHILLE
E che, mi sfotte, quel cornuto?
AIACE
Come va, Patroclo?
ACHILLE
Buona giornata a te, Aiace!
AIACE
Eh, che?
ACHILLE
Ho detto, buona giornata.
AIACE
Già, e buon domani. Esce.
ACHILLE
Che gli prende a tutti? Non riconoscono Achille?
PATROCLO
Ci passano davanti distratti. Prima s’inchinavano,
per mandare avanti ad Achille i loro sorrisi,
e avvicinarsi umilmente, come solevano
strisciare di fronte ai sacri altari.
ACHILLE
Da quando in qua son diventato un poveraccio?
Già, perché la grandezza, una volta sfortunata,
si perde anche il favore degli uomini per strada.
La propria disgrazia si legge nello sguardo degli altri
prima di sentirsela addosso; perché gli uomini,
come le farfalle, solo all’estate mostrano le ali incipriate;
non c’è uomo che venga onorato per essere solo uomo,
ma l’onore che ha è per quegli onori che stanno fuori di lui
come la posizione, le ricchezze, il favore,
frutti spesso del caso come del merito.
E quando cadono, essendo soggetti agli scivoloni,
ed essendo, l’affetto che a loro s’appoggia, scivoloso anch’esso,
l’uno si tira dietro l’altro e tutti assieme
muoiono nella caduta. Non è il mio caso.
Io e la fortuna siamo amici: mi godo ancora
in pieno tutto cio che possedevo
tranne gli sguardi di quelli lì, che forse
hanno scoperto in me un qualcosa di indegno
della stima opulenta che prima mi concedevano.
Ecco Ulisse. Interromperò la sua lettura.
Ulisse, alla buon’ora!
ULISSE
Dunque, figlio della grande Teti!
ACHILLE
Cosa state leggendo?
ULISSE
Un tipo strambo scrive
che l’uomo, per dotato che sia dalla natura,
per quanto abbia dentro di sé o fuori,
non puo vantarsi di avere cio che ha,
né sente cio che ha, se non di riflesso;
come quando le sue virtù, brillando su altri,
li riscaldano e quelli restituiscono il calore
al primo che l’ha dato.
ACHILLE
Niente di strano, Ulisse.
La bellezza che si porta qui sul volto
al portatore è ignota; essa si raccomanda
agli occhi altrui. Né l’occhio stesso poi,
purissimo tra i sensi, mira se stesso,
visto che non puo uscire da sé; ma l’occhio incontra l’occhio
e si salutano, l’uno con la forma dell’altro.
Perché la vista non si rivolge a sé
finché non ha viaggiato e non si specchia
là dove puo vedersi. Non è per niente strano.
ULISSE
Non è che io trovi strana questa opinione –
è cosa ovvia – ma la tesi del mio autore,
che su quel fatto fonda la sua prova
che nessuno è padrone di alcunché,
anche se molto c’è in lui e di lui,
finché le sue qualità non le comunica ad altri;
né, da se stesso, le puo mai conoscere
finché non le veda effigiate nell’applauso
altrui, dove si estendono; il quale, come un arco,
riverbera la voce. O come una porta d’acciaio
rivolta al sole, ne riceve e rende
l’immagine e il calore. La tesi mi ha colpito
e mi è venuta subito in mente la figura
dell’incosciente Aiace. Cielo, che razza d’uomo!
Un vero cavallo che non sa cosa porta!
O Natura! Quante cose ci sono
abiette nell’aspetto e preziose nell’uso!
E quante cose preziosissime nella stima
e povere in valore! Domani noi vedremo
– è un regalo che il puro caso gli detta addosso –
Aiace che diventa famoso. O cielo,
che cosa non fanno certuni, mentre altri
non si curano di fare!
Certa gente si insinua nella camera
della Fortuna bizzosa; e certi altri
le fanno gli imbecilli proprio davanti agli occhi!
Qualcheduno s’abbuffa della stima di un altro,
mentre l’orgoglio, pazzo, se ne resta a digiuno!
Ma guarda questi principi greci! Siamo al punto
che batton sulla spalla di quel cialtrone d’Aiace
come se già tenesse il suo piedone
sul petto del prode Ettore, e la grande Troia
urlasse già di terrore.
ACHILLE
Eccome se ci credo! Non mi passano davanti
come dei tirchi a un mendicante, senza concedere
uno sguardo o una parola buona? Forse che
le mie imprese se le sono dimenticate?
ULISSE
Signore, il tempo, grasso mostro d’un ingrato,
ha sulla schiena una borsa dove infila elemosine
per dimenticarsene.
Quegli scarti sono le buone azioni passate,
divorate man mano che son fatte, e, fatte,
dimenticate all’istante. La perseveranza,
caro sire, tiene lustro l’onore: avere fatto
è restare lì appesi, fuori moda,
come un’armatura arrugginita
che schernisce se stessa su un monumento.
Cogli l’istante, perché la gloria percorre un sentiero così stretto
che vi passa solo uno alla volta. E non mollare
mai il sentiero, perché l’emulazione ha mille figli
e ognuno incalza l’altro. Se ti fai di lato
o devii dalla giusta direzione,
si slanciano tutti, come una marea che monta,
e ti lascian per ultimo;
oppure, come l’ardito cavallo caduto in prima fila,
resti a far da ciottolo alla vile retroguardia,
travolto e calpestato. Ciò che essi fanno oggi,
per inferiore che sia a ciò che hai fatto in passato,
deve superarlo per forza; il tempo è come
un padrone di casa alla moda: all’ospite che parte
stringe appena la mano, e a braccia aperte
ti vola incontro a quello che è in arrivo.
Il benvenuto è tutto un sorriso, l’addio
svanisce sospirando.
Oh, la virtù non s’aspetti nulla per cio che è stata.
Perché bellezza, ingegno, natali nobili,
vigore fisico, meriti acquisiti,
amore, amicizia, carità,
tutto obbedisce all’invidia,
e alla calunnia del tempo.
Un tocco di natura fa tutto il mondo uguale:
che fa furore l’ultima invenzione,
benché ricavata e fatta da quelle del passato,
e si apprezza la polvere appena un po’ indorata
più dell’oro impolverato. L’occhio dell’oggi
apprezza l’oggetto dell’oggi. Dunque non ti stupire,
tu, uomo grande e completo,
che tutti i Greci comincino a idoleggiare Aiace:
le cose in movimento attraggono l’occhio
molto prima di quelle che son ferme.
Un tempo si urlava per te, e si potrebbe
urlare ancora, e si potrebbe sempre,
purché, mentre sei vivo, tu non ti seppellisca
e non chiuda la fama nella tua tenda;
le tue imprese gloriose ancora di recente
su questi campi han suscitato emulazione
fra gli stessi dèi, e spinto il grande Marte
a prendere le armi.
ACHILLE
Per questo mio ritiro
ho forti motivi.
ULISSE
Ma contro il tuo ritiro
ci sono ragioni più forti, e più eroiche.
È noto, Achille, che sei innamorato
di una delle figlie di Priamo.
ACHILLE
Come, noto?
ULISSE
Te ne stupisci? La preveggenza di uno stato
che vigila, conta la polvere dell’oro di Pluto,
gratta il fondo di abissi senza fondo,
scruta i cervelli, e, quasi come un dio,
svela i pensieri nascosti nelle loro culle.
C’è nel cuore dello stato un mistero
che mai nessuna indagine ardisce penetrare,
e talmente divino è il suo operare
che non c’è lingua o penna che ne possa dire.
I tuoi rapporti con Troia sono ben noti
a noi non meno che a te, signore mio.
E molto meglio si addirebbe ad Achille
stendere Ettore, piuttosto che Polissena.
Che dolore sarà per il giovane Pirro, in patria,
quando per le nostre isole correrà la voce
e tutte le ragazze greche salterellando
canteranno: “Del grande Ettore conquisto
Achille la sorella, ma il nostro grande
Aiace lo batté col suo coraggio”.
Vi ho parlato da amico. Addio, signore.
Lo sciocco scia sul ghiaccio che tu dovresti rompere.
Esce.
PATROCLO
A questo comportamento, Achille, t’ho spinto anch’io.
Una donna sfacciata che fa il maschio
è riprovata meno di un uomo effeminato
quando c’è da agire. Si ritorce tutto su di me:
pensano che il mio scarso spirito guerresco
e il tuo grande amore per me ti trattengono così.
Caro, scuotiti, e il debole, lascivo Cupido
ti libererà il collo dal suo abbraccio amoroso
e sarà scosso via come una goccia di rugiada
dalla criniera di un leone.
ACHILLE
Aiace combatterà con Ettore?
PATROCLO
Sì, per cavarne forse onore a iosa.
ACHILLE
Vedo che è in gioco la mia reputazione:
il mio onore è ferito dai maligni.
PATROCLO
E allora, attento!
Le ferite autoinflitte sono dure a guarire.
Omettete di fare il necessario
firma una cambiale di rischio in bianco.
E il pericolo, come una febbre insidiosa, contagia
anche quando sediamo in ozio a prender sole.
ACHILLE
Va’ a chiamare Tersite, caro Patroclo.
Manderò quel buffone da Aiace a pregarlo
di invitare i signori troiani a venir qui
da noi, dopo la sfida, disarmati.
Mi è presa una voglia da donna,
un desiderio che mi fa star male
di vedere il grande Ettore in veste di pace,
Entra Tersite.
di parlargli, di guardarlo bene in faccia
fino a saziarmene. – Una fatica in meno!
TERSITE
Che spettacolo!
ACHILLE
Cosa dici?
TERSITE
Aiace che va avanti e indietro per il campo in cerca di sé.
ACHILLE
Come sarebbe?
TERSITE
Domani deve battersi con Ettore in singolar tenzone, ed è così profeticamente fiero di un’eroica bastonatura che vaneggia senza che dica niente.
ACHILLE
Come può essere?
TERSITE
Ma sì, incede su e giù come un pavone: un gran passo e una fermata. Poi rumina come un’ostessa che di aritmetica possiede solo il cervello per mettere giù il conto, si mordicchia le labbra con uno sguardo da politicante, come a voler dire “Ce ne sarebbe di materia grigia in questa testa, venisse solo fuori” – e difatti ce ne sarà anche, ma se ne sta lì fredda dentro di lui come il fuoco nella pietra focaia, che non viene fuori se non si batte. L’uomo è comunque liquidato, perché se Ettore non gli rompe il collo in combattimento ci pensa da sé a romperselo con la vanagloria. Perfino me non riconosce. Dico: “Buona giornata, Aiace”, e lui risponde: “Grazie, Agamennone”. A cosa ti fa pensare uno che scambia me per il nostro capo? È diventato un vero pesce di terraferma, uno che è nato senza linguaggio, un fenomeno. Tutto effetto della vanagloria! Uno puo mettersela a dritto e a rovescio, come una giacca di cuoio.
ACHILLE
Portagli una mia ambasciata, Tersite.
TERSITE
Chi, io? Ma se quello non risponde a nessuno! Non rispondere è la sua professione. Parlare è da accattoni: ha la lingua nei muscoli. Mi proverò a imitarlo; di’ a Patroclo di farmi qualche domanda, e vedrai la sceneggiata di Aiace.
ACHILLE
A lui, Patroclo. Digli che io umilmente prego il valente Aiace di invitare il valorosissimo Ettore a venire nella mia tenda disarmato, e di procurargli un salvacondotto per la sua persona firmato dal magnanimo e illustrissimo e sei o sette volte onorato generalissimo dell’esercito greco, Agamennone, eccetera. Forza!
PATROCLO
Giove benedica il grande Aiace!
TERSITE
Uhm!
PATROCLO
Vengo da parte del nobile Achille…
TERSITE
Ah!
PATROCLO
… il quale vi prega umilmente di invitare Ettore nella sua tenda…
TERSITE
Uhm!
PATROCLO
… e di procurargli un salvacondotto da Agamennone.
TERSITE
Agamennone?
PATROCLO
Sì, mio signore.
TERSITE
Ah!
PATROCLO
Che rispondete?
TERSITE
Andate con Dio, lo dico di cuore.
PATROCLO
La vostra risposta, signore.
TERSITE
Se domani è bello, per le undici le cose andran così o così. Comunque mi dovrà pagare caro prima di beccarmi.
PATROCLO
La vostra risposta, signore.
TERSITE
Statevi bene, di tutto cuore.
ACHILLE
Ma allora è proprio suonato, vero?
TERSITE
No, è proprio stonato. Non so proprio che musica verrà fuori quando Ettore gli aprirà il cervello; nessuna, sono sicuro, a meno che Apollo sviolinatore non gli tolga i tendini per farne corde di violino.
ACHILLE
Basta, devi portargli subito una lettera.
TERSITE
E una anche per il suo cavallo, che dei due è il più ragionevole.
ACHILLE
La mia mente è turbata come una fonte smossa.
Io stesso non ne vedo il fondo.
Escono Achille e Patroclo.
TERSITE
Speriamo che torni limpida presto la fonte della tua zucca, così ci porto l’asino a bere. Meglio essere una zecca su una pecora che un simile eroe deficiente.
Esce.
Troilo e Cressida
(“Troilus and Cressida” – 1601)
Introduzione – Riassunto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V